Lezione americana
L’inciviltà nel dibattito politico americano è stata introdotta dagli intellettuali più sofisticati della loro generazione. Ora ci si affanna a castigare il costume dell’urlo televisivo, la polarizzazione crescente, le tinte populiste, gli attacchi triviali del Donald Trump di turno, con le battute da caserma e la tendenza ad aggredire l’avversario direttamente alla giugulare, senza pretattica e fasi di studio. Si depreca la tendenza al turpiloquio, l’avanspettacolo dei canali all news, i titoli mangiaclick, i tagli truffaldini ai video per estrapolare dal contesto le parole dell’avversario e darle in pasto agli squali dei social, si dice che l’insulto è stato sdoganato e l’opera di volgarizzazione dell’arte nobile della politica completata. Mordendosi nostalgicamente il labbro, si ricorda quanto erano belli, alti e nobili i tempi in cui si potevano addirittura fare ragionamenti politici in diretta televisiva senza essere interrotti dalle flatulenze dell’avversario, dimenticandosi però che i semi di questo stile sono stati piantati da un dandy libertino di antica famiglia politica e con modi raffinatissimi, Gore Vidal, e dal suo arcinemico, un intellettuale cattolico di rito antico con sconfinata capacità di dominio sulla lingua inglese che passava gli inverni in uno chalet sulle Alpi svizzere, William F. Buckley.
Il documentario “Best of Enemies” di Morgan Neville e Robert Gordon ci porta dentro al leggendario dibattito televisivo del 1968, dove i più civili fra gli intellettuali americani hanno riscritto il codice del discorso politico in senso turlupinante, con un duello politico in dieci puntate travalicato immediatamente nella faida personale, nell’esibizione senza infingimenti del disprezzo reciproco, con libertà di volare alto e di sferrare colpi bassi. Il culmine, il momento icastico, è arrivato quando fuori dalla convention democratica di Chicago sono iniziate le manifestazioni di protesta contro la politica di Lyndon Johnson in Vietnam, e il sindaco (democratico) ha risposto con uno saggio di “law and order” particolarmente apprezzato dal tribuno conservatore. Sapendo che avrebbe avuto l’effetto di uno spillo conficcato nella viva carne, Vidal ha preso a chiamare l’avversario “criptonazista”. Buckley ha perso la trebisonda: “Senti frocio, smettila di chiamarmi criptonazista o ti do un pugno in quella dannata faccia e te ne andrai via stordito”. Buckley si era praticamente alzato dalla sedia, puntando il dito minaccioso a pochi centimetri dal naso di Vidal, che per un attimo – ma è stato solo un attimo – ha smarrito quell’espressione di saccente strafottenza che faceva imbestialire i suoi avversari e ammaliava gli ammiratori. “Sock you in the goddamn face”: è diventato un marchio di fabbrica di Buckley, lo ripeteva ironicamente ai suoi interlocutori più animosi. Giusto un anno dopo il confronto con Vidal è stato un intimorito Chomsky a subire la scherzosa, per dir così, minaccia. Nel clima di oggi, quello che crediamo invincibilmente volgare, Buckley si sarebbe preso una querela per tentata aggressione con l’aggravante dell’omofobia. Magari non gli avrebbero assegnato d’ufficio la scorta, ma difficilmente sarebbe stato invitato di nuovo in una trasmissione.
L’idea di chiudere nella gabbia televisiva le fiere più feroci e argute della giungla politica era venuta alla Abc per indigenza e disperazione. Al tempo i network televisivi trasmettevano in diretta e per intero le convention dei partiti, una noia bestiale che costava un sacco di soldi. Nbc e Cbs avevano budget sconfinati per seguire l’evento, e i venerati anchorman con la schiena dritta tipo Walter Cronkite e Chet Huntley davano un minimo di brio e profondità informativa a quella che altrimenti sarebbe stata una via crucis da tubo catodico. Abc non aveva nulla di tutto questo. Come dice uno degli intervistati nel documentario, Abc era la terza televisione del paese soltanto perché ce n’erano tre. Fossero state quattro sarebbe stata la quarta. Quando il tetto di legno dello studio mobile di Chicago è crollato sulla testa di giornalisti e operatori è stato chiaro anche ai meno preparati che Abc non aveva i mezzi per competere con gli altri, almeno non sullo stesso terreno. Howard Smith era un conduttore esperto e capace ma non era che un piccolo Davide contro un immenso Golia, e i vertici del network non avevano intenzione di scommettere il palinsesto elettorale sulla speranza, invero flebile, di un biblico rovesciamento. Così venne l’idea di organizzare una rissa colta. Mettere in uno studio due intellettuali di opposte sponde e farli scannare in modo sanguigno e patrizio su qualunque tematica politica, seguendo il filo del dibattito alle convention.
Vidal e Buckley avevano una storia di livori avviata da tempo. Il liberal, fierissimo ateo, amava particolarmente sfottere l’avversario sulla sua devozione cattolica, fede che non solo era fuori moda nei circoli della gente che piace ma l’aveva tenuto fuori anche dall’esclusivo circolo Wasp e conservatore del Connecticut. Buckley era un parente acquisito dell’élite, e il suo cattolicesimo ne era un segno evidente. Vidal amava rappresentarlo come un emarginato della società a cui avrebbe voluto appartenere. Per il resto calcava sulle accuse tradizionali che si muovono ai conservatori – guerrafondai, oppressori – e ai cattolici – ipocriti, antisemiti – con il suo solito stile tagliente. Diceva che andava molto spesso a Roma “per stare vicino al suo Papa”. Per umiliarlo non chiamava mai per nome la sua rivista, la National Review, definendola con variazioni di “quella piccola cosa che non passerà mai sulle mie labbra”. Buckley, di contro, amava stuzzicare la vanità dell’avversario e prendere in giro la sessualità volutamente ambigua di quella icona gay ante litteram. Quando, nel 1962, durante il programma televisivo condotto da Jack Paar, Vidal ha suggerito a Buckley e famiglia di abbracciare le tesi cosiddette progressiste della “Mater et Magistra” di Giovanni XXIII, lui ha lasciato un biglietto alla redazione del programma: “Per favore informate Gore Vidal che né io né la mia famiglia siamo disposti ad accettare lezioni di moralità da un frocio rosa”. Quando ha capito che la caricatura del conservatore guerrafondaio aveva esaurito la sua carica, ha preso ad accusarlo di essere a sua volta gay, asserendo pure che Norman Mailer era del medesimo convincimento, ed è stato allora che si è aperto il lunghissimo capitolo giudiziario della vicenda (in un’esibizione stilistica non proprio memorabile Vidal ha ripetuto le stesse cose, e non con intento pacifico, anche quando il cadavere di Buckley era ancora tiepido). Nel 1964, dopo un vibrante scontro televisivo, Buckley ha informato l’avversario con un biglietto che avrebbe gradito non vederlo mai più, preghiera esaudita volentieri dall’interessato. Così il dibattito che ha cambiato per sempre il discorso politico non sarebbe mai dovuto avvenire. Entrambi i contendenti dicono di essere stati assoldati da Abc prima dell’altro, e giurano di avere posto reciprocamente il veto quando è stato chiesto loro con chi non avrebbero mai potuto dibattere. “Con un comunista e con Gore Vidal”, aveva risposto Buckley, “perché ho avuto pessime esperienze con lui in passato e non mi fido di lui”. Stessa cosa diceva l’avversario. Sta di fatto che quando l’azienda li ha informati, nessuno s’è tirato indietro, complice anche il lauto cachet da 10 mila dollari per una decina di puntate di poco più di mezz’ora. Poi, come diceva Vidal, un invito in televisione non si rifiuta mai. Quelle dieci puntate hanno segnato l’inizio di un genere televisivo nuovo, una strana fusione fra un certo stile del dibattere delle università dell’élite e un incontro di wrestling. Una zuffa mascherata da disputa quodlibetale. Un addetto stampa dell’emittente, chiaramente dotato in quanto a sense of humour, aveva sintetizzato così lo spirito della serie in un comunicato: “William F. Buckley e Gore Vidal ‘discuteranno’, con il loro solito stile irriverente, gli uomini e la politica. Astuti e colti osservatori della scena, è lecito aspettarsi che il conservatore Buckley e il liberal Vidal occasionalmente si troveranno in disaccordo”.
Il meticoloso Vidal era arrivato preparato, sapendo che l’avversario avrebbe fatto eccessivo affidamento sulle sue leggendarie abilità di argomentare e dibattere in presa diretta. Buckley era animale da palcoscenico, dava il meglio di sé quando si trattava di trovare istantaneamente la battuta più arguta, come spiega nel documentario Sam Tanenhaus, uno dei molti intervistati che da anni lavora a una biografia di Buckley. Quando ha tentato una folle e grandiosa corsa per diventare sindaco della “città più occidentale dell’Unione sovietica”, New York, un giornalista gli ha domandato quale sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto una volta eletto. “Chiedere un riconteggio dei voti”, ha risposto lui senza battere ciglio. Vidal aveva dalla sua una raffinatezza espressiva fuori dal comune e il sorrisetto che avrebbe fatto perdere le staffe al Dalai Lama, ma aveva bisogno di più preparazione. Sta di fatto che il dibattito politico, nel senso nobile, è durato circa due minuti: Vidal ha detto che il partito repubblicano è il partito dell’ingordigia, Buckley ha risposto attaccando l’ultimo libro dell’avversario, “Myra Breckinridge”, che parla “di un uomo che diventa donna e che poi diventa uomo”. Da lì a definirlo un autore pornografico il passo è stato breve.
“Best of Enemies” è il racconto meticoloso, sostenuto da una gran mole di materiali d’archivio e da interviste approfondite (fra gli intervistati c’è anche Christopher Hitchens, che Vidal nominò come suo delfino intellettuale, prima che si consumasse il divorzio ideologico sulla guerra al terrore), della meravigliosa degenerazione di una tenzone intellettuale in un match di pugilato. Certo, le tensioni che attraversavano l’America in quell’anno fatale non ispiravano compostezza negli animi. Il Vietnam aveva lacerato il paese, Martin Luther King era stato assassinato qualche mese prima della convention, e dopo poco anche Bobby Kennedy era stato abbattuto; le rivolte razziali divampavano ovunque, mettendo in crisi la speranza che le leggi sui diritti civili avrebbero suturato in fretta le ferite dell’America. Un clima da guerra civile aveva intaccato tutti gli ambienti, dalle università ai palazzi dell’establishment, e gli studi televisivi non facevano eccezione, specialmente quelli di una televisione minore in cerca di share e gloria. Quando Buckley ha iniziato a prepararsi ai round successivi, lo scontro s’è fatto se possibile anche più livoroso. Di Nixon e Humphrey si ricordavano di tanto in tanto, fra una stoccata personale e l’altra.
Una sera Buckley ha tirato fuori dalla tasca della giacca, con l’aria gongolante dell’avvocato che tira fuori in aula la prova che inchioda l’imputato, una lettera di Bobby Kennedy in cui suggeriva la deportazione di Vidal in Vietnam. La faccia dell’intellettuale liberal di fronte alla lettera è un momento impagabile della televisione mondiale, e perfino migliore è il commento dopo un primissimo esame della prova in questione: “La calligrafia tende verso l’alto, come quella dei maniaci depressivi”. Vidal, che a suo modo aveva ammirato John Fitzgerald Kennedy e si era aggregato come araldo del liberalismo alla corte di Camelot, disprezzava Bobby. Lo vedeva come un potenziale avversario nelle sue ambizioni politiche, peraltro largamente frustrate dagli eventi – due volte ha corso per un incarico pubblico e due volte è stato sconfitto – e non credeva avesse un’oncia del talento del fratello. La lettera sventolata da Buckley dimostrava che il sentimento era reciproco e che – soprattutto – Kennedy sfotteva Vidal nella corrispondenza con il suo arcinemico. Affronto inaccettabile.
[**Video_box_2**]Se c’è stato un momento che ha scavato un fossato nella cultura politica popolare, o almeno nel suo riflesso televisivo, è stato il dibattito raccontato in modo magistrale in questo documentario. C’è che si lamenta oggi dell’effetto deleterio dei social sulla qualità dei dibattiti, trascinati in uno stillicidio di tweet che con la loro diabolica brevitas tutto semplificano e appiattiscono. Trump e Megyn Kelly si prendono a spadate in diretta televisiva e in seconda serata la querelle sbarca e sbraca su Twitter, diventando macchina del fango o puro avanspettacolo, comunque merce scandalosa per la gente perbene. Ai tempi di Buckley e Vidal era pure peggio. Esquire propose ai due di raccontare l’esperienza del dibattito, ciascuno dal proprio punto di vista. Vidal in quell’occasione ha scritto, fra le altre cose, che Buckley era razzista, antisemita ed erotomane, ma soprattutto aveva svelato un segreto di famiglia che doveva rendere giustizia alla proditoria lettera di Bobby: Bill e i suoi fratelli avevano vandalizzato una chiesa protestante nel loro quartiere per punire la famiglia del pastore, rea di aver contribuito ad ammettere nella comunità una famiglia di ebrei. Le querele sono arrivate a pioggia su Vidal, che infine è stato condannato a risarcire l’avversario e a sostenere spese legali talmente ingenti da costringerlo a chiedere un prestito di un milione di dollari alla sorella. Il tribunale ha intimato ad Esquire di non ripubblicare mai più il pezzo. Quando la rivista ci ha provato, nel 2004, 35 anni dopo il fatto, la National Review ha chiesto e ottenuto che fosse ritirato nuovamente, con ammenda. Vidal ha dovuto aspettare che Buckley morisse per rifarsi. “Riposa in pace, all’inferno”, ha scritto il liberal nel suo necrologio, senza risparmiare la stoccata finale, dandogli di “Hysterical queen”, checca isterica. Non esattamente il gesto di un gentiluomo, si dirà, ma nonostante le rappresentazioni mitologiche, di gentilezza in quell’epica intellettuale e triviale non se n’era vista molta.
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