Il cattivo maestro
Scott Shane è un giornalista che da dieci anni si occupa di terrorismo per il New York Times e ha scritto un libro che uscirà tra quindici giorni sul duello a distanza tra il presidente Barack Obama e un cittadino americano di famiglia yemenita che si chiamava Anwar al Awlaqi ed era il predicatore più famoso del gruppo terroristico al Qaida, e lo è anche oggi dopo la sua morte nel settembre 2011. Il New York Times ha anticipato un capitolo del libro sul suo magazine domenicale e si capisce che è un racconto fondamentale della guerra al terrorismo.
La prima cosa che è necessario sapere di al Awlaqi è che era un predicatore modello e integrato alla perfezione nel sistema americano. Nelle sue mail private – intercettate nel 2001 dall’Fbi – esprime un disgusto sincero per le stragi dell’11 settembre (“Penso che sia stata una cosa orribile”) e la preoccupazione che i fatti di quel giorno si ripercuoteranno in maniera negativa sulla comunità musulmana americana, appena mitigata dal fatto che tutte le maggiori reti televisive stanno mandando telecamere e giornalisti anche nella sua moschea di Falls Church, appena fuori Washington, e quindi può essere l’occasione per passare al pubblico ansioso di trovare risposte una buona immagine dell’islam. Ha trent’anni, confida al padre di avere una strada aperta davanti per fare carriera come predicatore, studioso dell’islam, e in effetti era riuscito a fare carriera in fretta dopo gli inizi in moschee piccole in altre parti del paese, a Denver e a San Diego. Spera di essere invitato alla Casa Bianca – scrive – e arriva a essere invitato al Campidoglio. Frequenta i ristoranti e i musei della capitale con la moglie Gihan e i tre figli. Tiene pure un ciclo di lezioni agli imam che studiano per diventare cappellani con l’esercito americano. Il New York Times in un articolo di quei giorni convulsi del 2001 lo cita come esempio della generazione nuova di predicatore musulmani che a soli trent’anni riesce a fare da mediatore culturale tra l’occidente e l’oriente, e spiega l’America ai musulmani e l’islam agli americani. “Siamo venuti qui per costruire, non per distruggere”, dice dal pulpito della sua moschea. “Siamo il ponte tra l’America e un miliardo di musulmani in tutto il mondo”.
In politica, Awlaqi ha appoggiato George W. Bush alle elezioni del 2000. Per quanto riguarda il lavoro di predicatore, trova un accordo con un editore per pubblicare una serie di 52 cd in cui racconta in inglese la vita di Maometto. La voce calma e la piena padronanza dell’inglese lo aiutano molto e fanno parte del fascino che esercita sui fedeli, che non sono per nulla attratti da altri imam che parlano male la lingua e sembrano distaccati dalla vita normale attorno a loro. Le sue prediche riguardano una gamma sterminata di argomenti, teologici e anche pratici, per esempio l’obesità e il mangiare troppo. Insomma, al Awlaqi nel 2001 è il candidato ideale a rappresentare l’islam non estremista e desideroso di fare parte dell’America. Subito dopo l’11 settembre il presidente George W. Bush era andato in un moschea per veicolare il messaggio: non è una guerra degli Stati Uniti contro l’islam, ma contro il terrorismo. Awlaqi è il musulmano tipo a cui si rivolge la Casa Bianca. A un certo punto il Pentagono lo invita a un incontro come parte di un programma di pubbliche relazioni della Difesa.
La seconda metà della storia di predicatore di al Awlaqi è l’opposto speculare della prima metà. Dopo il 2005 i suoi video diventano lezioni teoriche e pratiche di terrorismo islamista. Se si prova a cercare Anwar al Awlaqi su Youtube il primo video jihadista è il numero cinque (titolo: “Mai fidarsi di un non musulmano”) in mezzo a video istituzionali sulla vita dei profeti. La seconda pagina dei risultati su YouTube è già piena dei video dell’Awlaqi versione 2.0, chiamate al jihad, sermoni sulla necessità per ogni musulmano di uccidere americani, prediche di preparazione alla battaglia. Alcuni video sono stati caricati anni fa, il che vuol dire che YouTube non li sta cancellando più come invece avviene quasi in automatico con i video più espliciti che arrivano da Iraq e Siria. Nel settembre 2011 un drone americano uccise Awlaqi con un missile in Yemen dopo una caccia lunga e complessa, ma quattro anni dopo il predicatore è onnipresente. Dieci giorni dopo la sua morte al Qaida in Yemen mise su Internet un messaggio di commemorazione che avvertiva: “L’America ha ucciso lo sceicco Anwar, ma non ha ucciso le sue idee”. Il giornalista Shane scrive che proprio la fine di Awlaqi per mano americana lo ha elevato al rango di khatib (chi tiene i sermoni dal pulpito) più rispettato e citato dai gruppi terroristi. “Nel gergo burocratico dei militari è stato ‘rimosso dal campo di battaglia’, ma in realtà Awlaqi non è stato per nulla rimosso dal campo di battaglia più importante, quello dell’ideologia”. I fratelli Kouachi dopo avere sterminato la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi hanno detto a un tv di avere agito su mandato di Awlaqi. L’uomo che a giugno ha ucciso cinque militari a Chattanooga aveva visto i suoi video la settimana prima di passare all’azione (dicono i tecnici dell’Fbi che hanno esaminato il suo computer). I due attentatori dello Stato islamico uccisi in Texas durante l’assalto fallito a una mostra di vignette sul profeta Maometto lo citavano come fonte d’ispirazione e avevano la sua foto su Twitter; la madre di uno dei due dice che il figlio le rivelò che l’uccisione di Awlaqi nel 2011 fu il momento in cui lui decise di diventare estremista. Il maggiore Nidal Hasan, che ha ucciso 13 militari a Fort Hood, era in contatto con il predicatore via mail ed è descritto come un eroe nei suoi video. I fratelli di origine cecena Tsarnaev, che organizzarono l’attentato contro la maratona di Boston, lo hanno citato come fonte della loro competenza nel costruire bombe. “Guardate i suoi video su internet, c’è una quantità incredibile di conoscenza”. Al Awlaqi è diventato il più pericoloso dei cattivi maestri e il candidato ideale a rappresentare l’islam come la perfetta e più pericolosa ideologia di guerra.
L’americano yemenita è abile nel reclutamento e nell’impartire lezioni persuasive per le stesse ragioni che avevano portato al successo la sua versione buona. Parla bene inglese, è suadente, logico, intelligente e suona occidentale; non è una figura remota e distaccata dalla realtà di tutti i giorni – come potrebbe essere un predicatore che si nasconde in Pakistan e manda di rado video in arabo classico. Al Awlaqi è un professionista della comunicazione passato dall’altra parte con tutte il suo bagaglio di abilità. Oggi i due gruppi del terrorismo islamico più pericolosi, lo Stato islamico e al Qaida, sono d’accordo su poche cose: una di queste è che entrambi guardano al predicatore nato nel New Mexico come fonte d’ispirazione.
Il pezzo di bravura di Shane però non è la descrizione del prima e del dopo nella vita del predicatore, è la scoperta del giorno in cui tutto cambia per Awlaqi e lui (forse anche a causa di quel giorno) imbocca la strada della radicalizzazione che lo farà fuggire dall’America, lo farà tornare nella patria dei genitori, lo Yemen, e lo farà diventare la versione opposta di se stesso.
Dopo l’11 settembre l’Fbi lancia una investigazione a ritroso per ricostruire tutti i particolari delle vite e dei contatti dei piloti suicidi di al Qaida. Decide di mettere sotto sorveglianza anche Awlaqi perché due attentatori hanno frequentato la sua moschea a San Diego e poi sono entrati anche nella sua moschea a Washington. Gli agenti non trovano alcun collegamento con l’estremismo, ma un giorno di dicembre, nel mese di Ramadan in cui il sesso è vietato tra l’alba e il tramonto, vedono alle due del pomeriggio Awlaqi andare in una camera di hotel di Washington con una prostituta. Lei racconta agli agenti che lui ha avuto un comportamento beneducato, ha detto di essere un ingegnere indiano che abita in California, ha pagato 220 dollari per una rapporto orale, ha chiesto un bis ma alla richiesta di altri soldi ha desistito. L’Fbi segue Awlaqi mentre ogni settimana smette i panni del predicatore islamico che in moschea ha parole di condanna per Hollywood e i costumi decadenti della società e va in macchina verso alberghi dove incontra donne a pagamento, con cui spende una parte del budget familiare limitato. Gli agenti della sorveglianza raccolgono un faldone con le informazioni che raccolgono durante gli appostamenti, intervistano le prostitute, conservano i dati.
Si dice che i percorsi di radicalizzazione sono tutti diversi l’uno dall’altro e si dice anche che Awlaqi lasciò il paese perché – genericamente – non sopportava più la contraddizione tra l’islam e l’America. Il 22 marzo 2002 tiene un sermone molto duro nella sua moschea di Falls Church, in reazione a un’operazione degli agenti federali in Virginia, che sono alla caccia di possibili finanziatori dell’estremismo islamico e due giorni prima hanno perquisito le case dei leader locali. La voce di Awlaqi trema dalla rabbia mentre descrive mogli e figlie ammanettate durante le perquisizioni delle case durate ore. “Questa non è una guerra al terrorismo. Questa è una guerra contro i musulmani e l’islam. Non sta accadendo soltanto nel resto del mondo, sta accadendo anche qui, in America, dove le libertà dei cittadini sono ignorate soltanto perché sono musulmani”. Cita la lotta dei neri americani. “Se vogliamo i nostri diritti, dobbiamo reclamarli”. Il fratello Ammar lo raggiunge il giorno dopo – l’Fbi annota: arriva un U.m.e.m., un “maschio mediorientale non identificato” – ma non lo trova particolarmente scosso. Parla di vivere per sempre in America, dove si è ormai costruito una posizione.
In quei giorni il manager di un servizio di escort telefona al predicatore, gli dice che è stato interrogato dall’Fbi. Dal tipo di domande, Awlaqi capisce che non si tratta di un controllo casuale o occasionale, che gli stanno dietro da tempo. Pochi giorni dopo il fratello lo visita di nuovo e lo trova cambiato del tutto, in stato di panico, arrabbiato, triste, incapace di tenere un sermone o anche soltanto di pregare. Non risponde e non spiega. L’indomani Awlaqi porta Ammar in una stanza, gli chiede di staccare la batteria del cellulare (è una precauzione base, per evitare che il cellulare sia usato come una microspia ambientale), gli rivela che l’Fbi ha un dossier su di lui che potrebbe rovinargli la vita (quello poi trovato da Shane) e che non può restare a vivere in America. Non dice al fratello di cosa si tratta. Ha realizzato che la sua autorità come predicatore potrebbe dissolversi di colpo se il dossier trapelasse – o quando il dossier trapelerà. Teme anche che l’Fbi gli chieda qualche tipo di collaborazione in cambio del silenzio. Parte per un viaggio già in programma da tempo e poi, nell’imbarazzo generale dei suoi familiari e conoscenti, non torna indietro. La moschea appende un cartello con la spiegazione che Awlaqi è a studiare nel Regno Unito, per approfondimenti.
[**Video_box_2**]La vita del predicatore di Washington prende una traiettoria inaspettata. Contatta con cautela gli uffici dell’Fbi per organizzare un incontro perché vuole saggiare l’andamento del suo caso e le chance di un accordo, ma è trattato come una bassa priorità (non ci sono collegamenti con attentatori) e desiste presto. I suoi sermoni cominciano a diventare più aggressivi, anche se soltanto in modo sottile. Torna in Yemen, nella capitale Sanaa, ma nel 2006 è arrestato e tenuto 18 mesi in carcere senza processo. Quando esce ha una squadra di sorveglianza che lo segue ovunque e decide di spostarsi nella provincia della sua famiglia, Shabwa. E’ una zona a est della capitale dove il controllo del governo diventa flebile fino a sparire del tutto e comandano i clan locali e al Qaida. In pochi mesi entra a fare parte del gruppo e comincia a partecipare all’organizzazione di attacchi contro gli Stati Uniti. E’ al Qaida in Yemen a portare avanti il piano, mai dimesso, per colpire l’America con un attentato replica dell’11 settembre, più di al Qaida in Pakistan e Afghanistan, che ormai è diventata una centrale ideologica e però vuota, senza la capacità di montare operazioni all’estero e impegnata a sopravvivere alla campagna con i droni. L’obbiettivo del gruppo di Awlaqi è una uccisione di massa spettacolare, prende di mira gli aerei occidentali almeno due volte (con una bomba nascosta addosso a un volontario suicida e con esplosivo nascosto in alcune stampanti), ma non ha successo. Riesce invece a conquistare ampie zone del paese, a diventare una fazione nazionale temibile e a lanciare una campagna di propaganda in inglese, con il magazine “Inspire”. In questa fase di consolidamento, addestra e poi rispedisce in Francia almeno uno dei fratelli Kouachi – che a gennaio hanno massacrato i redattori del giornale Charlie Hebdo. Prima di morire, Chérif parla a una tv locale e dice che “lo sceicco Anwar al Awlaqi ha sponsorizzato l’attacco”.
Nel 2010 il presidente Obama ordina una consulenza legale per capire se è legale uccidere Awlaqi all’estero, senza processo, come succederà l’anno dopo. Alcuni commentatori libertari obbiettano, dicendo che come cittadino americano gode di diritti costituzionali. Altri commentatori obbiettano per ragioni più pratiche. Mohammed Elibiary, un consulente nel campo della sicurezza, musulmano e texano di incrollabile fede repubblicana, sostiene che “se stai tentando di battere una cultura del martirio, non devi fare martiri”. “Mi spiace dirlo, ma penso di avere ragione”, dice Elibiary al New York Times. In questi anni si è occupato di interrogare cittadini americani accusati di terrorismo per la difesa d’ufficio federale. “In quel mondo, sono tutti convinti fino all’ultima persona che Anwar al Awlaqi è un individuo bravo e un martire. Quello che chiude la questione per loro è che è stato ucciso dagli Stati Uniti”.
Per l’Amministrazione americana i bombardamenti mirati con i droni come quello che ha ucciso Awlaqi in Yemen sono uno strumento di sicurezza indispensabile. Permettono di eliminare terroristi pericolosi nascosti in luoghi altrimenti inaccessibili, senza impegnarsi in guerre con truppe a terra che hanno costi umani e materiali altissimi, e che alimentano ancora di più la propaganda del jihad. In questi ultimi anni, tuttavia, si è cominciato molto a discutere se tutti i bombardamenti mirati abbiano sortito più vantaggi che svantaggi sul lungo termine. Il caso del predicatore assurto allo status di leggenda per l’islam radicale è un caso studio. Bruce Riedel, un veterano della Cia che si è occupato per decenni di analisi dei gruppi terroristici, dice che sarebbe necessario un po’ di pensiero innovativo per contrastare l’ideologia estremista. Un approccio più ricco dal punto di vista dell’immaginazione, piuttosto che la soluzione unica dell’uccisione a distanza. “Abbiamo speso miliardi per l’hard power – vale a dire l’uso della forza – quanto abbiamo speso per il soft power? Siamo la nazione che ha inventato Hollywood.
Sappiamo come creare una causa, vendere un prodotto e ridicolizzare un nemico. Con Awlaqi, avremmo potuto fare tutte queste cose. Avremmo potuto sfidare le sue argomentazioni, rovinare la sua reputazione. Sono passati più di tre anni dalla morte, e non lo abbiamo ancora fatto. Gode ancora di questo staus iconico di cavaliere dell’islam. Ed era tutto tranne quello”.
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