Bello e indissolubile
Non è usuale che l’edizione nordamericana di Communio, la rivista internazionale fondata da Joseph Ratzinger, Hans Urs von Balthasar ed Henri de Lubac più di quarant’anni fa, prenda pubblicamente posizione – a livello di board editoriale – su una questione cruciale che divide la chiesa ai suoi livelli più alti. Lo fa con un editoriale ora che la contesa sinodale sulla famiglia si avvicina e i toni si fanno più aspri. Oltre alla vexata quaestio della comunione ai divorziati risposati e alle aperture più o meno manifeste sulle unioni omosessuali, c’è un altro tema, assai trascurato nel grande dibattito mediatico, che “distrugge implicitamente l’interpretazione cristologica del matrimonio”. Non è esattamente un dettaglio. La faccenda infiammata è contenuta nel punto 48 della Relatio Synodi, che propone di dare rilievo al ruolo della fede dei nubendi in ordine alla validità del sacramento del matrimonio. E’ il minimum fidei, il “minimo di fede” richiesto agli sposi al momento delle nozze per la validità sacramentale della loro unione. Non è un disputa di alta teologia buona soltanto per le accademie: qui, sostiene Communio, ci sono “conseguenze pratiche e pastorali di vasta portata”. Una versione del minimum fidei l’ha proposta un anno fa anche il cardinale Angelo Scola, poche settimane prima dell’apertura del Sinodo straordinario, in un lungo articolo apparso sulla rivista Il Regno: “Oggi – scriveva l’arcivescovo di Milano – almeno in determinati contesti, non si può dare per scontato che i coniugi con la celebrazione delle nozze intendano ‘fare quello che intende fare la chiesa’”. Scola aggiungeva che “una mancanza di fede potrebbe condurre a escludere i beni stessi del matrimonio” e “se è vero che non è possibile giudicare ultimamente la fede di una persona, non si può però negare la necessità di un minimum fidei senza il quale il sacramento del matrimonio non è valido”. Posizione ribadita di recente in un’intervista al Corriere della Sera, in cui il porporato osserva che sebbene “la dimensione soggettiva della fede” non sia verificabile, è altrettanto vero che “la fede non è un fatto individualistico, è inserita organicamente nella comunione”. “Pertanto, rispettando fino in fondo la coscienza di ogni singolo, si può valutare se egli intende o meno fare ciò che la chiesa fa quando unisce due in matrimonio”, sostiene Scola. Da questa riflessione, il cardinale fa derivare l’auspicio che “a proposito dei processi di nullità si tenti qualche via che non solo ne snellisca i tempi ma renda più evidente l’intima natura pastorale di tali processi”. I teologi americani concordano con il cardinale di Milano sul fatto che la mancanza di fede negli sposi può in certi casi portare all’esclusione dai beni necessari per il matrimonio. Ma la questione che intendono sollevare è se la mancanza di una fede esplicita e soggettiva in sé implichi l’invalidità dell’unione, al punto che questa mancanza possa essere usata come criterio a posteriori per la dichiarazioni di nullità.
Il Foglio ha incontrato all’istituto Giovanni Paolo II di Washington due dei professori che hanno lavorato alla formulazione di una presa di posizione che contesta alla radice l’idea del minimum fidei, D.C. Schindler e Nicholas Healy. A giudizio di Schindler, professore di Metafisica e Antropologia, sarebbe più utile “riconoscere la questione dell’insufficienza della fede per rinnovare energie nella direzione dell’educazione, di una maggiore preparazione al matrimonio”. In ogni caso, però, “al centro di questa discussione deve esserci la valorizzazione dell’elemento positivo, affermativo, non soltanto quello negativo, cioè trovare nuovi elementi per concedere la nullità matrimoniale”, faccenda che si collega direttamente anche al motu proprio di Papa Francesco sullo snellimento dei processi di nullità. Nell’articolo apparso sull’ultimo numero dell’edizione nordamericana della rivista si legge infatti che “questa nuova proposta non solo mina le fondamenta della chiesa sul matrimonio tout court, ma anche frantuma la concezione cattolica del mondo in generale, come realtà creata in vista del dono della grazia nella redenzione”. In sostanza, la soluzione si rivelerebbe ben peggiore del danno, visto che “in maniera sottile ma profonda, la proposta darebbe nuovo vigore alla stessa crisi che si intenderebbe risolvere”.
Spiega Schindler: “Una delle ragioni per cui abbiamo deciso di fare questa dichiarazione, che non è una cosa tipica per Communio, è precisamente perché è diventato chiaro che il tema del matrimonio e della famiglia non è soltanto una questione morale fra le altre, ma in un certo senso il significato della natura, della creazione e della cultura è incarnato, converge in questo punto. Il problema che vediamo in questa proposta, che consiste nell’introdurre un requisito aggiuntivo, cioè un esplicito atto di fede, oltre al consenso sponsale, implica necessariamente che il consenso in sé non contiene già un significato teologico intrinseco”. Schindler guarda a Giovanni Paolo II quando afferma che “una delle sue intuizioni” fu “che il matrimonio è un sacramento primordiale, creato precisamente con una visione sul mistero della redenzione, in un modo molto diretto. Nel suo senso naturale, il matrimonio rappresenta il culmine del significato della natura. Già nella cultura classica il tema di eros definisce il centro del mondo naturale. Questo ha delle implicazioni metafisiche. Se insistiamo sulla fede come un’addizione, ciò implica che questa unità viene spezzata, il movimento interno verso Dio viene strappato dalle sue radici. A noi sembra che questo abbia diramazioni su tutto”. Detto altrimenti: il dibattito intorno alla natura e al valore del matrimonio non è un dibattito fra gli altri, ma una sintesi, una fedele rappresentazione in scala del più vasto dibattito sul senso stesso dell’essere cristiani.
Per Healy, che all’istituto insegna Filosofia e Cultura, “la sacramentalità del matrimonio tocca la relazione fra natura e grazia, e questo è sempre stato pensato dalla chiesa, ma con una particolare enfasi nel XIX secolo si è insistito sull’inseparabilità fra il sacramento e l’istituzione. Il segno sacro di mistero di salvezza di Cristo è il matrimonio stesso, e questo è il modo in cui l’economia sacramentale raggiunge tutti gli aspetti e invade le cose più umane della relazione, avere figli, il lavoro, il tempo in famiglia. Tutto questo è contenuto nel mistero sacramentale. Per questo l’unità sacramentale del matrimonio ha implicazioni enormi sulla questione dell’unità fra natura e grazia”. Introdurre un nuovo requisito soggettivo, difficile da rintracciare e impossibile da quantificare, significa, dicono gli interlocutori del Foglio, fare un passo decisivo verso un’antropologia della frammentazione squisitamente moderna. Schindler chiarisce che “il rifiuto del minimum fidei non è affatto un rifiuto della rilevanza della fede nel sacramento, il problema è come pensiamo alla fede personale”. Nella tradizione della chiesa la fede ha un carattere oggettivo: “E’ la fede della chiesa, è la guardiana della nostra fede. Lì troviamo la perfetta espressione della fede, alla quale ciascuno partecipa singolarmente. Questa tradizione implica che l’efficacia del sacramento non dipende dalle qualità soggettive degli individui”. La modernità ha disgregato questa prospettiva, affermando “una forma di individualismo atomistico”. Continua Schindler: “In quanto moderni, pensiamo ai nostri atti intellettuali come il prodotto di una pura soggettività. Siamo atomi che galleggiano, connessi alla realtà fuori di noi soltanto dagli sforzi della nostra volontà. Con un’antropologia del genere non ha alcun senso dire che partecipiamo alla fede della chiesa. Perché, da un punto di vista moderno, se una cosa non proviene o non è riconducibile alla mia testa, non esiste. E’ molto difficile negare che ci sia un sentore di questa antropologia dietro la proposta del minimum fidei. Ovviamente questa proposta ha preso molte forme a seconda di chi l’ha enunciata, ci sono versioni molto grossolane e altre molto più sottili. In quelle grossolane si vede chiaramente una versione modernista della fede”. Arrivano a parlare di una “visione contrattualistica del matrimonio”, benché agghindata con vesti religiose: “Capire esattamente il contenuto della soggettività coinvolta diventa una questione decisiva, che non si può tralasciare. Di cosa uno sposo è responsabile? Solo di quello che aveva capito? Un matrimonio subordinato alle condizioni soggettive dei contraenti è, appunto, un contratto, figlio di una forma di liberalismo di tipo lockiano”.
Non che la preoccupazione per una diffusa leggerezza o un ripiegamento su forme tradizionali non sia giustificata. Basta pensare ai matrimoni celebrati in chiesa per fare un piacere alla nonna che va a messa tutti i giorni, o per le fotografie all’altare per afferrare la questione nei suoi termini più concreti. E ai padri sinodali la cosa non sfugge, tanto che c’è chi, per colmare questo fossato aperto dalla secolarizzazione, propone di mettere mano al matrimonio, non solo alla pastorale. Dice Healy: “Esiste certamente l’urgenza pastorale di preparare le persone e accompagnarle nella preparazione al matrimonio, ma il matrimonio in sé è una risorsa, e il desiderio di sposarsi è il segno di qualcosa di oltre. E’ un’opportunità privilegiata di risvegliare la fede del battesimo. La sfida da affrontare ora è la secolarizzazione: ci sono molti che si accostano al matrimonio con una fede radicalmente menomata, come può una persona in quelle condizioni dare e ricevere il sacramento? A questa domanda occorre certamente dare una risposta, ma ciò che mi pare incredibilmente scorretto è il terzo argomento della proposta: che si usi la fede come un modo per risolvere il dilemma dei cattolici che sono divorziati e risposati, in modo da introdurre un nuovo criterio per l’annullamento”. “Un’alternativa – spiega Schindler – sarebbe riconoscere la questione dell’insufficienza della fede, ma soltanto come sprone per rinnovare le energie nella direzione dell’educazione, di una maggiore preparazione al matrimonio”.
E’ una disputa sottile, tutta giocata sul significato implicito del sacramento, categoria con cui la mentalità moderna ha progressivamente perso confidenza. Di certo c’è però l’obiettivo polemico dei riformatori: la Familiaris Consortio. I due professori convengono che il documento di Giovanni Paolo II è sotto attacco: “I problemi e le circostanze sono cambiati, ma il documento inquadra in profondità tutti i problemi di oggi”, spiega Schindler. Allo stesso tempo, aggiunge il collega, “ora non si tratta soltanto di ripetere la Familiaris Consortio ma di approfondirla, di usarla come una guida per affrontare le sfide odierne”. C’è da capire se e come la posizione giovanpaolina, che riflette la tradizione, può coesistere con un maggiore sforzo pastorale e con misericordiose forme di accompagnamento nello spirito che Francesco sta manifestando. “L’insistenza sull’oggettività sacramentale – dice Schindler – non avviene a spese della soggettività, dobbiamo tenere conto di entrambi i lati della questione. Una delle più importanti implicazioni del pensiero di Giovanni Paolo II al riguardo può essere riassunta così: se è vero che il matrimonio in sé contiene un’apertura a Cristo, allora il desiderio autentico di sposarsi, anche se gli sposi non sono mai stati in chiesa, è un’opportunità, è un segno in sé di una possibilità di apertura a Cristo. Se uno fosse cosciente di questo fatto cambierebbe radicalmente anche il modo di preparare il matrimonio. Ogni situazione ha le sue specificità, è chiaro, ma esiste un’apertura a Cristo che è connaturata al matrimonio, e quest’apertura è l’elemento soggettivo”. In fondo ai vari tentativi di rendere il matrimonio un istituto più flessibile, più abbordabile per il mondo postmoderno che vive nell’orizzonte del transitorio, non dell’indissolubile, si annida anche l’idea che il matrimonio, e per estensione l’intera vita cristiana, è magari un bell’ideale, ma irrealizzabile. Schindler evoca la distinzione della categoria di “ideale” per gli antichi e il pensiero classico e i moderni: “Per i moderni l’ideale è irreale, poggia sull’idea che c’è un vuoto da colmare fra la realtà e le aspirazioni ultime dell’uomo, e un ideale come quello del matrimonio è oppressivo. Dunque, si dice, in nome della misericordia dobbiamo abbassare l’asticella dell’ideale, per renderlo abbordabile. Ma per gli antichi era diverso: l’ideale è presente intrinsecamente nella realtà, è già presente. A questo livello la questione pastorale è importante: occorre riconoscere che la realtà del matrimonio contiene già gli elementi ideali, altrimenti diventa un’immagine oppressiva che siamo tentati di ridurre, di annacquare, per poterla accostare”.
Domani si aprono i lavori del Sinodo, e durante il suo viaggio in America il Papa ha chiesto di pregare per le “decisioni” che verranno prese. Qualcuno ci ha visto in filigrana una notizia, visto che il Sinodo non deve necessariamente produrre riforme. La posizione presa da Communio è inequivocabile, in un momento in cui, commenta Schindler, “non c’è dubbio che la tendenza vada nella direzione del minimum fidei, questo è innegabile”. Eppure, dice, “è straordinario vedere quante risorse si stanno esprimento per opporsi a questa deriva. E lo vediamo nel fatto che una parte consistente della chiesa sta reagendo. Per esempio, nel motu proprio, nell’articolo sulla nullità del matrimonio la questione della fede è citata, ma il modo in cui il concetto è espresso è esattamente nella direzione in cui Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger lo esprimono, cioè che la mancanza della fede può condurre a una nullità, ma solo nella misura in cui conduce a un consenso falsato, sul livello naturale. Alcuni proponenti del minimum fidei ovviamente lo vogliono leggere in un altro modo, ma la formula in sé va nella direzione opposta”. Per Healy sarà “un dibattito vivace, ma sono colpito dal fatto che nei documenti del Sinodo straordinario alla questione della fede si affianca una clausola, che ribadisce che un matrimonio fra due battezzati cristiani è sempre un sacramento. Se questa specifica finale verrà mantenuta sarà difficile, a mio parere, arrivare a una proposta sul minimum fidei. Non sarà spezzata, in questo caso, l’unità fra sacramento e istituzione”. L’editoriale cita anche Ratzinger, che sul tema ha avuto un’evoluzione nel corso della sua riflessione, tanto che, ricorda Healy, “alla fine degli anni Settanta sembrava favorire la proposta del minimum fidei, anche se in modo molto accorto. Lavorando in questa direzione penso sia arrivato a vedere più dimensioni e ad affermare chiaramente che sì, la fede è condizione essenziale del matrimonio ma può minarlo soltanto a livello naturale, non a livello sacramentale. E credo che sia essenzialmente anche la posizione di Giovanni Paolo II”. Aggiunge Schindler: “Molti di quelli che oggi si rifanno al primo Ratzinger per sostenere il minimum fidei non tengono conto delle sue posizioni successive, purtroppo”.
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