Marco Ricci, “Capriccio con rovine romane”, 1720-1725, olio su tela, Collezione Laura Biagiotti

Il canto delle rovine

Alessandro Giuli
Il primo impatto fu preadolescenziale, a Corinto: il biancore ebbro del marmo in un pomeriggio d’agosto, ulivi silenti e fragranza di pini, ginestre estenuate dall’arsura mediterranea, pantaloncini corti, sbucciature sulle ginocchia di fanciullo.

Il primo impatto fu preadolescenziale, a Corinto: il biancore ebbro del marmo in un pomeriggio d’agosto, ulivi silenti e fragranza di pini, ginestre estenuate dall’arsura mediterranea, pantaloncini corti, sbucciature sulle ginocchia di fanciullo, una mano paterna a indicare la via, il rumore dei sandali sul viale ghiaioso che taglia a strati il sito archeologico. Una giovane famiglia romana in pellegrinaggio, mossa forse da atavismi, istinti insondabili, rime segrete. Ai lati del sentiero che conduce al tempio di Apollo si cumulano rocchi e piedistalli, basamenti anonimi, frammenti illeggibili di una opalescenza informe e lattiginosa che si colora d’ambra sulle sette colonne del santuario dedicato al dio Lungisaettante. Uno stupore infantile, prelogico, si accompagna alla visione. Il primo incontro lo ricordo così, come un capriccio metafisico.

 

Contemplatore di mondi lontani, ho raggiunto una certa confidenza con le rovine. Quelle più antiche, intendo. (Ma pure con il Novecento non ho scherzato, sebbene queste siano più che altro macerie e dalle macerie non stilla luce. Le rovine sì, dalle rovine può giungere qualcosa, qualcosa che ammaestra perché non consola). Hanno una forza, le rovine. E “La forza delle rovine” può essere carne del tempo e memoria di confine, o un esperimento estremo, ludico perfino. Adesso è anche una mostra, curata da Marcello Barbanera e Alessandra Capodiferro, appena inaugurata a Palazzo Altemps (120 opere, fino al 31 gennaio, sontuoso il catalogo Electa, comme d’habitude), nei saloni patrizi di una Roma immota, museale, chiamata però a ospitare un flusso di significati potenti. Nell’essere profondo di ogni rovina (ruina) si nasconde l’idea dello scorrimento (dal greco reomai), un fluire di atomi e stagioni, il compromesso degli universi che si avvicendano. E’ ambiziosa l’esposizione di Palazzo Altemps, sebbene i curatori vantino le sue qualità narrative più dei capolavori offerti. Il percorso vuole essere non soltanto archeologico, è interdisciplinare, dunque totalizzante, articolato in nove sezioni. Si comincia dalle catastrofi moderne e contemporanee: cinema, fotografia e pittura illustrano la possibilità ravvicinata del qui e ora, ed è un gioco scoperto, anti romantico, dichiarato fin dapprincipio attraverso l’analogia con il pensoso Cicerone delle Tusculanae (III,53): “… dove il celebre oratore esprime la commozione che aveva provato nel vedere le rovine di Corinto” (Barbanera-Capodiferro). Una lacerazione fresca, privazione di senso e prossimità di detriti che inquietavano allora come adesso la dinamite dei tagliagole islamisti a Palmira, o una batteria di missili nucleari occidentali. A seguire c’è l’idea del restauro, della completezza pretesa o del venerabile segmento, lì dove gli anni, se non più spesso le mani fanatiche del monoteismo tardoantico, hanno mutilato senza uccidere: “Torso: dal desiderio di integrità al culto del frammento” è la seconda sezione rotante intorno al così detto Polifemo della collezione Altemps. Poi è la volta dei “Paesaggi di rovine”, soggetto di oleografia pittorica dal Cinquecento in poi, cui si contrappongono subito dopo le “Rovine del paesaggio”: orizzonti “violentati, sfruttati, dove in breve tempo gli uomini hanno accumulato relitti industriali e umani che non possono aspirare allo status di rovine, perché la ‘storia futura’ di cui parla Marc Augé è già qui: ‘La storia futura non produrrà più rovine, non ne ha il tempo’”, come ricorda Barbanera presentando la mostra, insistendo sulla dialettica rovine/macerie. Qui subentra il Giambattista Piranesi meno volgare, il topografo, metronomo di scavi a uso dell’archeologia che verrà dopo di lui (“Anatomia delle rovine”). E qui invece s’apre fosca la cappella di Palazzo Altemps in cui per una trentina di minuti è possibile ascoltare la “Marcia funebre” della Eroica di Beethoven, il Rendering di Luciano Berio (omaggio schubertiano, com’è noto), la densità di un intermezzo che mira alla sinestesia mentre scivola nell’effetto pastiche – fin dal nome della sezione: “Frammento, memoria, creazione: il cammino della musica” – e indirizza alla stazione successiva: “Il canto delle rovine” vocalizzato dai ritmi funerei di Rainer Maria Rilke e Thomas Stearns Eliot.

 

Gran finale: “L’errore di Diderot: le rovine nell’antichità classica e orientale” ovvero la sezione più in linea con la scenografia spaziale dei saloni, i convitati di marmo nell’Altemps, la coabitazione di stili e soluzioni di continuità nell’antico; e “Ri-costruire le rovine”, dagli scavi en amusant dell’Ottocento, talvolta fantasmatici nelle rielaborazioni, come a Cnosso, all’archeologia come disciplina delle città morte, indagine del presente sedimentato sulla materia occulta ma ancora palpitante, perfino nella cinematografia di massa (notevole la scelta del trailer dal film “My life in Ruins” di Donald Petrie) e nella pubblicità contemporanea o quasi (la mostra si chiude con un manifesto anni Ottanta in cui un maschio in forma di colonna, fra colonne di marmo, fa propaganda alle cinture Gibaud). Qui termina la ricerca dell’originalità, in omaggio alla filogenesi testuale della mostra ancorata a uno studio recente dei curatori (“Metamorfosi delle rovine”, 2013).

 

Desemantizzare e risemantizzare è il destino delle grandi e piccole collezioni, com’è evidente in ogni museo, dove almeno si suppone abiti ancora qualcheduna delle Muse. Fra le rovine dell’Altemps l’andamento si fa anche sdruccioloso, appaiono addirittura i “poemi sospesi” preislamici, grondano dal soffitto e lasciano immaginare le tende della Ka’ba su cui, dorati e ripiegati, venivano appesi devotamente. Escrescenze culturali affastellate con ardore più che con metodo? Possibile. Eppur funziona, perché così si schiva l’errore, il languore, la nostalgia incombente in ogni rappresentazione delle rovine. Perfino alla vista della Kore proveniente dal Museo di Atene, segnacolo in pezzi del passaggio persiano nel 480 avanti l’èra volgare.

 

Come l’edera che s’insinua negli interstizi di una tomba a camera etrusca, ne dilata le commessure, si fa trama e ordito dionisiaco in rigoglio, fa divinare (ed è lecito) un messaggio postumo dell’inumato – Mi Pacha, sono consacrato a Bacco – ma al tempo stesso rischia di sommergere il manufatto e rovinarlo, così Barbanera e Capodiferro con la loro mostra si fanno restauratori del concetto di rovina. Il rovinar gli è dolce in questo mare, e con il loro ardito inventario sfidano il magistero conservativo del vittoriano John Ruskin (1819-1900), opportunamente citato: “Il vero significato della parola restauro non è compreso né dal pubblico né da coloro che sono incaricati di prendersi cura dei monumenti. Ciò significa la più totale distruzione che gli edifici possono subire: una distruzione di cui non rimangono che resti da poter rimettere insieme; una distruzione accompagnata dalla falsa descrizione dell’oggetto distrutto”.

 

Giunto qui ho bisogno di Giacomo Boni (1859-1925), restauratore e archeologo imprescindibile, che di Ruskin fu allievo non scolastico. La sua idea di “rudere monumentale” si combina con l’ineluttabile “ripresa delle forze naturali sulla materia, in cui l’uomo ha impresso i segni della propria intelligenza. Oltre che un fattore di bellezza esso è un documento di autenticità, quando proviene dall’azione secolare degli agenti naturali sopra l’opera d’arte e le crea una personalità simile a quella che gli anni creano nelle anime che non vivono invano. Dipendendo dal tempo – cioè da un fattore ultraumano – è infinitamente prezioso e insostituibile”.

 

E se fosse questo il canone migliore, la base del discernimento e della selezione? Non potrebbe valere per Chernobyl, che pure oggi è un parco naturalistico popolato di specie magnifiche (lupi sopra tutto) ancorché contaminato, dove l’autentica opera d’arte non è l’equilibrio tra natura e cultura ma la riappropriazione integrale che il bìos infligge alla materia esanime e spopolata dagli umani. Né varrebbe per la teoria di macerie belliche e ambientali sopraggiunte con l’ultimo uomo, quello epimeteico che comprende, se comprende, a cose fatte, a danni procurati, sempre tardivo, ormai postumo a se stesso.

 

Deve esserci dell’altro, deve esserci un quid speciale nelle rovine antiche, nel rudere monumentale sopraffatto, o riacceso, dalle forze della natura, e se solo le chiamassimo non più rovine, ma vestigia, ce ne accorgeremmo. Nel vestigio è implicita l’idea dell’orma, del solcare una terra salendo, è la traccia di un’ascesa, un movimento che conduce in su, anagogico lo direbbe Dante. Ecco la mèta, è ancora lontana ma eccola lì, per esempio sul monte di Terracina di Giove Fanciullo, del quale resta in apparenza un podio al di sotto di possenti arcate. Osserviamolo con occhi chiusi, silenzio nel cuore, fredda costanza da arcieri, e ci si disvelerà l’ampiezza di un clima, di un ritmo. Si comprenderà che quel posto non è santo perché ci è stato costruito sopra un tempio, al contrario: qualcuno, versato nella scienza spirituale, ha fatto edificare un tempio perché lì ha riconosciuto la santità del luogo, una sezione aurea, privilegiata, del tutto vivente (Iò Pan!), e ancora indorata di fiori misteriosi, quelli della ferula di Giove (Ferula communis), l’alta ombrellifera nel cui fusto Prometeo occultò il fuoco rapito ai Superi. E quanti altri innumeri casi (casi?) di sposalizio monumentale con ulivi minervali, lauri apollinei, pampini dionisiaci, querce gioviali, mirti afroditici…

 

[**Video_box_2**]Legge di analogia, virtù della magia simpatica intuita da Giacomo Boni mentre osserva “l’azione secolare degli agenti naturali sopra l’opera d’arte” che “crea una personalità simile a quella che gli anni creano nelle anime che non vivono invano” e si fa perciò “documento di autenticità”. Una autenticità convalidata dal frequente allineamento stellare, solstiziale o equinoziale, di manufatti rupestri o altri monumenti più tardi (pensate al Pantheon, con quel foro perfetto nella volta, occhio di Ciclope): sono i tre mondi che entrano in comunicazione, il cielo astrale con la roccia terrestre e con le linfe vegetative di sotterra. Per fare di tre cose una sola, in omaggio a una metrica (dal greco metron=misura) che poggia sulla natura animata come modello e grazie al raro uomo prometeico (la natura non è democratica, almeno lei), colui che pre-vede, può modellarsi in chiara sintassi (dal verbo ellenico tàxein, ordinare: syn-taxis=mettere ordine nell’insieme).

 

“Ad un’unica cosa si badi: a tenersi in piedi in un mondo di rovine” (J. Evola), e come abbiamo detto c’è rovina e rovina, vestigia o macerie. Lo sento dire da anni. Ma oggi quali uomini sono all’altezza delle loro vestigia? Liberarsi dai detriti interiori, questo l’avvio, per poi cogliere l’essenza che non fluisce nel fluire della natura naturata: la natura naturante di cui parlò Giordano Bruno. Altrimenti anche la danza dei benintenzionati – e il visionario Marcello Barbanera, ideatore della mostra da cui muovo, lo è, così come Alessandra Capodiferro, direttrice di Palazzo Altemps – non sarà che un Sabba erratico per occhi rabbuiati da “una continua meditazione sulla frammentarietà dell’esistenza, sul bisogno di conservare la memoria, sulle schegge del passato che riemergono come pezzi dell’inconscio cui bisogna dare una collocazione”. Ciechi, e non già accecati come bambini dal biancore ebbro del marmo corinzio in un pomeriggio d’agosto.

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