Tutta la vita che resta
Padova. All’ingresso ci sono Olivia e Braccio di Ferro, grandi come esseri umani adulti, salutano e fanno segno che andrà tutto bene. Pollice in alto, anche se non è vero. Pollice in alto, perché invece è vero. Andrà bene, o almeno andrà meglio, oltre quelle porte automatiche ci sono stanze colorate e medici vestiti come genitori, ci sono videogiochi e macchine potenti: c’è chi si prende cura della vita che resta. Di tutta la vita dentro e fuori un bambino malato, malatissimo, inguaribile. Il bambino a cui nessuno dirà: è passato, amore mio, adesso stai bene, non farci prendere mai più questo spavento. Un bambino che non chiede alla sua mamma: morirò?, perché non vuole farla soffrire di più. Sa che la risposta è: sì, sa che la mamma vorrebbe starci lei in quel letto con i pupazzi intorno, con il buchetto sul collo per respirare e il futuro che sfugge. La guerra è dichiarata, combattuta, persa: non si vince sempre, ma è difficile dirselo, ed è difficile per noi del mondo fuori sopportare il peso della sconfitta qui dentro, sapere che dietro a Braccio di Ferro, e nelle case, dietro le finestre accese la domenica pomeriggio, ci sono trentamila bambini che non guariscono. Non torneranno a correre, oppure non cammineranno mai, non li aspetteremo la notte col cuore in gola tornare dalla discoteca, e diranno cose che non si possono dimenticare: “E’ buffo: le ragazze della mia età sanno tutto dei ragazzi, io so tutto delle cure palliative”. Sara ha diciassette anni e gli occhi azzurri più azzurri che esistano, parla e mi fissa e mi sfida: “Che cos’ha signorina, forse non si sente bene?”. “Sto benissimo, mi interessa quello che dici”. “Significa che posso continuare o le fa paura?”. Sara conosce gli sguardi, il terrore di chi non vuole sapere, il rumore che fa questa parola nelle vite degli altri: inguaribile. Inguaribile non è accettabile, inguaribile è meglio non guardare. Sara ti guardo invece, parliamo dei film che ti piacciono, degli attori più belli, di te che diventerai famosa e ricca come la scrittrice di Harry Potter, e con tutti quei soldi “aprirò un hospice favoloso con la piscina e la sauna”. Tutta la paura che hanno le persone prima di entrare nell’Hospice pediatrico di Padova, le domande egoiste (ce la farò?), tutto il piagnisteo qui dentro scompare. Non c’è spazio per l’angoscia, nessuno ha il diritto all’angoscia, e c’è troppa vita qui dentro da prendere per mano, e c’è l’insurrezione anarchica contro il distogliere lo sguardo. Ma soprattutto c’è Thomas che è nato due mesi fa ed è minuscolo, con tanti cerotti, vuole stare sempre in braccio dopo tutto il tempo da solo in terapia intensiva. Suo padre lo porta in giro spaventato e fiero, lo avvolge con le braccia e dice: “E’ il nostro primo figlio ed è di porcellana, ma noi staremo attenti, verranno ad aiutarci a casa, ci spiegano come si fa, siamo felici”, e c’è Sara che vuole sapere perché non può avere figli, fare l’amore, andare a Parigi, vuole sapere da me che sono di Ferrara perché a Ferrara in centro tutti si giravano a guardarla, lei e sua madre hanno molto riso dei ferraresi. Sara che ha spalancato ancora di più gli occhi azzurri e ha detto: “In questi anni ho capito che il mondo è fatto al dieci per cento di intelligenti e al novanta per cento di stronzi”.
La dottoressa Franca Benini, che ha portato le cure palliative in Italia e combatte da trentacinque anni al fianco dei bambini inguaribili e delle loro famiglie, ride: Sara dice sempre quello che pensa, anche la paura che ha di morire, ma soprattutto, durante l’ultima crisi respiratoria, la “paura che vedevo negli occhi di mia madre”. Che è bellissima e continua a sorridere, a tradurre le parole più complicate (Sara parla in un modo soltanto suo, oppure usa il comunicatore: con le pupille individua le lettere e compone le frasi, ma non le piace per niente) e adesso però è tardi: Sara andiamo a casa, c’è tua sorella che ti aspetta.
Durante la guerra era più semplice: si stava lì, appesi con i denti a un ramoscello, oppure sott’acqua in apnea, un bel respiro prima e poi giù, il caffè nel bicchiere di plastica tutto il tempo, la bambina con i pulcini disegnati sulla maglietta e i buchi sulle braccia, il neonato che pesa quanto una piuma ma stringe fortissimo il ciuccio con le dita trasparenti, l’attesa dietro una porta, dio ti prego se ci sei salva mio figlio, prendi me, butta tutto addosso a me. Ma poi basta, un medico serio ha detto: inguaribile, abbiamo fatto tutto il possibile, andate pure a casa. A volte l’ha detto in un modo brusco, perfino, perché non c’era il tempo, perché gli hanno insegnato a operare d’urgenza ma non a trovare le parole.
Che cosa succede da quel momento in poi, nei giorni della resa, nei mesi e negli anni della vita che resta? Quando passa anche l’ultimo istinto di incendiare i parcheggi, le porte, gli ascensori, i negozi, far esplodere tutte le luci di tutte le case dove stanno preparando la pasta al pomodoro, rovesciare il tavolo apparecchiato e urlare: noi stiamo morendo, lui morirà, tutto qui adesso deve bruciare. Che cosa succede quando l’apnea non serve più, e bisogna fare respiri lunghi e trovare il modo, le carezze, i gelati, il tempo, l’amore per salvare l’amore, quando bisogna cambiare lavoro e vendere la casa perché in quell’ascensore non si entra con la sedia a rotelle? C’è il dolore che avvolge i giorni, ma i giorni sono fatti anche di cose concrete e di soldi e di animali di pezza e di così tante medicine, e chi sta con Francesco oggi ché se non vado a lavorare mi licenziano? E perché fai così adesso, non dire che non ce la fai, non dire che è colpa mia, io ti ho amato e basta, maledetto quel giorno, maledetti noi, non faccio altro che stare qui, tu non ci sei mai, è salita la febbre, gli fa male, non ho tempo di lavare le lenzuola, ma dove cazzo vai.
Dopo che un medico ha detto ai genitori di un bambino: “Non guarirà”, uno studio importante ha raccontato che quella diagnosi cambia la vita di circa trecento persone. Le persone di famiglia, la mamma che perde il lavoro, la sorella che impara a usare il sondino, la signora delle pulizie che viene licenziata per risparmiare, i compagni di scuola, i nonni che dicono: ma perché non la portate in America, lì la guariscono, vi diamo la nostra liquidazione, ma perché vi rassegnate, l’insegnante di sostegno che viene assunta per un anno, la maestra che decide di andare a casa di Marcello a insegnargli le tabelline, la maestra che invece decide di fingere che Marcello non sia mai esistito, il papà che si laurea in Psicologia, perché vuole capire meglio sua figlia adesso che è arrivato questo uragano, adesso che non c’è un minuto da perdere. Trecento persone per trentamila bambini, e vediamo adesso se è così poco, un quasi nulla, e se è meglio non dire.
Dico una cosa stupida appena arrivata, seduta nel terrazzino di questo piccolo Hospice che si prende cura di novantotto bambini nel Veneto (ma i medici vanno fuori area se serve, e ci sono anche i figli dei profughi, con le mamme smarrite che non capiscono una parola e sorridono, e imparano subito una piccola frase: va meglio), dico “è terribile”. La dottoressa mi guarda con gli occhi che scrutano i miei per capire se sono davvero così stupida e risponde, gentile e non rassegnata: non è terribile, è la vita. Non è terribile se cerchi di fare il meglio possibile, il massimo del meglio, la vita per una bella vita.
Annibale Carracci, particolare di uno degli affreschi della Galleria Farnese (Roma, 1598-1607)
Dal 2010 in Italia c’è una legge (la numero 38) che tutto il mondo studia e copia, e Franca Benini e la fondazione Maruzza Lefebvre (una onlus che è un riferimento a livello mondiale e che ha parlato delle cure pediatriche italiane all’Assemblea mondiale della Sanità lo scorso maggio) hanno lavorato sodo, sempre con ostinata speranza, perché diventasse così importante. Livia Turco, al ministero della Salute, ci ha creduto, ha creduto a questa diversa visione della malattia. E’ una legge di cui è più difficile parlare perché non prevede un trionfo della medicina, non contiene la salvezza e la vittoria, ha in sé le parole “cure palliative” e “terapia del dolore”. Riprende integralmente un documento tecnico per cui la dottoressa Benini si è battuta per decenni, da quando, da pediatra, medico che lavorava nella terapia intensiva per i neonati, delusa dal sogno di fare E.R. e di regalare il lieto fine a ogni puntata, ha toccato la sconfinata umanità del dolore. E il divario drammatico tra la crescita della medicina, in grado di afferrare per i capelli persone in condizioni estreme, e la mancata crescita sociale: quelle persone non le salvi, anche se le hai salvate, se non te ne prendi cura.
Non ha a che fare con Dio, il senso del dolore. Non c’entra la fede in Dio se guardando una mamma che piange ci si chiede: e adesso che farà? E se una calamita tira verso di lei, anche adesso che il tuo compito di medico forse è finito, e non puoi fare a meno di chiederle: hai bisogno di soldi? Hai dormito stanotte? Chi ti dà il cambio con Matteo? “Essere un professionista, essere un medico, è anche questo: governare una risposta ai bisogni della vita”. Quando la vita diventa estrema, l’uomo deve dare una risposta.
E la vita grida bisogni in ogni minuto, e il telefono della dottoressa Benini suona ogni cinque minuti, ci sono emergenze, o semplicemente rassicurazioni da dare sulle dosi di morfina, c’è quel padre che non ha riempito il frigo per il ritorno dall’ospedale della moglie con il bambino, e anzi si è appena alzato e ha lasciato il letto sfatto. “Fila a fare la spesa, ti aspetto qui”, gli ha detto brusca l’infermiera dell’ambulanza, e lui l’ha guardata stranito, anche un po’ arrabbiato, ma non ha detto niente, si è infilato le scarpe ed è scappato fuori.
La vita grida bisogni che vanno molto oltre il bisogno sanitario: chiede molto, chiede di non essere lasciata sola. “Quando ho cominciato a fare il medico pensavo che avrei salvato tutti, avrei guarito tutti, sarebbe stato quello il mio trionfo – dice Franca Benini – Ma non è possibile, non succede sempre: succede di mandare a casa bambini che non guariranno, non cammineranno, non respireranno da soli, che distruggeranno la famiglia con il carico di dolore che portano con sé, succede di parlare con genitori smarriti, ed è lì che inizia il compito più complesso di un medico: dare aiuto perché qualcuno ha bisogno. Cambiare la mia testa, piena di diagnosi mediche, e aprirla alle necessità della vita. Cambiare la vostra testa, piena di paura, e aprirla alle possibilità della vita”. Ecco la definizione: cambiamento culturale. Smettere di fare finta di niente. Fare finta che con quell’operazione al cuore abbiamo fatto tutto il possibile. Fare finta di non vedere che quella mamma è da due mesi in ospedale e ha un altro figlio a casa e un marito che guida i camion la notte. Fare finta di non vedere, soprattutto, che questo bambino inguaribile vuole andare a scuola, vuole studiare storia, vuole andare a mangiare un gelato con i suoi amici, vuole degli amici, rifiuta la ventilazione di notte per respirare perché adesso e grande e decide da solo, vuole andare in gita a Roma, vuole proteggere i genitori dalla sua morte, vuole stare con il suo cane Pongo anche in ospedale quando si può. Un bambino inguaribile non è un adulto inguaribile. Un bambino inguaribile cresce, cambia, matura, vuole scoprire il mondo, giocare sempre, vedere tutti i film che fanno piangere, tutti i film con gli spari, e ha ancora così tanta fiducia negli adulti che si aspetta da loro che gli dicano cosa sta succedendo, cosa succederà. Niente bugie per favore. Anche gli amici di quel bambino hanno bisogno di spiegazioni, di consigli, attorno a Francesco che perde ogni giorno un tassello della sua esistenza c’è un mondo di persone che grida piano, ma grida aiuto. Perché? E adesso? E noi? Attorno a un bambino che non diventerà adulto ci sono esigenze da bambino, medicine da bambino, commozione e assistenza professionale che riguarda in modo specifico l’infanzia, assistenza che un medico degli adulti non è preparato a dare. Si chiamano “cure palliative pediatriche” per questo, perché un bambino è un altro mondo. Delicato, fragile, fortissimo. Ha crisi terribili, di quelle che fanno pensare che è finita, e dopo un giorno sta quasi bene, e dopo due giorni vuole disegnare gli alberi. Solo il venti per cento dei bambini inguaribili in Italia ha un tumore irreversibile, le altre sono patologie strettamente legate all’infanzia, alla nascita. Malattie da bambini. Diverse dalle malattie dei grandi. Matilde aveva un tumore al cervello e Sara mi mostra la sua foto nel letto dell’Hospice pediatrico di Padova, circondata da pupazzi e con il cagnolino sul letto, la mamma accanto. Matilde sorrideva e a Sara aveva detto “Ciao”, poi Sara l’ha vista peggiorare all’improvviso e per la tristezza e lo spavento è stata molto male, non riusciva più a respirare. Matilde non ce l’ha fatta, ma non è mai stata sola. Le cure palliative e la terapia del dolore non negano la morte, non vogliono nasconderla o spostarla in un buco nero, lontana dagli occhi. Un bambino è morto con la mamma che gli teneva la mano, il papà che gli leggeva una favola, i fratelli intorno che avevano disegni per lui. E’ così difficile da dire, da scrivere, è smisurato anche solo pensare a un bambino che muore, è ingiusto, ma per quel bambino, e per la sua famiglia, è stato il modo per avere meno paura, per sentirsi amato, circondato e protetto. Per sentire che c’era un senso.
La verità è importante. La verità aiuta a essere più forti, anche, e creare un legame di fiducia con i medici. Ai bambini bisogna dirla, sennò è un tradimento e loro lo capiscono. “I bambini ti mettono a nudo su cose che non avevo il coraggio di affrontare, che nessuno vorrebbe affrontare”, dice Franca Benini senza camice bianco e senza orari. Lei è reperibile ventiquattr’ore al giorno. Non è cattolica, non crede in Dio ma nelle persone sì, nei ragazzi di oggi moltissimo, “come posso fingere che il mio compito sia finito con due paroline di commiato, come posso sopportare l’idea che quel bambino da adesso in poi sparirà, totalmente a carico della sua famiglia sotto choc?”. Ci sono anche studi economico-sanitari attorno ai bambini inguaribili. Un ricovero costa milleottocento euro al giorno: l’assistenza a domicilio, comprensiva di psicologi, infermiere, fisioterapisti, macchinari, maestre, eticisti perfino (“ma l’eticista più dotto e meno astratto è sempre il genitore”), una rete di soccorso, un cerchio di protezione insomma, costa perfino meno. “E inguaribili non significa invisibili”, dice un padre giovane con lo sguardo limpido dell’addio alle armi, che non significa affatto smettere di combattere. All’Hospice sono tutti amici ormai, e una sera i medici hanno detto a lui e sua moglie: andate, uscite, la ragazzina la teniamo noi stasera, voi fate i fidanzati. Anche la ragazzina era felice. “Siamo usciti dalla porta, come ubriachi, e ci siamo seduti sui gradini qua sotto perché non sapevamo bene cosa fare: erano dieci anni che non uscivamo noi due”.
Inguaribili non significa invisibili, ma soprattutto significa vivi. Francesco, che adesso ha tredici anni, a sei anni ha detto alla sua mamma: “E’ vero che le cose più preziose sono anche quelle più difficili da trovare?”, “Sì amore mio”, “Sono difficili da trovare e anche più delicate, vero mamma?”, “Sì tesoro”, “E allora perché io per gli altri non sono prezioso?”. Io che sono raro, io che sono delicato, io che sono vivo ma per vivere il meglio possibile ho bisogno dell’aiuto di tutti, ho bisogno della carrozzina elettrica, ho bisogno di qualcuno accanto la notte, ho bisogno che la mamma vada dal parrucchiere, anche, perché così non ce la fa più. Ho bisogno che voi del mondo fuori non abbiate paura di me. E ci sono bambini che chiedono: mamma, maestra, papà, dottoressa, perché sono nato se adesso urlo dal dolore? Perché sono nato se devo morire adesso che ho cinque anni?
Arriva Ludovico, otto anni, corre velocissimo, mi fa una foto col flash e scappa via, si mette sul letto a testa in giù, chiede aiuto per il telecomando della Wii, arriva un’infermiera giovane e bella e gli chiede in cambio cinquanta euro o un bacio. Lui si vergogna delle smancerie e ride, dice che è l’omino della rabbia di “Inside Out”, perché a volte gli viene la “rabbia rabbiosa”, ma gli piace molto anche Gioia, sono i suoi personaggi preferiti insieme ai Ninja. Sara invece non ha ancora visto “Inside Out”, è in punizione perché il primo giorno di scuola, in collegamento da casa via Skype, si è addormentata durante la lezione di matematica. Ma Sara si addormenta perché ha anche lei la rabbia rabbiosa. Con il mondo fuori, con quel novanta per cento, come dice lei, di stronzi che non le dicono ciao, che non le chiedono se le va di guardare la tivù insieme, di spettegolare un po’. All’inizio anche con la dottoressa che la chiamava principessa. “Scusi se mi permetto, ma principessa mi sta sulle palle, io mi chiamo Sara”. E un’altra Sara, dodici anni e mezzo, magra come un cerbiatto, e con la mamma nella poltrona letto accanto, arrivata da Bolzano di corsa perché stava impazzendo dal dolore, dolori da adulti in corpi da bambini, dolori da infarto, adesso sorride, ha l’apparecchio ai denti, il tablet sul letto, i fuseax rosa, whatsapp che si illumina, e la madre ringrazia la dottoressa, “anche per il caffè che posso farmi la mattina alle cinque là nella cucina, mi sembra un po’ di stare a casa”. Sorridono di sorrisi veri, non forzati, sorridono perché ne hanno voglia. Questo Hospice di Padova è un posto che dovrebbe stare in ogni città: un posto che è un “network model” nelle cure palliative. E non soltanto per tutto quello che succede dentro l’Hospice, per le librerie piene di dvd di cartoni animati, per le infermiere specializzate che hanno fatto master e sono capaci di parlare alle coppie che hanno perso un figlio, ma soprattutto per l’immensa forza, fatta di forze piccole e umanissime, che viene portata fuori da qui. Ogni bambino inguaribile viene curato, assistito, ascoltato nella sua casa tutte le volte che è possibile, tutte le volte che un ricovero non è necessario (“vediamo quello che c’è nel territorio dove abita e contattiamo infermieri, ospedale, medico di base, fisioterapista, 118, assistenti sociali, l’Hospice centralizza ogni intervento”). Perché casa è il mondo, la stanza con i poster, i fratelli che ridono, il divano pieno dei peli del gatto, a volte il giardino, la tavernetta con i videogiochi dove Ludovico invita i compagni di classe a giocare, perché lui da loro potrebbe andare solo con la madre di vedetta, ha la tracheotomia, se si addormenta il cervello non da più gli impulsi necessari alla respirazione. Ipoventilazione centrale, dalla nascita, si chiama sindrome di Ondine. Ludovico respira soltanto se è sveglio. “Il dottore gli ha detto: Ludovico, è meglio se sott’acqua al mare non ci vai. Ma lui ci vuole andare lo stesso e allora al mare si toglie tutto e gli mettiamo un cerotto grande, e lui si tuffa”. La mamma di Ludovico dice che, grazie all’Hospice, Ludovico non si sente malato. Non sente che va in ospedale. Dice: andiamo là a vedere se va tutto bene. Dormiamo là per controllare che vada tutto bene. I prelievi, il monitoraggio notturno, tutto quello che la medicina può offrire a un bambino che non guarirà mai ma che scoppia di vita e anche di rabbia rabbiosa quando i bambini a scuola gli dicono che è deficiente con quel buco sul collo. E tu che fai? Gli dico che sono loro i deficienti e li picchio: posso? Sì, certo che puoi.
[**Video_box_2**]Tutto quello che la medicina può offrire si ferma a un certo punto, e da quel punto comincia tutto quello che serve. Tutta l’umanità necessaria. Lo sconvolgimento familiare. Uno guadagna i soldi per vivere, l’altro sta a casa, i precipizi e le risalite, gli amici che spariscono, il capufficio che diventa nervoso, i figli che mentono sul dolore, mentono sulla paura, perché vorrebbero scomparire e non dare più problemi. La dottoressa che prende l’auto e va a parlare con il capufficio, gli spiega la situazione, e lui la ascolta con le mani che tremano e alla fine chiede scusa. Il padre che cambia lavoro per sempre, adesso fa il bidello in una scuola dove ci sono bambini come il suo, e lui sa come si fa, e loro sanno che possono fidarsi di lui. C’è una cosa, poi, indiscutibile, misteriosa: i bambini sanno tutto. Sentono quando ti allontani solo un istante, sentono quello che non dici, sentono la rabbia anche quando la nascondi, sentono il sorriso quando è fasullo. Un bambino con la manìa dei fucili era nella sua stanza con i genitori, ha cominciato a lamentarsi, voleva assolutamente che la mamma andasse a prendergli quel fucile giocattolo in un’altra stanza, lo voleva e lo voleva, il padre ha detto: vado io, lui: no ci deve andare la mamma. La mamma è andata a prendere quel fucile e lui è morto. Non voleva che lei lo vedesse, l’ha protetta: ha usato le ultime forze per fingere un capriccio.
Si può dire, senza spaventarci, senza fuggire, senza fingere che stia succedendo in un mondo lontanissimo e oscuro: quanto dolore. Parli del dolore fuori o del dolore dentro?, ha chiesto alla dottoressa un bambino delle elementari. Che cos’è per te il dolore dentro? Quando sei solo, quando le persone ti lasciano, ha risposto quel bambino. Quando sei solo hai il dolore dentro, quando nessuno ti risponde hai il dolore dentro.
Sara dice che da quando c’è l’Hospice, e le persone che ci lavorano, e tutte le persone di questa rete di salvataggio, lei ha meno paura. Perché sua madre ha meno paura. Perché c’è qualcuno che ascolta, che dà consigli, che ride e dice: buongiorno. I volontari meglio di no, le persone con tempo libero che vogliono sentirsi meglio portando le caramelle ai bambini no, tanto i bambini vogliono stare con i loro genitori, ma se vogliono aiutare allora possono mettere a disposizione quello che sanno fare: parrucchiera, avvocato, notaio, maestra di musica, commercialista, meccanico, grafico pubblicitario. C’è sempre bisogno di una lettera, di un preventivo, di un volantino, di una messinpiega. La vita vera è fatta anche di letti da trasportare, di feste di compleanno, di viaggi in macchina fino a Berlino in questo preziosissimo tempo che rimane. Qualcosa di buono da aspettare. Ho promesso a Sara che a Roma, dove verrà fra poche settimane (per la prima volta) per il congresso sulle cure palliative, nessuno si volterà a guardarla stupito o impaurito. Le ho detto che qui siamo tutti molto fichi. Le ho promesso che sarà divertente, anche se sui marciapiedi con la sedia si balla un po’. Soprattutto la dottoressa le ha promesso che staranno nello stesso albergo, quello con l’ascensore abbastanza grande, e che le terrà la mano per tutto il giorno. E che sarà come stare all’Hospice, solo più affollato. Lei ha detto che “dopo tutta questa sfiga” si aspetta qualcosa di grandioso. Ha ragione. Qualcosa di grandioso per lei, ma anche per Thomas che comincia adesso e si aggrappa al ciuccio fra le braccia di suo padre. Qualcosa di grandioso, la più bella vita che si possa avere.
Il Foglio sportivo - in corpore sano