La bella colonnella
La più poetica, spietata e scintillante definizione fu del segretario fiorentino: “La fortuna è donna”. Lei avanza nell’aula del Senato. Gli occhi la precedono, un bagliore intermittente, un taglio felino, l’annuncio di un gioco d’inganni. Gli incauti pensano sia la bellezza al potere, in realtà è la bellezza del potere. Maria Elena Boschi è la fortuna, il segretario fiorentino è Niccolò Machiavelli. Non si può indagare la fortuna senza rileggere “Il Principe”. Non si fa un’indagine sul renzismo senza raccontare la Boschi.
Chi è Maria Elena Boschi? Una ragazza fortunata o una fortuna di ragazza? Una donna che fa politica o la politica che si fa donna? Lasciamo che sia lei a tracciare sul taccuino la genesi del carattere: “I miei genitori si sono conosciuti come volontari in una campagna elettorale per un partito politico. Quindi io sono il frutto di un amore nato grazie alla politica”. Gong! Siamo a “Otto e mezzo”, Lilli Gruber cerca di perquisirle l’anima, Marco Damilano è ipnotizzato dai tentacoli dell’acconciatura. “Non sottovalutiamo nessuno” aggiunge. E soprattutto non bisogna sottovalutare lei, Maria Elena, la tenera macchina da guerra di Matteo Renzi, l’altro segretario fiorentino.
Nata a Montevarchi nel 1981, cresciuta a Laterina, avvocato tutto 110 e lode, la giovane Boschi mangia minestra e politica fin da bambina in quell’aretino che fu del Pietro “poeta tosco, figlio di cortigiana con l’animo di un re”. Si parte da qui, da questa terra che scollina tra l’Arno e l’invaso di La Penna, guarda l’oro di Castiglion Fibocchi e giunge fino a Arezzo, città di vescovi-conti.
La genesi, dicevamo. Maria Elena è la pianta che cresce nel latifondo della Democrazia cristiana in Toscana, un fazzoletto d’Italia bianca in una regione tinta di rosso. In famiglia gli affari sono maschi, la politica è femmina. Mamma Stefania declinata in Agresti è il vicesindaco di Laterina, nata democristiana, poi popolare con Martinazzoli e infine democratica ma sempre in bianco nel primo Pd veltroniano. Papà Pierluigi sa di terra e finanza, agricoltura e sportello di banca popolare (dell’Etruria), democristiano che sa di botte, grappa, olio, è la tessitura di terra e politica che si associa (e dissocia) in Confcooperative e Coldiretti. Maria Elena è il grappolo d’uva bianca di questo vigneto, lontanissimo l’uvaggio rosso della sinistra. In poche parole, un’eresia.
E’ la fortuna di Matteo Renzi, la Boschi. All’inizio dell’avventura ministeriale, quelli che sferruzzano la politica, la presero sottogamba o meglio, ne apprezzarono la gamba e, distratti dall’armonia, non ne afferrarono la trama che stava in testa. Quando divenne ministro, oibò, fu tutto uno stormir di “ma come si può” e “alle riforme c’è una ragazzina” e santi numi “che affronto al Parlamento”. Era la Leopolda renziana che avanzava nelle imparruccate istituzioni con il tacco a spillo acuminato, ma tal era la supponenza dei gazzettieri che non se ne colse la sorridente minaccia. Quando Maria Elena andò a giurare al Quirinale, apparve ai rotocalchisti un essere che a loro sembrava esaurirsi nel titolo da gossip. Sciagurati. C’era ben altro da scoprire. Un anno e mezzo dopo quel giorno, il 22 febbraio 2014, s’affannano a inseguirla in spiaggia, in discoteca, scrivono di una beata giovinezza che c’è e ci sarà ancora a lungo, figuriamoci, ma ne ignorano la rocciosa concretezza. A trentaquattro anni Maria Elena Boschi sta per dare un colpo di ghigliottina al bicameralismo, stampa il suo nome e cognome sulla riforma che fu discussa da tutti e approvata mai. Cose che capitano, forse inspiegabili, ma capitano. L’opera della giovinetta ha un che di prometeico. Ci provò la commissione Bozzi nel 1983-1985, proseguì la commissione De Mita-Iotti nel 1992-1994, andò avanti la commissione D’Alema nel 1997-1998, e ci provarono ancora ieri i saggi riuniti da Gaetano Quagliariello, invano. Tutti baciati dalla sfortuna. Poi è arrivata la sorella gemella, la fortuna, e ha deciso d’accompagnare Maria Elena. Fa coppia con Anna Finocchiaro, di diritto e di rovescio. Il risultato, seppur bislacco in alcune parti, è che il Senato va in pensione, il Suk della Repubblica chiude i battenti, la Boschi resta e il governo Renzi si prepara a superare un passaggio a livello dove il treno della storia s’era divertito a travolgere tutti. Renzi sa bene che quello di Maria Elena non è uno “sminestrare” qualsiasi, un vai e vieni ministeriale d’ordinanza, ma un lavoro duro, qualcosa che la vita prima o poi ti scartavetra sul volto e l’anima. E poi, attenzione, perché la frase del Machiavelli continua, dice altro, spiega, raccomanda, ammonisce: “La fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla”. E un carattere in apparenza mite in realtà cela sempre un’asprezza, un angolo acuto, un punto di durezza non scalfibile né dagli ordini né dai disordini, siano questi della politica o del cuore. C’è la squadra, ma mai sottovalutare il capriccio del singolo. E se Renzi domina e decide, la Boschi ha cominciato a governare. E impara in fretta.
Qualche mese fa hanno cercato di farle ballare la rumba quando sono venuti fuori i conti (malandati) di Banca Popolare dell’Etruria, dove il padre Pierluigi era vicepresidente e il fratello Emanuele dipendente. Bankitalia ha commissariato Etruria, ma la manovra di affondamento della Boschi è fallita. Chiaro segnale per il futuro: colpire Maria Elena per affondare Matteo. Il poker di Palazzo Chigi si gioca in cinque. La Boschi siede al tavolo insieme a Renzi e altre tre figure: Luca Lotti, Antonella Manzione e Francesco Bonifazi. Lotti è il braccio armato del governo, la Manzione fa (e disfa) le regole, Bonifazi controlla la cassa del partito, Matteo ha lo scettro. E la Boschi? Tesse la ragnatela e canticchiando assesta il colpo finale sulla preda. Oggi è il Senato, domani si vedrà. L’essere tutti di Firenze ne fa una squadra dove le aspirate sono una carezza e una minaccia, la pizza e la Coca-Cola a Palazzo Chigi sono l’esercizio di un potere inedito in una Roma che i divanisti pensavano di aver conquistato per sempre. L’essere non comunisti, né post- né pre- senza –ismi e toscani li rende tutti eredi (in)naturali di Fanfani. Spericolato confronto? Sprezzo del pericolo e forse del ridicolo? Certo che lo è, ma le donne e il rischio sono il format dello shopping quotidiano, l’attrazione fatale che non schivi mai e Maria Elena, la sventurata, un giorno così rispose al non-intervistatore Fabio Fazio. Domanda: “Chi preferisce tra Fanfani e Berlinguer?”. Risposta: “Da aretina non posso che dire Fanfani, per una questione di vicinanza territoriale…”. Bang! eccola l’eresia, roba da processo per stregoneria. Vi è un qualcosa di ribelle in lei, un carattere percorso da un fiume sotterraneo che ogni tanto zampilla in superficie.
La fortuna è donna, ma anche inquietudine, una sottile linea rossa fatta di solitudine e tempo che scorre. Disse la Boschi a Vanity Fair: “Figli? Ne vorrei tre. E a volte penso di essere già in grave ritardo… Desidero molto trovare un compagno. Sono single da un anno e la vita di coppia mi manca. Torno tardi dal lavoro, la casa è sempre vuota, sono lì da sola a bermi una tazza di latte e magari ho passato la giornata a discutere di emendamenti con uno dell’opposizione. Vorrei almeno trascorrere il mio tempo libero con qualcuno con cui sognare un futuro insieme”. Era il 22 aprile del 2014, sarà cambiato qualcosa? La sua vita privata è squadernata sul patinato, le attribuiscono flirt di ieri e di oggi, ma ancora nel febbraio di quest’anno certifica il suo status su Chi: “Sono ingrassata un po’ e ancora non ho trovato il fidanzato. L’amore non vuole che gli si corra dietro”. Lo diceva la nonna. Non sbagliava. E su Facebook per ora non è comparsa nessuna “relazione complicata”. Una signora che la incrocia spesso a Palazzo Chigi confida: “E’ giovane, in gamba, ha un grande futuro, ma deve ancora imparare a essere elegante. Vorrei quasi portarla in giro per negozi con me”. Non è moda, ingenui, questo si chiama programma politico.
Il carattere, la fortuna, l’imprevedibile sono parte del tratto di Maria Elena. Flashback, 21 luglio 2014, sono giorni infuocati, il ministro per le Riforme è sotto tiro, la Boschi prende la parola in Senato, difende la riforma e chiude il suo intervento così: “Sono trent’anni che prendiamo a schiaffi l’opportunità di cambiare noi per cambiare il paese. Sono trent’anni che sprechiamo l’occasione di scommettere sul futuro. Sono trent’anni – come direbbe il poeta – che aspettiamo domani per avere poi nostalgia. Pensiamo che sia oggi il tempo delle scelte, il tempo di decidere. Nelle vostre mani, onorevoli senatori, sta non soltanto questa fondamentale riforma della Costituzione, ma forse l’ultima chance di credibilità per la politica tutta e sono sicura che nessuno di noi vorrà sprecarla”. Fermi tutti: chi è il poeta? In aula s’ingegnano a trovare il riferimento. I senatori romani vanno di sillogismo: so’ tutti de Firenze… sarà Dante. Qualcuno più colto avanza l’ipotesi Guicciardini. Macché, “il poeta” citato dalla Boschi è una figura da anarcopedia, Fabrizio De Andrè, il passaggio è preso da una canzone intitolata “Se ti tagliassero a pezzetti”. Zac! Sarà anche uno scherzo dello storytelling renziano (così lo chiamano nella compagnia di giro) ma di sicuro Maria Elena è una che “ha i giornali in una mano e nell’altra il suo destino”, un furetto potenzialmente anarchico dentro un’organizzazione dove al primo posto c’è l’obbedienza. Resisterà? O la Boschi è forse come la donna della canzone, una lei che “cammina fianco a fianco al suo assassino?”. Qualche settimana fa, vedendo i suoi occhi da tigre durante lo scontro in Senato, alcuni nel Palazzo hanno cominciato a bisbigliare di una “distanza” da Renzi, di strappi e rattoppi, di lavori e livori in corso d’opera. Si è ricordata con parole impiombate la tumulazione ministeriale del fidatissimo Graziano Delrio, la raddrizzata data tempo fa dal Matteo al Dario, il sindaco di Firenze, Nardella. Rumors e domande che restano sospesi sul taccuino del cronista. Tutti zitti, ma la realtà è un’altra, la Boschi è finora il miglior prototipo della Leopolda renziana, un esperimento da laboratorio politico contemporaneo: Maria Elena nel 2012 la conduce, nel 2013 la coordina e l’anno successivo diventa ministro. Fast and furious. Vedo accigliarsi i sostenitori della politica fatta di manifesti attaccati sui muri la notte, e la vita di sezione con i muri sbrecciati e i volantini di dieci anni prima, e i dibattiti sulla “cosa”, e il fumo di sigarette, e i pantaloni a zampa d’elefante, e i memorabili incontri di boxe tra militanti e le regolarissime sconfitte elettorali. Bene, cari compagni, tutto questo a Firenze è già successo. Solo che il fatto e il misfatto sono stati consumati senza seduta di autocoscienza e cineforum, tutto è avvenuto con la rapidità del contemporaneo. Il mondo di Maria Elena (cioè quello di Renzi) era con le lancette avanti, sminuzzava il presente con il coltellino degli scout, mentre il partito di Bersani e D’Alema era in ritardo fisso, sperduto tra la cenere del caminetto e la sabbia della clessidra.
[**Video_box_2**]Ecco perché Renzi e Boschi costituiscono un nucleo inscindibile del Pd di oggi e (forse) anche di domani. Lui comanda, lei governa. Dove c’è un guaio, un incendio, il caos alle porte, c’è lei con i cavalli di frisia, a interpretare la linea, schierare le truppe, ordinare i lavori, mettere in fila le pedine della dama. L’altro ieri ne abbiamo visto la rappresentazione plastica in Parlamento. Mentre il ministro degli Esteri era in missione in Marocco è piovuta sul tavolo del governo un’interrogazione sul caso del riscatto pagato (e chi lo sa?) per la liberazione delle due cooperanti rapite in Siria. Gentiloni non c’è, chi va ad affrontare l’aula? La più giovane del gruppone di testa, la Boschi. E’ il 6 ottobre, un agguerrito Gianluca Pini chiede lumi e promette sfracelli, Maria Elena non fa un plissé, snocciola la risposta istituzionale, dice e non dice, rinvia al Copasir e lascia il Pini tra color che son sospesi, carico a molla e “parzialmente soddisfatto”. Il Palazzo la trasforma. Fredda. Piena di nuances che confondono. Calcolatrice. A ogni sua mossa, s’apre (e chiude) una botola da giungla vietnamita. La Boschi emana il piacere di stare nella trincea. Bella e implacabile. E’ stata sempre così? Certo, lo è sempre stata in potenza, ma c’è un episodio a turboelica che è rimasto impresso sul mio taccuino. Riprendo un vecchio Moleskine datato 2014, scorro una nota del 28 maggio: “Boschi, treccine, bambini”. Che storia. Ore 3.18, profilo twitter di Maria Elena Boschi: Kinshasa. Stiamo ripartendo con i bambini che tra poche ore faranno festa con le loro famiglie #felicità #acasa. Qualche ora dopo, trentuno bambini congolesi scendono dall’aereo, famiglie, lacrime, tricolore, la Boschi prende due pargoli per mano e sfodera un sorriso che è puro ninja marketing. Una spada nel cuore del famoso (e spesso fumoso) immaginario collettivo. Maria Elena con i bimbi in aereo. Maria Elena estasiata e con le treccine. Maria Elena con i lucciconi. Maria Elena. Punto. E a capo. Chiudo il vecchio Moleskine, sembra un secolo fa. Rieccola, un anno e mezzo dopo, nell’aula di Palazzo Madama, chiedere un’interruzione dei lavori del Senato: “Chiedo una breve sospensione per una verifica sull’articolo 38 prima del voto finale”. E’ là, a un passo dal traguardo. E dopo? Perché in questa storia c’è un dopo, un non detto, un sussurro che comincia a lievitare come un soufflè: il ticket. Quale ticket? E’ l’incubo delle opposizioni, si materializza quando in aula i due – Renzi e Boschi – parlottano sottovoce, seduti sui banchi del governo, con la mano di fronte alle labbra. Là capisce che quella storia non è poi così campata in aria, che c’è una generazione che brucia i tempi (e gli avversari) senza pensarci troppo. Si buttano “e poi vediamo cosa succede”. Cosa? Cribbio, il ticket: Renzi al Quirinale e Boschi a Palazzo Chigi. Tranquilli, non siamo al se non ora quando, c’è tempo. Questa storia è come quella precedente: durerà vent’anni.
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