Fatemi ridere di me
Quando Stefano Bartezzaghi, poco prima dell’estate, mi ha telefonato e mi ha chiesto di partecipare alla prima edizione del festival sull’umorismo, ho accettato con entusiasmo. Lui ha detto: vorrei invitarti a Livorno come relatrice, pensavo che potresti fare un intervento intitolato “Prenderla sul ridere”, una cosa sull’umorismo nella vita quotidiana. Ho risposto, con una risata un po’ stridula: ma certo, grazie, sono molto felice, e in quell’istante è iniziata l’estate più infelice della mia vita. Più che infelice, angosciata. Non ho riso nemmeno quando mio marito è stato attaccato da una famiglia di meduse. Nemmeno quando, a cena, un amico raccontava di una notte in cui si è svegliato con la faccia deforme per un’intossicazione e non si riconosceva allo specchio e io pregavo: fa’ che nessuno dica kafkiano, e il tizio a capotavola dopo un secondo di riflessione ha detto: beh, questo è molto kafkiano. Sono entrata in uno stato di ansia e preoccupazione. Le persone con cui eravamo in vacanza in Grecia mi chiedevano che cos’hai, che cosa ti succede, perché non la prendi sul ridere, mio marito mi ha detto perfino: forse siamo in crisi ma ti prometto che cambierò, ti porterò al cinema, non ti regalerò mai più un plaid scozzese per il tuo compleanno se ti fa piangere così tanto. Io allora ho preso coraggio e gli ho detto: non è per il plaid scozzese, anche se in effetti non l’ho ancora superato, c’è il festival dell’umorismo, devo fare un intervento sul prenderla sul ridere nella vita quotidiana, sono preoccupata, sai, parlare in pubblico mi spaventa. Lui ha sbarrato gli occhi e ha detto: ma quindi devi far ridere? Ma è impossibile! Io allora mi sono alzata in piedi di scatto e gli ho detto: è vero, siamo molto in crisi, e nella rabbia credo di avergli rovesciato addosso anche cose terribili soprattutto su quel plaid scozzese (compio gli anni a fine maggio tra l’altro, nessuno usa un plaid a fine maggio a Roma, ma anche a febbraio l’avrei presa male). Abbiamo passato un’estate d’inferno, adesso che è finita posso dirlo. Non ho riso nemmeno quando i miei figli hanno fatto l’imitazione di me che parlo in pubblico, non ho riso quando mi sono sbagliata e ho portato tutta la famiglia a Ciampino, ho fumato una sigaretta, ho controllato il biglietto e ho scoperto che il nostro aereo partiva da Fiumicino, non ho riso quando mia figlia mi ha detto che tutti i pupazzi che tiene sul letto sono il suo pubblico, non ho riso quando ho versato dieci gocce di valium direttamente in gola a una mia amica angosciata sulla scaletta dell’aereo e inciampando per via del trolley gliene ho versate per sbaglio quindici o venti e le si è impastata la lingua per tutta la durata del volo e nessuno capiva che cosa dicesse. Per fortuna, tutti gli altri hanno riso di me, in continuazione, tutto il tempo, e un amico gentile mi ha spiegato che nessuno ovviamente mi chiedeva di far ridere, ma avrei dovuto solo spiegare, visto che scrivo ogni giorno articoli che parlano di vita quotidiana, di lavastoviglie caricate male, di bollini premio del supermercato, di figli che devono fare i compiti, di gruppi whatsapp dei genitori, di uomini con il borsello, di ansia per le vacanze, di colleghi di lavoro, che cos’è per me l’umorismo delle piccole cose. Come si fa a non prendersi sul serio (provate ad andare anche soltanto a una riunione di condominio, e noterete che si prendono tutti terribilmente sul serio: stanno salvando il mondo, o almeno il quartiere, hanno sempre ragione, sono sospettosi, irascibili, apocalittici anche mentre parlano di manutenzione dell’ascensore), a trovare il lato divertente nella faticosa vita quotidiana la parte comica, ridicola, le trascurabili infelicità, per citare uno scrittore che mi piace molto, Francesco Piccolo.
Così, pur non essendo la persona più adatta perché ho distrutto l’estate alla mia famiglia e ho sfiorato più volte il divorzio, e ho anche rinfacciato a mia madre (che mi chiedeva perché ero così aggressiva e perché scuotevo la testa parlando da sola) la volta che non mi lasciò andare a Barcellona dal mio fidanzato a diciott’anni, le ho detto seriamente che mi ha rovinato la vita perché poi lui mi ha lasciato, ventidue anni fa, dicendomi che ero incapace di ribellioni, ho preparato quest’intervento (e ringrazio il festival del ridicolo rassicurandoli sul fatto che anche se ho passato un’estate terribile loro non ne hanno colpa, sono io che non ho senso del ridicolo), e ho pensato alle scrittrici che amo di più e che, secondo me, hanno saputo sempre individuare il senso del ridicolo, più che del tragico, nella vita dei giorni, senza farsene lacerare, o almeno senza darlo troppo a vedere. Trovando il modo di riderci sopra.
Scoprendo quello che a me sembra il segreto del senso dell’umorismo, quando ascolto i comici, quando guardo una commedia, quando leggo un pezzo divertente, quando vado a prendere i bambini a scuola e ci sono dodici madri che parlano di pidocchi e un padre che ha sbagliato scuola: rivolgere tutto quello che succede verso noi stessi. Metterci al centro del ridicolo insomma. Potrebbe essere molto divertente, e pure più facile, e anche in un certo senso senza complicazioni, deridere gli altri, ma credo che sia più importante, e più giusto, prendersi gioco prima di tutto di noi stessi. E’ anche un modo di fermare le derisioni altrui: è forse una delle prime cose che impariamo a scuola. Ci prendiamo in giro da soli prima che lo facciano gli altri, annulliamo i nostri difetti trasformandoli in una storia buffa prima di diventare lo zimbello di tutti. Non rido più da un sacco di tempo quando sento le battute su Maurizio Gasparri, ma sono sicura che riderei moltissimo se Maurizio Gasparri fosse capace di fare battute su se stesso. E quando Lena Dunham, in “Girls”, la serie televisiva americana che ha scritto, diretto e interpretato, fa se stessa che mangia una torta da sola seduta sul pavimento del bagno, o si avventa, da sobria e da ubriaca, sopra qualcuno di pallido e molliccio, e la mattina dopo guarda attonita il preservativo che penzola dal Ficus Benjamin, penso che è così che si fa, ci si fa carico della comicità e dell’ironia, anche quando nasconde o racconta un dolore. Lena Dunham dice, poi: “A volte mi chiedo: ma perché devo girare questa scena, così imbarazzante? Poi realizzo che la devo girare perché questa scena l’ho scritta io”. Si racconta la vita, la goffaggine, il cinismo, le contraddizioni: lo fa Altan con le vignette, lo fa Lucy di Snoopy con il proprio brutto carattere, l’ha fatto Natalia Ginzburg raccontando la propria famiglia in un libro pieno di senso del ridicolo, “Lessico famigliare”, lo fa Franca Valeri con i suoi personaggi, l’ha fatto Nora Ephron di continuo, nei film e nei libri, perfino nella ricetta del purè per quando si è tristi.
Nora Ephron, che aveva cominciato e avuto successo come reporter, ma aveva abbandonato il giornalismo per la consapevolezza che tutto è racconto, che ogni storia ha un punto di vista diverso, e spesso comico, prendeva se stessa, la sua vita, le invenzioni narrative, i dolori, i divorzi, il rapporto con la madre, con le amiche, le corna dei mariti con le amiche, e si metteva al centro del ridicolo, con la particolare grazia di chi è capace di prendere le distanze da se stesso, che non significa togliere la cattiveria, e nemmeno salvare gli altri dalle loro figuracce, dall’inadeguatezza, dalla bastardaggine anche, ma significa avvolgerli di un sentimento che mi sembra di affettuosità comica, che significa anche: sei stato orribile, ma avrei potuto esserlo anch’io. Siamo così, nevrotici, traditori, vanitosi, tirchi, ossessionati dal colore dei divani, facciamo le vocette stridule quando parliamo con il nostro gatto, rivendiamo gli anelli di fidanzamento per vendetta, tiriamo torte in faccia, mettiamo in giro la voce che l’amante di nostro marito ha una grave malattia venerea, siamo molto indignati verso gli altri e pochissimo verso noi stessi, ci facciamo chiamare “dottore” alle riunioni di condominio, ridiamoci sopra. E’ questo che dà, di volta in volta, la possibilità di immedesimarsi. Meg Ryan in “Harry ti presento Sally”, scritto da Nora Ephron e diretto da Rob Reiner, nella favolosa scena dell’orgasmo finto al ristorante, prende in giro se stessa, mette in gioco se stessa, sbalordisce Billy Crystal con quell’assoluta mancanza di pudore che non è rivolta contro di lui, che lo imbarazza ma lo salva. E infatti la signora al tavolo accanto vuole “quello che ha preso la signorina”. E Sally ordina l’insalata con olio e aceto a parte, e la torta di mele riscaldata, senza gelato sopra ma a lato, ma con la panna vera, non in lattina. Lo fa seriamente, ma senza nessuna incrollabile e seria convinzione in se stessa. Il senso del ridicolo ha questo di meraviglioso: che non è mai pomposo, non si dà mai arie, può anche raccontare, anzi spesso lo fa, un’infelicità, può essere velato di malinconia, di rabbia perfino, ma è privo di vittimismo, di eroismo e di auto elogio. Il senso del ridicolo non si mette al di sopra degli altri, non fa sentire migliori. E permette di non essere reticenti nel volgere i fatti a proprio sfavore. In “Harry ti presento Sally”, Harry e Sally parlano di appuntamenti andati male: “Il primo appuntamento è sempre il più difficile”, dice Sally. “Tu ne hai avuto uno solo: che ne sai che le cose non peggiorino?”, risponde Harry. “Che c’è di peggio di vedere lui che dopo cena mi strappa un capello e lo usa come filo interdentale?”. E in “Insonnia d’amore” Tom Hanks dice: “È più facile essere uccisi da un terrorista che sposarsi dopo avere superato i quaranta”, e lo dice di sé, parla di sé, mette in gioco la propria infelicità, come fa Francesco Piccolo quando scrive nei momenti di infelicità: “Quando mi dicono: potevi vestirti meglio. E io mi ero già vestito meglio”. E’ la regola della buccia di banana, e credo che sia fondamentale, è una regola che seguo con convinzione assoluta, e l’ha spiegata proprio Nora Ephron in un suo libro di memorie, “Il collo mi fa impazzire”: “Adesso credo che quando mia madre diceva: tutto fa brodo, intendesse questo: quando scivoli su una buccia di banana, la gente ride di te; ma quando racconti alla gente che sei scivolata su una buccia di banana, sei tu a ridere. Così diventi l’eroina, invece che la vittima dello scherzo. Credo che fosse questo che voleva dire. D’altra parte, forse voleva dire solo che tutto fa brodo”. Perché in questo modo sono io che do la mia versione. Perché posso far ridere la gente e preferisco di gran lunga che si rida di me piuttosto che mi si compianga. Perché così fa meno male. Lo faceva anche Dorothy Parker nei suoi racconti, si metteva sopra la buccia di banana e raccontava la scivolata nella vita quotidiana: l’attesa accanto a un telefono che non suona, il tizio alla festa che la invita a ballare e lei non ne ha nessuna voglia, ma accetta lo stesso, e lui che le tira calci sugli stinchi e lei che sorride e soffre. “Che altro si può dire, quando un uomo ti invita a ballare? Ci mancherebbe altro, dovrai passare sul mio cadavere? Oh grazie infinite, ne sarei estasiata, ma ho le doglie. Oh sì che bello, balliamo, finalmente un uomo che non teme di prendersi la sifilide. Sarà un vero piacere. Sarà un vero piacere farmi levare le tonsille, sarà un vero piacere ritrovarmi su una nave in fiamme nel cuore della notte”. Il senso del ridicolo è uscire da sé e vedere quanto siamo ridicoli, mentre balliamo con quel tizio, mentre chiacchieriamo con qualcuno dal quale vorremmo soltanto scappare e a cui invece diciamo, ogni volta: che piacere vederti. O anche: bellissimo questo plaid scozzese che mi hai regalato per il mio compleanno.
[**Video_box_2**]La regola della buccia di banana è strettamente connessa e legata alla regola del: tutto fa brodo. Tutto fa brodo significa che ogni aspetto della vita è materiale da romanzo, da sceneggiatura, da scena divertente di cui diventare l’eroina anche quando sei la vittima. Quando tuo marito ti tradisce, ad esempio. Vi ricordate tutti “Affari di cuore”, un film del 1986, con Meryl Streep incinta e in lacrime per metà film. E’ la storia romanzata, cioè tratta da un romanzo, il primo romanzo di Nora, del matrimonio di Nora Ephron con Carl Bernstein, il giornalista del Watergate, da cui ebbe due figli; Nora Ephron era incinta, traumatizzata, arrabbiata, ferita, lui aveva una storia con un’altra, una spilungona a cui regalava collane e con cui voleva andare a vivere (e ci andò): “Sono sopravvissuta. Ci ho scritto un romanzo. Con i soldi guadagnati ho comprato una casa. Trasformo i gatti del mio primo marito in criceti. Appioppo una barba al mio secondo marito. L’incredibile spilungona invece è rimasta un’incredibile spilungona”. La vita reale non delude mai, basta riuscire a raccontarla, senza esagerare con l’indignazione, e si può trasformare perfino il dolore in storie divertenti, fingendo di camuffare sottilmente le cose. Nora Ephron scrive la scena di vita quotidiana durante una crisi matrimoniale della torta in faccia: lancia una torta al limone in faccia al marito, a una cena da amici, e riflette sul fatto che se gli avesse lanciato una torta ai mirtilli avrebbe ottenuto un risultato ancora migliore, perché i mirtilli avrebbero irreparabilmente rovinato la giacca che il marito aveva acquistato insieme alla sua amante. Leggendo e osservando lei, che ha portato il senso dell’umorismo femminile a Hollywood, sembra davvero che la tetra, a volte pomposa vita quotidiana sia piena di fuochi d’artificio. “Volevi la monogamia? Allora dovevi sposarti un cigno”, le dice suo padre – Jack Nicholson, nel film. Fa ridere, il dolore non passa ma è ridimensionato, sta ancora tutto lì ma da una parte, c’è qualcosa che ci mette una mano sulla spalla, ed è il senso dell’umorismo, l’idea del ridicolo che ci riscalda, perfino la possibilità di eliminare la rabbia. Ed è una cosa prodigiosa, quando riesce. A quel punto non importa se è tutto vero o tutto inventato, se c’era un plaid scozzese oppure no, non importa se si ha pianto davvero tutto il tempo oppure no, ciò che importa è che, a questo punto, è divertente. Come ha scritto Nora: “Una delle cose di cui vado più orgogliosa è di essere riuscita a trasformare un fatto che all’epoca mi sembrava spaventosamente tragico in una commedia – e se non è un’invenzione questa, non so davvero che cosa lo sia”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano