L'ultima canzone di Joan
Quando perdiamo quel senso di possibilità, lo perdiamo in fretta. Quando Joan Didion attraversò gli orribili due anni in cui morirono suo marito e sua figlia Quintana, restò viva ma diventò vecchia. Si realizzarono i presentimenti di perdita che aveva fin da bambina, si sentì fragile, senza ossa, non andava più a far colazione ai Three Guys in Madison Avenue perché aveva paura di cadere per strada, ma si sforzò di restare dov’era: nell’appartamento di New York, sola, ad aprire vecchie scatole in cui trovò inviti di matrimonio di gente che non era più sposata, trovò i quaderni di quando sua figlia andava a scuola e un cartoncino che la bambina aveva appeso in garage, nella casa sulla spiaggia di Malibù, la lista dei “Detti di mamma”: “Lavati i denti, spazzolati i capelli, sta’ zitta sto lavorando”. Trovò che il tempo era passato, tutto in una volta, e adesso restavano solo i ricordi, che poi sono tutto quello che non vuoi più ricordare. “La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Il problema dell’autocommiserazione”. E’ l’incipit de “L’anno del pensiero magico” (in Italia pubblicato da Il saggiatore), il primo libro che ha reso Joan Didion davvero famosissima, davvero popolare, davvero conosciuta a tutti (e con cui vinse il National Book Award). Sono le prime parole buttate giù su un foglio dopo la morte di John Gregory Dunne, scrittore come lei, suo marito per quarant’anni, l’uomo con cui ha diviso tutto: il lavoro, le sceneggiature, i drink del pomeriggio, le nuotate nell’oceano, la mondanità, i viaggi in Indonesia e a Singapore, l’adozione di una bambina nel 1966 (nacque il mattino, il dottore telefonò: “C’è qui una bella bambina…”, e loro andarono a vederla il pomeriggio alla nursery dell’ospedale, le diedero un nome e la sera festeggiarono con gli amici, un brindisi con ghiaccio e l’improvvisa necessità di comprare una culla, dei vestitini, l’improvvisa necessità di essere una madre).
In pochi istanti non c’era più nessuno (il marito di Joan Didion morì una sera, erano tornati dall’ospedale dove Quintana era ricoverata, John chiese uno scotch, e poi un altro, Joan preparava la cena – un’insalata – c’era il fuoco acceso nel caminetto e all’improvviso John smise di parlare di Prima guerra mondiale e morì): è stato necessario mettere in atto strategie di sopravvivenza, anche consegnarsi docilmente ai medici, trovare una risposta non troppo lamentosa per tutti quelli che chiedono impazienti come stai?, e accettare che il tempo è passato. E che proprio adesso, adesso che non le importa più molto, adesso che “c’è qualcosa che manca nella sopravvivenza come ragion d’essere, non credi?”, adesso Joan Didion è diventata una grande celebrità americana (“L’ultima celebrità letteraria”, ha scritto New Republic), più importante ora di quando viveva a Hollywood e scriveva instancabilmente e piangeva disperatamente per i rifiuti, per le correzioni ai suoi articoli, più amata ora di quando sperava di essere amata. Barack Obama le ha messo al collo una medaglia e l’ha aiutata a camminare e lei aveva un bel vestito a fiori, uno scialle blu e lo sguardo vuoto, trasparente. Anche il suo corpo era trasparente, sarebbe bastato un soffio d’aria a farla volare via. Proprio adesso che è quasi senza corpo, adesso che ha senso dire di lei: eterea, le foto in bianco e nero della sua giovinezza sono dappertutto come quelle di Jackie Kennedy, lei negli anni Settanta a Malibù con un vestito bianco e la sigaretta fra le dita, ma anche le foto delle sue rughe con gli occhiali da sole, del suo bastone da passeggio, i foulard e i pullover di lana e lo sguardo grave, qualcuno ha comprato a un’asta un suo giubbotto di pelle, le ragazze parlano dei suoi fermagli per capelli e la trovano fantastica. In America è appena uscita una poderosa biografia su di lei (“The last love song”, di Tracy Daugherty, giornalista importante che lei non ha mai voluto incontrare): Joan Didion, la ragazza elegante, malinconica e determinata che ha spiegato il West (secondo Martin Amis “la cantrice della grande vuotezza californiana”) e ha scritto romanzi, saggi critici, reportage politici, adattamenti cinematografici, e perfino, all’inizio della sua vita a New York, articoli di moda per Vogue, inseguendo da subito l’eleganza e la purezza della scrittura. Non amava fare interviste, racconta Tracy Daugherty, perché “raramente una persona ti dirà la verità”. E raramente un luogo rivelerà il suo passato, raramente un’aula di tribunale rivelerà qualcosa del processo. Joan Didion, che adesso, ottantunenne, non scrive quasi più, usava la scrittura per capire, non per insegnare agli altri che cosa era giusto pensare, e se non riusciva a comprendere qualcosa si sedeva al tavolo e cominciava a battere a macchina, e poi tornava alla prima riga e riscriveva, fino a che il pensiero, l’opinione, prendeva forma attraverso la scrittura. Non cercava l’idea prima, ma durante, e sempre da spettatrice.
“Io appartengo ai margini di una storia”, diceva, e i suoi romanzi appartengono ai margini delle storie, “Diglielo da parte mia”, “Democracy” (pubblicati da poco da e/o), e c’è qualcosa di astratto, di lontano, c’è un distacco che Joan Didion ha costruito come modo di scrittura e stile di vita, distacco anche dai movimenti femministi, pur diventandone un punto di riferimento, distacco dal mondo progressista, distacco dalla maggior parte delle cose che non comprendevano il suo coprotagonista, il marito John Gregory Dunne (“le nostre giornate erano piene del suono delle nostre voci”, e lui forse davvero beveva troppo, ma Joan Didion ha scritto che, in quell’età dell’oro fra i Sessanta e i Settanta e gli Ottanta e i Novanta, tutti bevevano troppo: lei scriveva fino alle due o alle tre di notte e poi “beveva qualcosa” prima di andare a dormire). Da un certo punto in poi, il suo mondo essenziale comprendeva anche la figlia Quintana. La bambina bionda per cui sembrava fosse così naturale vivere, e svegliarsi la mattina, e andare a dormire la sera, scriveva sua madre, così diversa da lei, e invece quel giudizio era la conseguenza di una disattenzione, o di un desiderio, perché quella bambina aveva già profondità abissali, e buchi, e disperazione, e in seguito alcolismo. “Lavati i denti, spazzolati i capelli, sta’ zitta sto lavorando”, i detti di mamma, li aveva chiamati lei a pochi anni. La mattina la mamma dormiva, e il padre portava quella bambina a scuola, giù per la collina, e una volta la mamma decise di alzarsi e accompagnarli, e guardando quella figlia bionda che correva fiduciosa scoppiò in lacrime.
Il motivo per cui Joan Didion, eterea ottantenne ormai newyorchese, è così amata e celebrata, ha a che fare con questi dettagli, con queste dichiarazioni di dolore e di rimorso, con lo stupore per la distanza brevissima fra normalità e catastrofe, molto più che con la purezza della scrittura. Ha a che fare con i suoi due libri sulla morte, “L’anno del pensiero magico” e “Blue Nights”, in cui tutta l’astrattezza di cui Joan Didion è capace si scontra e si mescola con l’intimità, con il desiderio di cedere alla disperazione, e i pianti in ascensore, e il bisogno di scriversi biglietti con le regole: “Non piagnucolare. Non lamentarti. Lavora sodo. Passa più tempo da sola”, e di immaginare la voce di suo marito che le ordinava di portare a termine quell’articolo, di essere seria. “Sei una professionista. Finisci quell’articolo”, mentre lei non voleva perché non poteva più farglielo leggere. Quella era la prima volta che lei scriveva qualcosa senza farla leggere in bozza a suo marito, si sentiva perduta. E questi due romanzi, scritti senza averli prima mostrati in bozza a suo marito, hanno trasformato Joan Didion nell’ultima celebrità letteraria americana. Perché mostra la paura, mostra lo sgomento. Di un sogno americano individualista come il suo, un individualismo incarnato dall’amato John Wayne, bisognoso di egoismo e di spuma delle donne e di ghiaccio nel bicchiere e bei vestiti (quel negozio “era speciale, c’era tutto ciò che desideravo che ciascuna di noi indossasse, era tutto uno chiffon di Holly Harp e bordi arricciati e taglie 36, 38 e 40”) e sandali con il tacco alto, e il servizio in camera negli alberghi, le pagine scritte e riscritte prima del terzo drink della giornata, e l’idea assurda, umanissima, che tutto questo potesse durare in eterno.
“Consideravamo ancora felicità e salute, amore e fortuna e figli bellissimi dei semplici doni comuni”, scrive Joan Didion nelle “Blue Nights”, un libro incentrato sulle notti azzurre, quell’istante prima che il fulgore scompaia e il sole tramonti, l’attimo di luce blu che credevi sarebbe durato per sempre. Se non per tutti, almeno per te. Se non per i figli degli altri, almeno per tua figlia.
E’ qui dentro, in questo rapporto con la figlia Quintana, adottata quando aveva poche ore di vita, adottata con la leggerezza dello chiffon, che la grandezza letteraria di Joan Didion si è legata stretta alla sua imperfezione umana, e l’ha resa più autentica. Alla sua ammissione di non avere visto davvero la verità delle cose, lei che aveva la presunzione di trovarla nella scrittura. La verità era che Quintana soffriva molto (“Fammi andare sottoterra!”, le urlò da adulta, buttata sul pavimento), mentre lei à la John Wayne inseguiva i suoi sogni. Nella biografia di settecento pagine, “The last love song”, ci sono parole dure su Joan Didion come madre, ma sono parole superflue perché le cose più dure su di sé le ha scritte Joan Didion stessa in “Blue Nights”. Apre le scatole dei ricordi, i meravigliosi ricordi che non vorresti più ricordare perché riguardano cose che non ci sono più, e trova le foto del battesimo di Quintana, la bambina perfetta come una bambola, al ricevimento dove Joan Didion offrì tramezzini e champagne, e “ora guardo quelle fotografie e sono colpita da quante delle donne presenti indossassero tailleur Chanel e braccialetti David Webb, e fumassero sigarette. Era un periodo della mia vita in cui credevo davvero di aver coperto, da qualche parte tra la frittura del pollo da servire sui piatti Minton di Sara Mankiewicz e l’acquisto del parasole Porthault per fare ombra alla bella bambina a Saigon, le tappe principali della maternità”.
[**Video_box_2**]Era tutto pervaso dal senso di possibilità, e le sembrava possibile e ovvio portare una bambina di pochi mesi a Saigon, nel 1966, per raccontare la guerra in Vietnam, “abiti di lino color pastello di David Brooks per me e un parasole Porthault per fare ombra alla piccola”, ecco tutto ciò di cui avevano bisogno. Alla fine il viaggio non si fece, ma perché si aprirono altre possibilità, c’erano altri libri da finire, e comunque Quintana aveva già sessanta vestitini nel suo armadio su grucce di legno in miniatura. Era anche quello il fulgore? Una bambina di sei anni che aveva imparato a firmare il conto del servizio in camera come Shirley Temple in tour, e a ordinare triple costolette d’agnello, a chiedere all’agente della madre: “Ma quand’è che le date i soldi?”, a fare di tutto per non sembrare una bambina. Solo ieri la teneva fra le braccia avvolta in una copertina di cachemire bordata di seta, solo ieri le prometteva che sarebbe stata al sicuro, solo ieri Quintana era viva e correva giù per la collina e quella era anche l’età della giovinezza di sua madre. “Solo ieri avevo cinquant’anni, ne avevo quaranta, avevo trentun anni”. Solo ieri c’era tutta quella luce, e lo stesso molta paura: “Avevo paura delle piscine, dei cavi dell’alta tensione, della liscivia sotto il lavello, dell’aspirina nell’armadietto dei medicinali. Avevo paura dei serpenti a sonagli, delle correnti marine, delle frane, di estranei che si presentavano alla porta, di febbri inspiegabili, di ascensori senza operatori e corridoi d’albergo vuoti”. Ora non c’è più niente di cui avere paura, perché tutte le paure si sono realizzate in pochi istanti (anche la paura di Quintana, bambina adottata terrorizzata da un verso di Keats: “Perdersi nel nulla”), Joan Didion ha paura: di avere tenuto per tutta la vita uno schermo tra lei e sua figlia, per non distrarsi da se stessa. E’ quasi certa di averlo fatto, è certa di avere visto una bambina perfetta, e non la sua bambina che aveva paura di essere abbandonata un’altra volta. Così adesso, mentre l’America la ringrazia per essere l’ultima celebrità letteraria rimasta, Joan Didion ha ancora paura. Non di quello che ha già perduto, ma di quello che può ancora perdere di Quintana. “Potreste dire che non vedete cosa ci sia ancora da perdere. Eppure non c’è giorno della sua vita in cui io non la veda”.
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