Il grande gioco dell'auto
Scalare la General Motors? Sembra una delle guasconate alle quali Sergio Marchionne ha abituato il mondo dell’auto, sempre spiazzato e meravigliato dalle incursioni del manager italo-canadese. Eppure, per quanto azzardata possa sembrare alla luce dei numeri nudi e crudi, la mossa non è affatto impossibile. Tanto che Warren Buffett ci sta. Con la sua ammiraglia Berkshire Hathaway, il terzo uomo più ricco del mondo che ha puntellato a più riprese alcuni pilastri del capitalismo americano, dalla Coca-Cola al Washington Post, possiede il 3 per cento della General Motors. E all’Oracolo di Omaha piace la fusione con Fiat-Chrysler. Il futuro delle case automobilistiche è ancora tutto da decidere, ma Buffett sarebbe già pronto, all’indomani dell’eventuale matrimonio, a crescere nel capitale del nuovo colosso mondiale dell’auto. Se è vero che le sinergie nello sviluppo di nuovi prodotti possono arrivare fino a 30 miliardi di dollari, quale investitore oculato potrebbe gettarli dalla finestra per difendere funzionari del capitale che si credono onnipotenti e, quando le cose vanno bene, al massimo riescono a far guadagnare ai loro padroni il 3-4 per cento l’anno?
Massimo Mucchetti, già giornalista economico e ora autorevole senatore Pd (è presidente della commissione attività produttive), sostiene che è un confronto impari: Fca ha già troppi debiti e la General Motors vale in Borsa il triplo (45 contro 15 miliardi), guadagna il quadruplo, ha una gamma di modelli molto più ampia, ha investito per tempo nelle nuove tecnologie, vende dieci milioni di vetture contro cinque di Fiat-Chrysler. E poi “c’è la storia che non si può bypassare, come Marchionne ha verificato a sue spese quando voleva comprare la Opel”, spiega Giuseppe Berta. “Per 80 anni, fino alla crisi del 2008, la Gm è stata la numero uno ed è diventata l’emblema dell’industria a stelle e strisce. Si diceva: quel che va bene per lei va bene per l’America”. Eppure, resta una vasta e composita confederazione di marchi americani, ancora simile in tutto e per tutto a quella messa insieme a partire dagli anni Venti da Alfred Sloan, con una immagine da vecchia signora incipriata. Forte un po’ ovunque, le manca un vero blockbuster che sfondi il mercato. Nel segmento che oggi tira, la Jeep è un marchio più sexy dei crossover Chevrolet che pure vendono bene, mentre nei pick-up è testa a testa tra Silverado (Gm) e Ram (Chrysler). General Motors ha creduto nell’auto elettrica, Marchionne no. Ma la Ev1, dopo essere stata uno status symbol ecologista alla fine degli anni Novanta, si è rivelata un flop e ora giace abbandonata tra le rocce sabbiose del deserto di Mesa in Arizona. Troppo grande e ingombrante rispetto alla Tesla che sembra un’Aston Martin con la spina, troppo vecchia rispetto a quel che stanno combinando i ragazzi Apple nella Silicon Valley, con le loro vetture simili a un mouse. Certo, la Tesla perde quattrini per ogni modello che produce anche se a Wall Street vale ben 31 miliardi di dollari e non si sa ancora cosa tirerà fuori la Apple; in ogni caso lo scacco della Ev1 getta un’ombra lunga oltre ad aver ispirato anche un documentario di successo intitolato “Chi ha ucciso l’auto elettrica?”. Saranno stati i petrolieri o magari George W. Bush, fonte di ogni male, ma una bella mano l’ha messa la stessa casa produttrice.
Non solo. La Gm è una public company, i suoi azionisti sono investitori istituzionali (il maggiore è un fondo pensionistico e sanitario olandese per imprenditori, Van Iwaaarden, con l’8,55 per cento; il secondo con il 5 per cento è il fondo americano Vanguard, gli altri sono Harris, BlackRock, JP Morgan, Capital Group), che non hanno nessun interesse nell’automobile, il loro mandato è mettere al sicuro il capitale dei sottoscrittori e incassare il più possibile. Il vecchio Bruno Visentini, assertore della “presenza virile” dell’imprenditore, avrebbe sentenziato che la Gm è una “azienda di nessuno” o meglio è in mano ai manager. “Questo la rende oggi vulnerabile”, ammette Berta. E, francamente, tra Sergio Marchionne e Mary Barra il più sexy, come direbbero gli americani, è lui.
La nuova battaglia di Detroit, mentre la bonanza degli ultimi cinque anni volge al termine, scalda i portafogli e le menti (se non proprio i cuori). Ma come, l’automobile non era un residuato del Novecento? Certo, aveva cambiato il mondo, ma con i robot, i computer, internet e i social media, quel mondo è tramontato. Allora, perché si muovono tanti quattrini? Per sfizio? Perché si scontrano poteri così forti? Per una mera ginnastica dell’ego? O, piuttosto, perché siamo in presenza di un’altra possente ondata di distruzione creatrice?
Il fatto è che l’auto sta vivendo la sua terza giovinezza. La prima, dopo la Seconda guerra mondiale, è coincisa con la motorizzazione di massa. Trionfavano le macchine americane, enormi e futuristiche, le utilitarie europee piccole e scattanti o le sportive da Grand prix. Tutto ciò è durato fino alla crisi petrolifera degli anni Settanta. Poi è arrivata la catastrofe e giù a scrivere sulla morte dell’auto. Il decennio successivo ha visto la prima rinascita grazie all’automazione, a una diversa organizzazione del lavoro (il post fordismo e il modello Toyota), a nuove vetture meno voraci di benzina e gasolio. In Europa sono uscite vincitrici la Fiat e la Volkswagen che per alcuni anni si sono contese il primato. Attorno al 1990 un nuovo terremoto ha fatto crollare la Fiat e la Chrysler, mentre i giapponesi occupavano gli spazi lasciati vuoti. E di nuovo i maestri cantori dell’apocalisse intonavano il secondo de profundis all’industria delle quattro ruote.
E’ stata una lunga agonia, anche se non per tutti. La Volkswagen, ad esempio, ha saputo approfittare in modo magistrale della nuova potenza della grande Germania, è penetrata in Cina prima di molti altri (della Ford ad esempio per non parlare della Fiat), ha cambiato la propria immagine e il proprio mix di prodotti grazie alla consociata Audi. Nel 2008 la Grande Recessione ha chiuso definitivamente anche quel ciclo di guerre per la sopravvivenza, con il fallimento della Chrysler e della numero uno al mondo, niente meno che la General Motors. Adesso comincia un’altra fase, nella quale saranno protagoniste nuove tecnologie la cui applicazione commerciale avrà bisogno di tempo e di immensi investimenti enormemente rischiosi.
Il campione di questa mutazione si chiama Musk, nome di battesimo Elon anche se i nemici lo chiamano Egon, l’ultimo degli schumpeteriani (in realtà c’è sempre un ultimo che diventa il primo e così via innovando). Nato a Pretoria nel 1971, studia prima in Sud Africa, poi in Canada infine negli Stati Uniti (Pennsylvania e poi due giorni di fisica dei materiali a Stanford). Fin da piccolo si rivela un genietto delle nuove tecnologie (esordisce a 12 anni vendendo il suo primo videogioco), ma il suo primo successo è una società di servizi finanziari online che è all’origine di PayPal. Due anni dopo, nel 2002, fonda Space X che progetta razzi spaziali Falcon parzialmente riutilizzabili e veicoli Dragon per uomini e cose. Il suo primo obiettivo è portare su Marte il primo essere umano. Il secondo è sfondare con l’auto elettrica. Il nome per le sue vetture è estremamente simbolico: Tesla, dedicato a Nikola, geniale inventore di origine serba diventato statunitense nel 1891. In fisica ha dato un contributo fondamentale all’elettromagnetismo, duellando con l’italiano Galileo Ferraris, ma ha incrociato le lame anche con George Westinghouse, Thomas Alva Edison e Guglielmo Marconi sulla paternità della radio (finirono in tribunale), mentre contese a Wilhelm Roetngen la scoperta dei raggi X. Geniale e bizzarro, credeva negli Ufo e nella Società delle Nazioni, mangiava ogni giorno da solo al ristorante del Waldorf Astoria dove alloggiava da gran signore anche a costo di sperperare tutte le sue sostanze. Tra il profluvio di ricerche e invenzioni (persino il raggio della morte) Tesla resta nella storia della scienza e della tecnologia per quel che ha detto e fatto sul campo magnetico. Chi più di lui può essere il padrino della prima auto elettrica che piaccia al mondo?
La Model S, fabbricata a Fremont, a sud di San Francisco, vende appena 50 mila esemplari l’anno. Costa 70 mila dollari (ma lo stato della California offre un contributo di 10 mila dollari) e ciò nonostante non fa un centesimo di utili. Al contrario. Musk non si preoccupa, lancia un crossover, il Model X, con le portiere posteriori che si aprono ad ali d’uccello: prezzo finale 132 mila dollari. E annuncia una vettura media da 35 mila dollari, per tutti i portafogli o quasi. “Egon” sostiene che il suo obiettivo non è far quattrini, ma risolvere un problema, rendere migliore la vita. Si definisce “un generale sul campo di battaglia” perché vive e lavora a contatto con la produzione. A Wall Street i banchieri in doppiopetto e sigaro avana gli danno credito. C’è tanto fumo e tanta fuffa naturalmente in un valore di Borsa così elevato per un’azienda che perde quattrini e vende a un pugno di aficionados californiani. Eppure quei figli dei figli dei fiori sono gli stessi che hanno aperto le porte alla piccola 500 che si vede oggi nelle vie delle metropoli americane, contro le ironie di tutti gli scettici del mondo. Il capitalismo è anche questo, sogno, novità, rischio. Ecco perché l’automobile tira ancora e Tesla vale in Borsa quasi quanto General Motors.
Abbiamo davvero bisogno di possedere un’auto nell’era di Uber? Insistono gli incorreggibili pedoni del centro storico? Ebbene, la centenaria automobile mantiene il suo sex appeal, nonostante gli influenti nemici che si annidano soprattutto nei mass media, nonostante gli effetti nocivi dei gas di scarico, nonostante le autostrade intasate, gli incidenti, il mortale logoramento del traffico. Come mai? Perché rappresenta meglio di ogni altro prodotto lo spirito del capitalismo: è instabile, inquinante, individualista, pericolosa persino, ma non è stato trovato ancora nulla di meglio. E’ poliedrica, adattabile come poche altre invenzioni uscite dallo spirito innovativo dell’uomo, proprio come il capitalismo è figlia di Proteo. L’aereo è superiore come mezzo di trasporto, ma non è a dimensione d’uomo, il treno è collettivo, solo l’automobile rende liberi e può essere ritagliata sui bisogni di ciascuno.
Non è pura follia, dunque, se Apple si è gettata a corpo morto nella costruzione di un’auto, con tutta probabilità elettrica e dotata di pilota automatico. Era un’idea già di Steve Jobs, ma secondo Christopher Mims del Wall Street Journal ci vorranno almeno altri cinque anni perché veda la luce. Non solo: “Se andrà avanti, dovrà giocare a un lungo gioco, che che può facilmente durare decenni”. Carl Icahn il re dei raider di Borsa sostiene che nel 2020 verrà fuori quello che ha chiamato “il definitivo congegno mobile”. Secondo alcune indiscrezioni il modello sarà una sorta di minivan. Le risorse finanziarie non le mancano, Apple ne ha abbastanza per potersi comprare in contanti l’intera Bmw che Tim Cook, l’amministratore delegato, ha visitato per esplorare la possibilità di usare la i3, la vetturetta elettrica prodotta a Monaco di Baviera per il Project Titan come si chiama il piano della Applecar approvato nell’autunno scorso. I suoi uomini stanno andando avanti curando soprattutto il design, punto di forza della mela di Cupertino. Non è un caso che Eddy Cue, il senior vice president che sovrintende AppleStore e i magazzini di contenuti, sieda dal novembre 2012 nel consiglio di amministrazione della Ferrari.
Insomma, Apple e l’auto s’annusano da tempo. E Marchionne, superato lo scetticismo iniziale, ha cominciato a corteggiare la Tesla, la Apple e la stessa Google. Nel suo viaggio nella Silicon Valley la primavera scorsa ha fatto anche un giro sull’auto senza guidatore che Google ha messo a punto e si rivela già troppo razionale per l’irrazionalità degli uomini al volante. Una provocazione alla Marchionne, e una evidente autocritica rispetto alle sue precedenti prese di posizione. Ma anche un messaggio ai riluttanti azionisti di Gm: ecco il futuro e qui dobbiamo stare, meglio se ci stiamo insieme.
Gli scettici dicono che in fondo l’auto consiste sempre e soltanto di un motore più quattro ruote. In realtà, l’innovazione ha segnato ogni passaggio chiave di quella che è stata chiamata l’industria delle industrie. Si pensi alla ricerca di carburanti più puliti, alla trasformazione del diesel con il common rail grazie al ruolo d’avanguardia svolto dalla Fiat che poi vendette il brevetto alla Bosch “per fare cassa”. Adesso tutti i diesel del mondo montano quegli iniettori e la cassa l’ha fatta la Bosch. La ricerca riguarda incessante i materiali sempre più leggeri e resistenti, con uno scambio tecnologico con l’industria aerospaziale, o il sistema frenante sperimentato prima in Formula uno. Esattamente il contrario è successo con il motore ibrido inventato dalla Toyota e applicato prima sulle auto da città. In questo caso è stata la Mercedes a capire prima degli altri l’utilità di impiegarlo nelle corse, al contrario della Ferrari che ne ha pagato le conseguenze. L’elettronica, entrata nell’abitacolo sotto forma di gadget, è diventata sempre più essenziale, ha conquistato il modo di guidare (si pensi al navigatore) e magari non finirà per sostituirsi al pilota, ma potrà dargli una mano. Non si tratta, dunque, di fantasticherie futuristiche. Non c’è soluzione di continuità tra le invenzioni più imprevedibili e il loro uso quotidiano, fino al punto da cambiare abitudini e stili di vita.
[**Video_box_2**]E se fossero proprio loro, le visionarie vetture della Silicon Valley, le carte segrete per dare l’assalto al vecchio elefante di Detroit? Ipotesi affascinante anche se per il momento non trova fondamento. Dovrebbe avere come presupposto un accordo segreto per fare di Apple, Google o Tesla gli azionsti del nuovo colosso Gm-Fca il quale potrebbe assicurare un potenziale produttivo che nessuno dei gruppi ad alta tecnologia è in grado di mettere in campo nel settore automobilistico. L’idea non è campata in aria, ma c’è il rischio di diventare terzisti, quindi subordinati alle scelte di chi ha quattrini e tecnologia. E una sola cosa è certa: il manager dal maglioncino nero non intende fare il portatore d’acqua, al contrario vuole essere lui l’artefice dell’intera ambiziosa operazione. Tutto questo lo sapremo nella prossima puntata, quando Marchionne avrà venduto la Ferrari e, con il suo pacchetto di stock option, potrà aumentare la quota che detiene in Fca (oggi appena l’uno per cento) giocando anche da investitore all’ultimo risiko di Motown.
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