Giulietta dei segreti
Non potevi inventarmi questo ruolo di ballerina trent’anni fa?”, aveva detto Giulietta Masina a Federico Fellini durante la lavorazione di “Ginger e Fred”, nel 1985, e in quella frase c’era tutto il mistero della loro coppia. Coppia di coniugi, ma a modo loro, e al di là delle doppie vite, del perdersi e del ritrovarsi molte volte, fino all’ultimo pranzo rubato alla malattia parallela che li porterà a morire a cinque mesi l’uno dall’altra, ma solo dopo aver celebrato insieme le nozze d’oro. Coppia regista-attrice, e anche molto di più, se è vero che Fellini, soltanto guardando Giulietta, sentiva nascere nella sua testa i personaggi femminili dei suoi film in modo quasi inspiegabile, come se abitassero già dentro di lui per via della vicinanza con quella donna conosciuta ventenne negli anni duri della guerra, a Roma, negli studi radiofonici dell’Eiar, quando ancora il futuro regista era un autore di testi alle prime armi, un dinoccolato riminese a Roma, magrissimo, capellone e sempre in impermeabile, così dirà poi Giulietta, ricordando i pomeriggi in cui si erano incontrati e piaciuti a dispetto dell’etichetta (nel 1943 non si poteva invitare una ragazza a pranzo senza una scusa ufficiale e plausibile né si poteva accettare un invito a pranzo di un ragazzo senza prima mangiare primo, secondo e contorno a casa con i propri parenti, in modo che i parenti medesimi non si insospettissero, e pensassero che andavi a un appuntamento di lavoro).
C’era, nella mente di Federico, a ogni film e alla fine in “Ginger e Fred”, ultimo lungometraggio in cui Masina recita e Fellini dirige, la storia di un lungo passo a due, il passo suo e di Giulietta da almeno tre decenni. E sullo schermo, alla fine, restavano due anziani ex ballerini di rivista, simulacri dei divi e degli amanti che erano stati, due reduci che si incontrano dopo essersi persi alle soglie della pensione. Lei, Giulietta, la moglie-attrice-musa-folletto, finalmente poteva ballare in scena con un vero abito da sera – ballare-ballare, e non ballare camminando, cosa che faceva in ogni film, come aveva detto un giorno a Tullio Kezich, il critico cinematografico a cui si era raccontata, e a Gianfranco Angelucci, l’amico regista e sceneggiatore della coppia che su di lei oggi ha scritto un libro (“Giulietta Masina. Attrice e sposa di Federico Fellini”, edizioni Sabinae), racconto-ricordo in presa diretta (Angelucci ha frequentato a lungo la casa Masina-Fellini) ma anche indagine sul “personaggio più dimenticato del cinema italiano”, come ha detto Tatti Sanguineti nella puntata monografica di “Storie di cinema” (in onda tutti i martedì su Iris, in seconda serata). Non tutto è come sembra, nella storia di Masina e Fellini, due geniacci naturali del cinema, e bisogna scoprire “il volto in ombra della luna”, dice il detective-scrittore Angelucci, che a un certo punto, quasi per caso, comincia a seguire la suggestione di un segreto sussurrato tra comari a San Giorgio di Piano, il paese dove Giulietta aveva trascorso i primi anni di vita. Un segreto mai confermato del tutto e anzi smentito ufficialmente dai diretti interessati, la storia possibile-impossibile della Giulietta figlia illegittima di suo padre e della tata, bimba mandata a vivere a Roma da una zia ricca a soli quattro anni (anche per questo motivo e non soltanto per darle un’educazione altolocata).
E da quei pochi indizi prende forma, nel libro di Angelucci, la favola triste della piccola Masina allontanata dal suo ambiente in un’età in cui il dolore arriva senza che si possa capirne i contorni esatti. Chissà se è per questo, si chiede Angelucci, che Giulietta apparirà così magicamente adatta al ruolo di Gelsomina, la ragazza che ne “La strada” viene venduta per diecimila lire, un fiasco di vino e un cartoccio di mortadella allo zingaro saltimbanco Zampanò (e prima di salire incredula e disperata sul suo motofurgone Gelsomina spalanca gli occhi per l’ultima volta sul panorama della spiaggia e della capanna dov’è cresciuta, come stordita per lo sgomento e per l’assurdo).
Ed è quel segreto presunto (che non regge a tutte le prove dei fatti) a diventare, in mano allo scrittore Angelucci, la chiave che spiega l’inspiegabile e la corrispondenza d’animo e di espressione di Giulietta con la protagonista de “La strada”, il film del 1954 che poi vincerà il primo Oscar felliniano, ma soprattutto il film più voluto da un Fellini non ancora famoso, e da una Masina non ancora chiamata “female Chaplin”, la Charlot donna, come diranno poi gli inglesi a Oscar vinto, estasiati, al cospetto di Masina e di Fellini che si ritrovano a Londra su invito della Regina Elisabetta II, fan sfegatata de “La strada”. E nessuno ci credeva, tra gli inglesi, che Giulietta non fosse davvero Gelsomina; nessuno riusciva a distinguere la Giulietta donna dalla Giulietta attrice: orde entusiaste di spettatori l’avevano chiamata per strada “Jasmine, Jasmine”, regalandole collane come talismani e pacchi di abiti e cibo come piccoli aiuti all’indigente, come se lei davvero lo fosse, povera (arrivavano in albergo doni su doni, raccontò poi Giulietta divertita). E anche se Giulietta fuori dallo schermo era Giulietta Masina, la moglie di Federico Fellini, l’attrice premiata e riconosciuta in mezzo mondo, per gli inglesi continuava a essere l’aiutante gentile e sperduta del saltimbanco-mostro Zampanò, spalla maltrattata di un inventore di numeri da circo scombiccherati, suonatrice di tromba che smuove il mondo su note di Nino Rota, ragazza che accompagna il mostro che l’ha comprata con aria spaurita ma non vinta, fino all’irruzione sulla scena del Matto, il funambolo violinista interpretato da Richard Basehart, l’attore che le cronache rosa dipingevano come segretamente innamorato di Giulietta, e che Fellini si divertì non senza malizia a mettere accanto a Giulietta in un altro film, il “Bidone”, in cui lei fa la moglie e lui il marito (nel libro di Angelucci il gioco psicologico tra Masina e Fellini, due che sono comunque indispensabili l’uno all’altra, percorre anche le storie di altri film, “Giulietta degli Spiriti” e “Le notti di Cabiria”).
Sono anni anche divertenti, quelli, anni in cui i collaboratori dei registi – Moraldo Rossi per Fellini e Franco Zeffirelli per Luchino Visconti – fanno quasi a botte al Festival di Venezia, in pieno deflagrare di opposte tifoserie, in un delirio di Fellini contro Visconti come nemmeno Coppi contro Bartali. Sono anni in cui i giovani spettatori, al cinema, turbati dalle scene erotiche felliniane un po’ avanti rispetto ai tempi, si mettono letteralmente a mordere le spalliere delle poltrone in preda a turbamenti e impulsi non controllabili. E Giulietta, trovandosi a Hollywood dopo aver vinto l’Oscar, ma essendo ancora in fondo in fondo la ragazza di provincia con il mito di Clark Gable, non riesce a non chiedergli l’autografo, al bell’attore di “Via col vento” seduto a tavola con lei – e lui risponde che forse è il caso che lo chieda lui a lei, visto che lei ha vinto la statuetta (ma quando Giulietta racconta la scena a Federico, Federico bofonchia qualcosa come: “Gable? Con quelle orecchie a sventola?”). E sono anche anni, quelli, in cui Ennio Flaiano, scrittore e co-sceneggiatore di Fellini dal carattere spigoloso, può arrabbiarsi a morte per un mancato posto in prima classe sul volo per l’America, errore della produzione pagato caro (io in classe turistica?, aveva detto stizzito, e da quel momento tra Flaiano e Fellini sarà gelo). Roma, in quel momento, vive la sua stagione del boom, della “Dolce vita” su schermo e non, dolce vita in cui il momento di buio fa parte del gioco (ma perché, si domandavano i critici, avete messo ne “La dolce vita” la scena agghiacciante del tranquillo e raffinato borghese, marito perfetto, che a un certo punto, preso da insondabile angoscia, uccide i figli e se stesso? Non sarà opera del cinico Flaiano, quella scena?). Nessuno poteva spiegare perché Fellini avesse voluto rappresentare nel film l’improvviso irrompere dell’orrore nel quotidiano. Come nessuno poteva davvero spiegare (e capire) che cosa avesse tenuto insieme quei due, Federico e Giulietta, a dispetto delle altre donne che il regista sognava e frequentava, sempre però non potendo neanche lontanamente pensare di restare un attimo senza quella moglie che era molto più che una moglie. E quando, in “Otto e mezzo”, i protagonisti, in piena crisi coniugale, si mettono a discutere dell’insostenibile pesantezza del loro matrimonio, il marito fedifrago dà corpo alla riluttanza psicologica di entrambi alla separazione, e chiede alla moglie “ma sei proprio convinta, tu, che un altro marito… un altro uomo, sarebbe meglio di me? Forse sì, ma tanto meglio da giustificare la fatica di ricominciare da capo?”.
[**Video_box_2**]A qualcuno, a quel punto, era tornata in mente la frase che uno dei migliori amici e compagno di scorribande di Fellini aveva detto a Fellini molti anni prima, quando lui, giovane autore Eiar, aveva deciso di sposare quella donnina, scricciolo allegro ma così diverso dalle maggiorate che apparentemente lo stregavano, e lui, Federico, aveva risposto che voleva sposare Giulietta perché solo lei lo faceva tanto ridere, e Giulietta forse lo sapeva, che tutto poteva essere nato dall’incontro racchiuso in una risata. Poi c’era, scrve Angelucci, il segreto del suo abbandono vero o presunto, sicuramente intuito da un marito-medium: un abbandono forse soltanto vissuto nella sua mente di bambina, magari non illegittima ma sicuramente mandata a Roma da una “Zia Mame” ante litteram che, come la divertissima zia mondana che nell’omonimo romanzo di Patrick Dennis introduce il nipote alla vita mondana d’America, si muove da gran dama nella Roma povera e bella, e porta Giulietta a teatro in carrozza, educandola altresì a pensare con la propria testa.
Giulietta era arrivata nella Capitale senza sapere bene perché, ma ci si era trovata benissimo, anche se continuando a cercare, ogni estate, tornando al Nord dai genitori, il mondo perduto della prima infanzia. Mi ricordo “la stazioncina”, diceva, con “il campanellino” che segnalava l’arrivo del treno. Mi ricordo il paese perfetto con il campanile e i quattro orologi: tutte madeleine che rimandavano comunque, scrive Angelucci, al trauma dell’allontanamento mai dimenticato, lo stesso di Gelsomina, per sempre ragazza nostalgica della sua famiglia e della sua capanna sulla spiaggia, anche se stregata dalla poesia del “Matto”, il violinista funambolo che le spiega il senso delle loto vite sconquassate prendendo in mano un sassolino – se questo sassolino non conta nulla allora non contano nulla neanche le stelle lassù, e Gelsomina si illumina, curiosa prima che invaghita di quell’uomo che osserva il mondo da una strana prospettiva, così diversa da quella di Zampanò.
Quanto di Giulietta-attrice viene dalla Giulietta-moglie? Quanto dei film di Fellini viene dal “Libro dei sogni” di Fellini, il volume doppio di appunti onirici che Giulietta non volle far pubblicare postumo per rispetto di quel marito amato fin da quando lui era un ragazzo “ironico” che “ci sapeva fare con le parole”? Federico doveva poter tenere per sé, anche dopo la morte, i suoi lati oscuri e le sue doppiezze, pensava Giulietta, comprese le doppiezze che le avevano fatto così male, venute a galla ma non sconfitte quando Federico aveva incontrato la psicoanalisi, senza mai interrompere il sotterraneo confronto-scontro con la donna con cui si sentiva “sposato dalla nascita”.
Voleva ballare, Giulietta, e ogni suo personaggio partiva da lì, da una camminata-passo di danza, cifra distintiva che le veniva spontaneo immaginare alla prima lettura del copione: camminata triste, camminata di sfrontatezza, camminata piena di complessi o di contraddizioni. Era come partire per un viaggio – “partire con un personaggio”, diceva Giulietta che sul set non sopportava di “sentirsi toccare i capelli”, una tortura per chi, come lei e come tutte le persone di bassa statura, così diceva, vedeva nel capello alto sulla testa uno scudo e un prolungamento di sé.
Voleva ballare, Giulietta, anche quando qualcosa di un personaggio le andava stretto – per esempio quella “Giulietta degli Spiriti” in cui poco si riconosceva: io non sono così, diceva, in casa mia comandavo io, e non sono mai stata succube di mia madre e di mia sorella. E nel suo enigma di moglie che accetta le doppie vie percorse dal marito, “creatura fatata”, scrive Angelucci, ma non vittima, Giulietta ridiventa a un certo punto la ragazza nostalgica che, tornando d’estate nel paese natìo, si chiedeva come mai fossero improvvisamente scomparse le cicale, sottofondo dei pomeriggi di afa, giochi e merende con il ciambellone intinto nel lambrusco.
Qual è il segreto che tiene cinquant’anni insieme una coppia senza figli?, aveva chiesto qualcuno alla Giulietta che un figlio con Federico l’aveva avuto, all’inizio del matrimonio, per perderlo dopo soli quindici giorni. Era stato l’inizio di un periodo nero di dolore fisico e psicologico, e di un malessere protrattosi per anni, tra un film e l’altro. Sullo schermo poteva essere, Giulietta, buffa e lunare come quando interpretava l’ingenua prostituta Cabiria, che sogna la casetta borghese e un uomo che si innamori di lei al di là di tutto (e però poi finisce per due volte nelle mani del mascalzone che vuole derubarla). O poteva essere affranta come Gelsomina nei momenti iniziali della vita con Zampanò, Giulietta, ma mai si era trovata, sullo schermo, nella notte in cui l’aveva fatta precipitare quel primo parto e quella perdita impensabile per una giovane madre. Eppure la coppia Federico-Giulietta aveva resistito a tutto, fino a quelle strane nozze d’oro celebrate fuggendo dai rispettivi ospedali il giorno prima che morisse Federico. E allora lei aveva capito: “Cosa unisce una coppia quando non ci sono bambini? Ho visto, e non lo dico per trovare delle scuse, che in molte coppie con figli questi diventano un ricatto per una convivenza obbligata. La coppia senza figli, se sta insieme, è perché sta bene. Ci sono stati 50 anni di scambi tra me e Federico. Magari anche di qualche gelosia mia, di qualche incomprensione, di qualche lite – io poi divento una furia, una volta ogni vent’anni. C’è stata una vita. Devo dirlo, una vita sincera, autentica, vera, senza ipocrisie, con il coraggio di rimanere e di essere noi stessi, sempre”. E quando Fellini era morto Giulietta aveva continuato a dire agli amici, scuotendo la testa, che insomma, sì, lei si doveva curare, stava male, e ringraziava tutti, e voleva bene a tutti, ma che ci stava a fare, lì, lei, senza Federico?
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