Ragazzi di Pechino
Quando il giornalista americano Eric Fish entra per la prima volta in una chiesa non ufficiale cinese, riunita in un appartamento in uno dei quartieri più altolocati di Pechino, nota “qualcosa che non avevo mai visto prima in Cina”. La chiesa è non ufficiale, clandestina, ma non necessariamente nascosta, nonostante la repressione che le comunità cristiane non approvate dal governo centrale subiscono da sempre, con censure e provvedimenti che sono diventati più duri negli ultimi tempi: la chiesa di Fish è nell’appartamento sotto al suo, e lui inizia a frequentarla perché una ragazza gli dà un volantino. Quando entra ci sono venticinque persone, quasi tutti millennial, ragazzi nati tra la fine degli anni Ottanta e il Duemila. Pregano insieme, cantano insieme, piangono insieme e non hanno paura di mostrare le loro fragilità, e questa è una cosa a cui Fish, che ha trascorso molti anni in Cina, ha studiato all’Università Tsinghua, la più importante del paese, e ha lavorato per alcuni giornali cinesi, non aveva mai assistito in precedenza. I ragazzi cinesi vengono cresciuti per essere manager e soldati. Il governo, la società e la sempiterna dottrina marxista tentano di plasmarli a loro immagine, li inquadrano, li irreggimentano, li opprimono. Se molti giovani millennial cinesi si stanno avvicinando sempre di più alla religione, non solo cristiana, e sono disposti a entrare in chiese più o meno clandestine come quella dell’appartamento di Pechino, non è solo perché in loro si è risvegliata la fede. La sensazione di libertà emotiva, l’empatia, la rottura di tutte le costrizioni imposte dalla società e dal Partito comunista sono una ragione altrettanto valida. Ma stranamente i giovani cristiani dell’appartamento di Pechino (altra storia sono quelli perseguitati e imprigionati nelle province) non hanno animosità nei confronti del regime. In Cina “i leader del governo devono essere atei, il proselitismo è illegale, e quanti non riconoscono che la loro chiesa è soggetta all’autorità del Partito comunista violano la legge”, scrive Fish. Ma i giovani cristiani non sembrano preoccupati. “La Bibbia dice che dobbiamo rispettare le regole del governo”, dice una di loro di nome Sue. “Dobbiamo rispettare le regole, ma possiamo anche avere fede. Non c’è contraddizione”. “Il socialismo contraddice il cristianesimo”, protesta un altro ragazzo cristiano, Chu Zhen. “Il Partito pensa che Dio non esiste”. Ma Sue ribatte: “Il loro socialismo non è vero socialismo. E’ socialismo cinese”.
Scrivere di millennial nel 2015 significa incappare in sicuri cliché. Da così tanti anni i media e gli opinionisti di tutto il mondo cercano di dare un’identità alla generazione degli attuali ventenni che da aver dato corpo una ridda di contraddizioni. I millennial sono narcisi, svogliati, sdraiati, bamboccioni, choosy. Sono apolitici e al tempo stesso non pensano alla carriera. Non hanno passioni, e se le hanno non sono sogni, sono un microcosmo di egoismi. I millennial però sono anche generosi, riflessivi, attaccati ai valori, capaci di superare la più grave crisi economica dai tempi della Grande depressione senza troppi danni. Sono pragmatici, rottamatori, capaci di superare categorie e steccati. Per anni i giornali hanno scritto qualsiasi cosa dei millennial senza che questi se ne accorgessero (tendenzialmente perché i giornali non li hanno mai letti), ma ancora nessuno è riuscito a venire a capo delle contraddizioni. Se c’è una certezza, e che i millennial sono sfuggenti e restii a ogni definizione.
Lo stesso vale per i millennial cinesi, che da tempo generano dibattito in patria perché pochi altri salti generazionali significano tanto in Cina quanto quello tra i millennial e chi li ha preceduti. I millennial cinesi sono i primi ad aver trascorso tutta la loro vita nell’èra della crescita economica a due cifre e a non aver conociuto le durezze della Rivoluzione culturale e dell’èra di Mao, e questo li ha resi bestie strane perfino per i loro genitori. I cliché sono molto simili a quelli occidentali. In patria sono considerati apatici, svogliati, materialisti; all’estero sono visti come vittime del perfetto sistema repressivo cinese, che ha sostituito la violenza con il benessere: obbediteci, e noi vi daremo borse di Gucci e macchine di lusso. Il cliché del millennial cinese viziato è forte tanto quanto lo era quello dell’instancabile lavoratore cinese pronto a turni di 14 ore al giorno solo qualche anno fa, e straborda spesso sui media occidentali. All’inizio di settembre su Foreign Policy, rivista americana di politica internazionale, è apparso un lungo articolo sui nouveaux riches cinesi che invadono le prestigiose università americane. Il sottotitolo recita: “Un tempo gli studenti cinesi all’estero erano diligenti, risparmiosi e idealisti. Non è più così”. Seguono aneddoti sui figli del boom cinese che spesso sono più ricchi e meglio vestiti dei loro colleghi americani, e che hanno abbandonato ogni velleità ideale per inseguire ambizioni particolari: se negli anni Ottanta la giovane Danchi Wang studiava Medicina per diventare la “Madame Curie cinese”, oggi tutti si iscrivono a Economia o Finanza perché è il modo più facile per fare soldi. In Cina il dibattito verte sugli stessi toni, e preoccupa la leadership di Pechino: che fine ha fatto la solida gioventù comunista?
Eric Fish, che scrive di Cina su diverse riviste americane, tra cui l’Atlantic, e a giugno ha pubblicato un libro sui millennial in Cina, “China’s Millennials”, parla di una “want generation”, e il termine riesce a rendere bene la commistione di egoismi, aneliti e speranze dei giovani non solo cinesi. Ma c’è un’altra definizione che può essere data ai millennial cinesi, che non parte dall’identità ma dalle circostanze, e rende le sorti dei giovani di Pechino molto interessanti anche per l’occidente. Comunque li si voglia guardare, i millennial cinesi sono la generazione della superpotenza. I ragazzi che stanno uscendo dalle università di Pechino e Shanghai o che da poco hanno iniziato la loro carriera professionale saranno manager tra dieci anni, miliardari (i più fortunati di loro) tra quindici e formeranno la leadership politica della Cina tra vent’anni, di qualsiasi colore sarà. Per allora, se tutto va come previsto dalla stragrande maggioranza di economisti e analisti, la Cina sarà la prima economia del mondo (manca poco), e forse anche la superpotenza politica e militare che ha sostituito o affiancato gli Stati Uniti alla guida del globo. Questa superpotenza sarà guidata dai millennial di oggi, gli stessi che la critica comune definisce viziati ed egoisti, privi di leadership e incapaci di superare le difficoltà. Per questo capire cosa gli sta succedendo interessa anche a noi.
Quando si parla di giovani in Cina, tutto inizia da Tiananmen. Poco importa se i ragazzi che parteciparono alle proteste soffocate nel sangue nel 1989, l’ultimo vero movimento giovanile in Cina, oggi vanno per i cinquanta. Tutto parte da loro e dal patto silente stipulato tra i sopravvissuti e il Partito comunista. Quando si parla delle proteste di Tiananmen tutti ricordano la piccola Statua della Libertà eretta dagli studenti in piazza e gli slogan per la libertà di espressione. Ma Eric Fish, riprendendo le dichiarazioni di uno dei leader studenteschi, scrive che la protesta è stata anche (forse soprattutto) una questione di identità: “Non abbiamo gli obiettivi che avevano i nostri genitori. Non abbiamo l’idealismo fanatico che avevano i nostri fratelli e sorelle maggiori. Quindi cosa volevamo? Scarpe Nike. Più tempo libero per portare la nostra ragazza al bar. La libertà di discutere con qualcuno, e di ottenere un po’ di rispetto dalla società”. Dopo aver ordinato all’esercito di aprire il fuoco sugli studenti, i leader comunisti intuirono questi bisogni, e da quel momento la loro maggiore preoccupazione fu dare ai ragazzi scontenti le sneaker Nike e i localini romantici che desideravano. Gli diedero perfino la liberazione sessuale, il “Grande Fratello puritano” cinese ormai si è ritirato. Noi vi diamo il benessere, dissero, la politica lasciatela fare ai grandi. Nessuno ha dato un nome a questo patto mai scritto e mai siglato, ma su di esso si fonda la stabilità politica e sociale della Cina contemporanea – e l’impressione, errata ma diffusa in occidente, che il Partito comunista sia riuscito a fare il lavaggio del cervello ai suoi cittadini e a garantirsi stabilità imperitura fintanto che l’economia continuerà a correre. Ma l’idea che esce dal libro di Eric Fish (che pure ha un andamento narrativo e non procede per tesi) e dal gran parlare che si è fatto negli ultimi tempi dei millennial cinesi è che il “patto di Tiananmen” non sia più così stabile come un tempo.
[**Video_box_2**]La crisi delle Borse di Shanghai e Hong Kong, con migliaia di piccoli risparmiatori spinti dalla propaganda governativa a investire sui mercati e a gonfiare la bolla per poi vedersela scoppiare tra le mani, e le pesanti ombre cresciute quest’anno intorno all’economia cinese, con previsioni di crescita del pil riviste in continuo ribasso e i dati sulla produzione industriale in calo, stanno mostrando al mondo una realtà che i ragazzi cinesi conoscono da tempo. Anche se “China’s Millennials” è uscito quest’anno, Eric Fish ha concluso le sue ricerche per il libro nel 2014, e buona parte delle interviste è stata fatta nel 2013, quando ancora nessuno sentiva gli scricchiolii del gigante cinese. Ma ai millennial di Pechino che la situazione fosse diventata più dura era chiaro da tempo. “Come è già successo in precedenza negli Stati Uniti e in Giappone, la crescita senza freni della Cina sta lasciando il passo ai postumi dolorosi della sbornia”, scrive Fish. La gioventù cinese sta già affrontando una serie di problemi: cattive prospettive di lavoro, costi delle abitazioni fuori controllo, una popolazione che invecchia rapidamente e di cui bisogna prendersi cura, un divario fra i generi senza precedenti e danni ambientali che renderanno più difficile l’avanzata dell’intera nazione”. Buona parte di “China’s Millennials” è dedicata alla preparazione, allo sforzo, all’aspettativa. Per esempio al sistema del “gaokao”, il terrificante esame per l’ingresso all’università che deriva dagli esami per la selezione della classe dirigente di epoca imperiale, e in preparazione del quale i ragazzi cinesi trascorrono buona parte della carriera scolastica tra ansie, distruzione della vita personale, pressioni dei genitori e a volte suicidi. Un tempo passare il gaokao ed entrare all’università significava ottenere un lavoro sicuro e una vita di relativo benessere, ma oggi il tasso di disoccupazione tra i laureati è altissimo, 12 per cento in città e 30 per cento nelle zone rurali (la disoccupazione totale i Cina è dell’8 per cento), e i lavori migliori vanno ai figli dei ricchi e dei notabili di partito, perché in Cina senza “guanxi”, senza contatti altolocati, è impossibile fare fortuna, e per molti millennial sembra che la scala sociale si sia interrotta. Lo stesso vale per la “ciotola di riso dorata”, il modo in cui in Cina è definito un lavoro nella Pubblica amministrazione, un tempo porto sicuro a cui tutti anelavano e oggi, scrive Fish, cimitero per le aspirazioni di millennial addestrati a diventare manager e finiti a passare carte.
La crescita economica è stata la misura dell’identità cinese negli ultimi vent’anni, la fondazione del patto sociale e generazionale che ha tenuto insieme il paese dopo Tiananmen e che ha dato legittimità non solo all’esistenza del Partito comunista, ma anche a quella di un’intera generazione. Ma ora che la crescita rallenta, e i piani del governo di transizione verso un’economia trainata dai consumi interni arrancano, la generazione che sta per prendere le redini della Cina scopre che il “sogno cinese” promosso dal presidente Xi Jinping all’inizio del suo mandato è stato svuotato del suo senso. Ci sono le premesse per far crollare il patto generazionale di Tiananmen, ma come i ragazzi della chiesa clandestina di Pechino, i millennial cinesi sono cresciuti imparando a convivere con la contraddizione. Possono essere infelici per se stessi, ma soddisfatti per la direzione verso cui la Cina si sta muovendo. Sono pronti a tollerare l’incompetenza, al corruzione, un mercato del lavoro che li rigetta, ma non a fare la rivoluzione. Eric Fish, come tutti gli osservatori prima di lui, non riesce a immaginare quale condizione possa spingere i giovani cinesi a formare un movimento che abbia anche solo le parvenze di quello di Tiananmen. Ma, dice Fish, nessuno è mai riuscito a prevedere questi fenomeni prima che si verificassero.
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