Serena ed eterna
Serena Williams entra in campo con gli occhi che non si alzano mai dal cemento che sta calpestando. In quel momento si domanda perché lo faccia ancora. Non è più quello il suo posto, forse non lo è mai stato. La numero uno del tennis mondiale da 134 settimane compirà 34 anni tra meno di un mese e le sue spalle sono imperlate di sudore ancora prima di cominciare a giocare. Serena soffre sempre. Non ha il tennis nel sangue, non ce l’ha proprio. Il suo destino è stato scritto da qualcun altro quando lei ancora non era venuta al mondo. Il padre, Richard Williams, sapeva quel che faceva, ci stava lavorando da un po’ di tempo. L’11 giugno del 1978 la tennista rumena Virginia Ruzici ha appena vinto l’Open di Francia. Richard di tennis non capisce quasi nulla, ma rimane impressionato da un dettaglio non insignificante: conquistando il suo unico Slam, la Ruzici ha guadagnato 40 mila dollari in una settimana, molto più di quanto lui porta a casa alla fine di un anno di lavoro. Il giorno dopo dice alla moglie Oracene: “Dobbiamo fare altri due figli”. La donna, già madre di tre bambine, non chiede spiegazioni. Speriamo che siano femmine, si limitano ad augurarsi, e si mettono all’opera. Il 17 giugno del 1980 nasce Venus, poco più di un anno dopo, il 26 settembre del 1981, Serena.
Ancora prima di poter scegliere, le due sorelle si ritrovano con una racchetta in mano nei campi di Compton, periferia a sud-ovest di Los Angeles, niente di più lontano da Wimbledon. Lì, in quei campi comunali, capita spesso di pestare qualche siringa durante gli allenamenti. Papà Richard implora i delinquenti del quartiere di evitare sparatorie mentre le sue figlie si allenano. Dalle parti dei “gesti bianchi” – il tennis in gonnellina aristocratico e sensuale – sono gli anni di Martina Navratilova e di Chris Evert: le palline, rimbalzando, fanno un rumore morbido, quasi ovattato. Le due sorelle però giocano un altro sport: hanno fisici scolpiti da un allenamento rigoroso e braccia potenti. “A chi vorresti somigliare da grande?”, domanda una giornalista venuta a spiare Serena non ancora undicenne. “Semplicemente a me stessa”, risponde lei, sotto lo sguardo benevolo della sorella. Per un po’ Richard tiene il tennis del futuro lontano dai campi ufficiali, non sono ancora pronte, dice, devono crescere. Nick Bollettieri, abile manager della racchetta e costruttore di piccoli talenti, non aveva ammesso Venus alla sua Academy aristocratica. Ma a diciassette anni e con un servizio che sfiora i 205 km orari, la maggiore delle Williams è finalmente cresciuta: agli Us Open del 1997, nel campo dedicato ad Arthur Ashe – il primo tennista afroamericano dell’èra Open – Venus perde in finale contro la numero uno del mondo e la sua precisione aggraziata, quasi glaciale. “Sono ancora io la più forte”, proclama sorridendo Martina Hingis appena esce dal campo. Ma sa anche lei che non lo sarà ancora a lungo. Venus serve come un uomo e quando colpisce il diritto sembra che lo voglia mandare chissà dove, ma poi la palla rimbalza sempre dalle parti della riga, in campo.
Le dame bianche del tennis cominciano silenziosamente a storcere il naso. Richard Williams applaude e non si scompone. Venus è pronta a diventare numero uno al mondo, ma state attenti, dice il padre, la migliore deve ancora arrivare. Sta pensando a Serena, e non si sbaglia nemmeno questa volta. Alla fine esplode anche lei, portandosi dietro settanta chili di muscoli che non conoscono altro che la dedizione per il tennis. Ha un gioco violento, molto più di sua sorella, e, pur essendo giovanissima, sembra che sappia cosa vuol dire soffrire. Non sopporta l’idea di perdere, lo ripete in continuazione. Nel 2000 nella finale degli Us Open vince contro Martina Hingis, che uscendo dal campo ripete come un automa: “Sono ancora io la numero uno”. Un refrain che ormai non convince più nessuno. Lo sport dei gesti bianchi si colora di nero. E’ una rivoluzione di cui non si sentiva il bisogno, le Williams non piacciono a nessuno. In sala stampa l’alta società del tennis comincia a lamentarsi rumorosamente: “Quelle due sono razziste”, protesta la Hingis, sempre lei. Quando incontrano le avversarie negli spogliatoi, Serena e Venus non salutano, ruggiscono. Arrivano da periferie lontane dal sogno americano, quelle che vengono raccontate attraverso la cronaca nera, indossano vestitini sgargianti e un po’ cheap, non conoscono i modi della buona società borghese ma giocano a tennis in un modo che spaventa, le altre rimangono a guardare terrorizzate.
L’8 settembre del 2001 agli Us Open si consuma un piccolo dramma familiare, il primo di una lunga serie: Venus e Serena si incontrano in finale. Papà Richard preferisce non guardare: “Devo badare ai miei cani. E poi è ora che comincino a cavarsela da sole”, dice mentre in mondovisione sta andando in scena il suo miglior spettacolo. La spunta Venus. Serena si scioglie in lacrime di rabbia. E, ancora una volta, proprio nel mezzo della festa celebrata in suo onore, tocca alla sorella maggiore il compito di consolarla: “Hai tutta la vita davanti per vincere”. Serena è giovanissima e non si è dimenticata delle parole di quella specie di sciamano di suo padre che fino ad allora non si è sbagliato mai: sarebbe stata lei la più forte, la migliore di tutte. Sarà sufficiente avere pazienza. A cosa sarebbero serviti altrimenti tutti quei muscoli, la femminilità abbandonata in un angolo, tutta quella potenza capace di demolire anche l’estetica di uno sport fino ad allora elegante? La paura è un sentimento adulto, Serena non se ne lascia che sfiorare, lasciatemi divertire, sembra dire. E infatti si diverte.
Nella finale degli Internazionali di Roma del 2002, battendo Justine Henin, tira una spallata a tutto ciò che si sapeva del tennis femminile: il rovescio a una mano della belga non resiste contro le bracciate bimani di Serena. Il talento non può niente di fronte alla potenza violenta e lucida della tennista americana. Il tennis è diventato una questione di bicipiti. Le due Williams, dicono i maligni e i razzisti, giocano come gli uomini. C’è chi fa paragoni ancora più offensivi. Serena non risponde e in silenzio, si fa per dire, vince quasi tutto ciò che c’è da vincere. L’8 luglio del 2002, strappando il vassoio d’argento di Wimbledon dalle mani della sorella, diventa la numero uno del mondo. Anche la determinazione è una forma di talento, la più duratura. Colpisci la palla così tante volte da farti venire la nausea e non potrai che diventare una campionessa. Era questo ciò che ripetevano i padri americani fanatici ai loro figli obbedienti, diceva così Mike Agassi a suo figlio Andrè e guardate che cos’è diventato. Serena lo sa bene, ormai a tennis vince sempre e solo lei. Intanto, dall’est dell’Europa giovanissime tenniste costruite a immagine e somiglianza delle due sorelle cominciavano a comparire sui tabelloni principali dei tornei del Grande Slam. Si chiamano Elena Dementieva, Svetlana Kuznetsova, Anastasia Myskina. Subito dopo arriva Maria Sharapova, americana di passaporto ma siberiana nel sangue e nello sguardo, e per un attimo tutto il mondo si ferma ad ammirarne la bellezza. Serena, però, in quegli anni ha altro a cui pensare. Il tennis improvvisamente comincia ad annoiarla. Adesso sogna i tacchi alti e una carriera a Hollywood. Disegna vestiti, ma non le basta. “Mi piacerebbe recitare. Sono brava, recito anche quando gioco”. Le offrono una piccola parte nella serie tv americana “Tutto in famiglia”. Nei campi da tennis la si vede sempre meno. “Sono finite”, dice digrignando i denti la solita Martina Hingis commentando a una a una tutte le sconfitte delle due sorelle che l’avevano buttata fuori dalla scena.
Nella finale di Wimbledon del 2004 la Sharapova, che ha da poco compiuto diciassette anni, batte Serena 6-1 6-4, facendo venire a tutti il sospetto che la tennista americana sia finita davvero. Serena non ha più niente da offrire, intorno a lei tutto precipita.
Il 14 settembre del 2003, nella stessa periferia piena di siringhe e di rapine da cui il tennis le aveva trascinate via salvandole, Yetunde Price, una delle sorelle maggiori di Serena e Venus, viene ammazzata in una sparatoria. Serena diventa grande per sempre in quel momento, intuisce con precisione che cosa significa avere paura. E poi c’è quella frase appesa dal padre all’entrata dei campi di Compton: “Quando sbagli, sbagli sempre da sola”. Serena non ci aveva mai potuto pensare, la sua colorata famiglia oversize la seguiva dappertutto, urlava e piangeva insieme con lei. E’ sempre stata una questione di famiglia. Adesso è lei ad avere le spalle più larghe di tutti gli altri anche se non sa che cosa farsene: non riesce più a giocare a tennis. Le ragazze che arrivano dalla Russia sono veloci e potenti, hanno imparato tutto quello che sanno dalle Williams. Serena non ce la fa più, la pallina viaggia troppo veloce, dentro il campo lei è lentissima. Nel 2005, dopo aver vinto gli Australian Open giocando malissimo, infila una caduta dietro l’altra. A Wimbledon viene sconfitta al terzo turno dalla sconosciuta Jill Craylan. Serena è una specie di ombra che non fa più paura a nessuno. Justine Henin, ancora offesa per tutte le manate tirate addosso al suo bel gioco, nel 2006 ritorna a essere la giocatrice numero uno al mondo, il posto che le spetta, pensano tutti. Serena la guarda da lontano, è scivolata al numero novantacinque, sei numeri più in là c’è la terra dell’oblio.
[**Video_box_2**]Nel 2006, per la prima volta dopo molti anni, la finale di Wimbledon non comprende nessuna delle due sorelle Williams. Justine Henin affronta Amelie Mauresmo. I due rovesci a una mano più belli del circuito, il tennis è tornato a una velocità e a una grazia accettabile. Vince la francese Mauresmo: i gesti bianchi si risistemano sugli spalti e applaudono con quell’aplomb che era stato preso a schiaffi dalle sorellone. Serena è una donna che fatica a rimanere in equilibrio: le gambe non reggono più, i muscoli cominciano a cedere. E’ prossima ai 30 anni, un giornale canadese la definisce una “vacca grassa”. A volte le riesce qualche ace, cenere dal passato. Quando sbagli, sbagli sempre da sola. Che cosa ci fa Serena ancora in campo? Perché si ostina a sbagliare? L’ha capito anche lei di non averlo nel sangue questo maledetto sport. Se ne ricorda ogni volta che arriva male sulla palla e la scaraventa in rete con una violenza che non serve a niente. Erroracci da principianti. Nel 2012, dopo aver perso al primo turno al Roland Garros, si presenta all’Academy del francese di origini greche Patrick Mouratoglu. “Voglio ritornare ad essere la numero uno del mondo”, gli dice. Aggiunge che lei odia perdere, ma questo ormai lo sanno tutti. Il 18 febbraio del 2013 Serena, trentadue anni mal portati, impone la sua legge, si ricongiunge con il fato. “Nel tennis ognuno è al posto che merita” le dice Mouratoglu. Vale per tutti gli sport, vale per la vita. Il 28 luglio ai Mondiali di nuoto di Kazan, l’italiana Tania Cagnotto vince la sua prima medaglia d’oro nella gara di tuffi. Non è ancora scesa dal podio quando davanti ai microfoni dice: “Non si impara mai”. Ed è vero. Serena non ha mai imparato niente. Se no come si spiegano tutte quelle urla, i salti di gioia, i rovesci tirati a casaccio, lo sguardo fisso sui propri piedi per il terrore di ciò che ci può essere dall’altra parte della rete? Come si spiegano se no tutte quelle lacrime e la fatica che fa ogni volta che colpisce la palla? A trentaquattro anni è troppo tardi per avere paura. Se tra due settimane vincerà il suo settimo Us Open (per il quale è ampiamente favorita) conquisterà il Grande Slam. I quattro più importanti tornei del mondo in una sola stagione: Melbourne, Parigi, Londra e New York. Finora ci sono riuscite solo Mauren Connolly nel 1953, Margaret Court Smith nel 1970 e Steffi Graf nel 1988. Don Budge e Rod Laver tra i maschi. Non si tratta soltanto di muscoli e violenza, si tratta di sofferenza. Serena lunedì scenderà nel centrale di Flushing Meadows, il campo che porta il nome di Artur Ashe, quel giocatore che per lei è qualcosa di più che un tennista del passato, e tutto il pubblico sarà dalla sua parte. Quei campi sono la sua casa. Il Grande Slam sembra essere vicinissimo. Se qualcuno gliene parla, però, si gira dall’altra parte, sorride e non risponde: “Se mai dovesse succedere, farò un respiro profondo, profondissimo, e poi scomparirò”. Fino a quando starà dentro al campo però soffrirà, com’è condannata a fare da sempre, e, perdendo l’equilibrio, le capiterà di chiedersi che cosa ci faccia ancora lì, su quel cemento arroventato a giocare uno sport che non ha nel sangue, uno sport in cui è la migliore di tutte da una vita.
Il Foglio sportivo - in corpore sano