Volkswagen über alles
E’ stato uno sgambetto all’etica protestante e allo spirito del capitalismo germanico, una entrata a gamba tesa sul Modell Deutschland fatto di legami oscuri e clientelari tra azionisti, manager, sindacati, banche, politici, senza contare tutti i discendenti di gerarchi nazisti al comando delle imprese, quelle di famiglia e quelle del complesso bancario-industriale. Ultimo, ma non per importanza, il terremoto sui conti del gruppo e su quelli della nazione, a cominciare dal taglio dei posti di lavoro. Insomma, il dieselgate non scuote solo la Volkswagen, ma la Germania intera. Attenti, però, a dire che l’auto tedesca è sul viale del tramonto; non scherziamo: sei milioni di automobili sfornati ogni anno (solo Cina, Stati Uniti e Giappone ne producono di più) hanno tenuto in piedi l’intera Germania industriale. Dunque, sarà l’intera Germania industriale a sostenere, proteggere, rilanciare das Auto.
Le conseguenze dell’imbroglio non sono ancora emerse del tutto. Sono cadute le prime teste, a cominciare da quella del gran capo Martin Winterkorn che aveva brigato parecchio per raggiungere il vertice del potere, duellando con Ferdinand Piëch, il potente erede della dinastia Porsche-Piëch che controllava il gruppo ai tempi del Führer e si è ripreso il ruolo di primo azionista. Non a caso il nuovo amministratore delegato Mathias Müller viene dalla Porsche. Ma le indagini si stanno diffondendo a macchia d’olio in tutti i paesi e sono finiti nelle mire dei magistrati il responsabile delle attività italiane Massimo Nordio, ma anche un beniamino dell’industria automobilistica europea come Luca De Meo, responsabile vendite dell’Audi e presidente di Volkswagen Italia, l’uomo che aveva rilanciato la Fiat 500 e poi aveva litigato con Sergio Marchionne.
Non solo. Non è chiaro ancora su quanti veicoli diesel sia stato montato il software grazie al quale venivano manipolati i test sulle emissioni. Finora risultano coinvolti il Maggiolone, la Jetta, la Golf prodotti tra il 2009 e il 2015, l’ultima versione della Passat e la Audi A3. Insomma, gran parte dei modelli più venduti negli ultimi sei anni. Negli Stati Uniti sono stati ritirati 11 milioni di vetture, in Europa saranno 8,5 milioni. Il valore del gruppo è crollato in Borsa del 40 per cento. Müller ha già annunciato un taglio agli investimenti per un miliardo di euro. Ma i risarcimenti per le cause intentate in America (dove ci vanno a nozze) e in Europa sono vere bombe a orologeria. Negli Stati Uniti il gruppo ha messo da parte 6 miliardi e mezzo di dollari, a molti però la stima sembra ottimistica.
La ricaduta sarà consistente anche sul piano tecnologico: il motore diesel andrà cambiato, verranno montati nuovi sistemi per assorbire le particelle solide e l’ossido di azoto, il che renderà più costose le vetture e forse ridurrà anche le loro performance. Godono i costruttori americani che al diesel non hanno mai creduto e i giapponesi della Toyota che puntano sui sistemi ibridi. La stessa Volkswagen sta cominciando a riflettere se lanciarsi con massicci investimenti verso la nuova frontiera: un’auto elettrica che abbia un costo medio, una lunga durata della batteria (ben oltre i 200 chilometri) e possa essere ricaricata facilmente.
Ci vorranno molti anni e tanti, tanti quattrini. Al capezzale della grande malata non si affollano solo i medici, ma anche gli avvoltoi. L’industria automobilistica per far fronte ai vincoli ambientali e alle nuove dimensioni tecnologiche divora capitali. Non solo, in tutti questi anni, per reagire alla grande recessione ha finanziato le vendite indebitandosi in modo pesante. La Volkswagen, che ha condotto una politica molto aggressiva, deve restituire 67 miliardi di euro nel prossimo anno e ha bisogno di altri 25 miliardi per finanziare le rate. Condivide il destino di gran debitore con le altre case automobilistiche, ma lo scandalo delle emissioni è diventato un potente e pericoloso detonatore.
Sono tutte condizioni che precedono una nuova fase di acquisizioni e fusioni, un’altra epoca di concentrazioni industriali, annunciata già da Sergio Marchionne, il quale sta cercando di maritare alle migliori condizioni Fiat Chrysler. Il manager dal maglioncino nero punta alla General Motors, ma non trascura certo Volkswagen. Se prima era un miraggio, oggi la casa tedesca non è più così lontana.
[**Video_box_2**]Chi conosce come funziona la Germania non ha dubbi: l’intero Modell Deutschland si metterà in moto per difendersi e proteggersi. Basta ricordare che cosa è accaduto nel 2009 quando la Fiat voleva acquistare la Opel, la più piccola e la meno efficiente delle case tedesche, finita alla General Motors esattamente 80 anni prima, quando invece era la numero uno, e messa sul mercato dal colosso americano in bancarotta. Marchionne l’ha chiamata “una soap opera brasiliana”, in realtà è stato un vero psicodramma teutonico, con tanto di cavalcata delle Valchirie. Sono scesi in campo i sindacati, dicendo che semmai c’era da licenziare e chiudere qualche fabbrica, a pagare dovevano essere quelle italiane. Poi il ministro degli Esteri, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, il governatore dell’Assia, il commissario europeo all’Industria, il tedesco Günther Verheugen, finché l’affare arriva sul tavolo della cancelliera Merkel che annuncia la vendita a Magna, compagnia austro-canadese che produce componenti auto guidata dal tedesco Herbet Demel, già alla guida di Fiat auto fino al 2005 e fatto fuori da Marchionne. Alla fine, General Motors, risanata grazie al contributo di zio Sam, si tiene la Opel.
La Germania ha trasformato l’industria automobilistica in un valore nazionale, ne ha fatto un simbolo di potenza e benessere, l’ha caricata di significati metaeconomici, anzi di più, metafisici. Basta guardare certe pubblicità che puntano su uno slogan da pulizia etnica. “E’ una tedesca”, dice Claudia Schiffer testimonial della Opel e subito diventa il Dasein, l’esserci heideggeriano.
La Volkswagen, l’auto del popolo, presentata a Hitler nel 1939, alla vigilia della guerra. A sinistra, in borghese, Ferdinand Porsche
Prima della guerra la Mercedes era la macchina del Reich. Il nome esoticamente spagnolo lo si deve al console generale austriaco a Nizza, Emil Jellinek, il quale al volgere del Novecento chiese a Gottfried Daimler di costruirgli una vettura veloce, elegante e ben piantata a terra, non come le carrozzelle che girava di quei tempi, chiamandola come la sua figlioletta di undici anni. Un esordio gentile per una industria che nel corso della sua storia avrà ben altre sembianze. La Daimler, maritata con l’azienda di Karl Benz nel 1926, si caratterizzerà come la nemica numero uno della Repubblica di Weimar e finanzierà le camicie brune: una volta diventato capo supremo, Adolf Hitler la ricompenserà ampiamente, del resto amava farsi vedere in giro su una possente Mercedes a differenza da Speer che preferiva le sportive Bmw.
La compagnia sembrava destinata a scomparire con il nazismo, invece è diventata la principale beneficiaria del piano Marshall. L’azienda di Stoccarda diventa l’immagine stessa del patto sociale sul quale si fonda la nuova Germania: l’azionista Deutsche Bank nomina il presidente; i sindacati cogestiscono l’impresa insieme ai manager, ai rappresentanti della società e delle autorità locali.
Ben più tempo ha impiegato per rimettersi in carreggiata la Bayerische Motoren Werken nata come industria di motori aeronautici. Dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale le era stato imposto di riconvertirsi e aveva cominciato a produrre motociclette. Poi erano spuntate le auto, infine, di nuovo i motori aerei. Le fabbriche vengono ridotte dalle bombe alleate un ammasso di rovine e debbono scomparire secondo il vecchio Henry Ford. Ma i russi che occupano Eisenach hanno bisogno sia di motociclette sia di auto e, seppure in modo ridotto e approssimativo, la Bmw ricomincia a lavorare.
La ripresa dura poco. Nel 1959 è sull’orlo della bancarotta e la Deutsche Bank (sempre lei) la tiene in vita solo in attesa di trovare un compratore. Si fa avanti Herbert Quandt, azionista della società, erede di una dinastia industriale organica al regime nazista, che produce le batterie Varta. Convince le banche e il governo della Baviera, cambia target di mercato: giovani, ricchi, i figli del miracolo economico. E sforna una nuova vettura ispirata alla Chevrolet Corvair. Il designer Wilhelm Hofmeister e il suo aiutante Giovanni Michelotti impongono uno stile aerodinamico, alta velocità e sicurezza. Per la prima volta la Mercedes si sente minacciata.
La Volkswagen, invece, si è salvata grazie a un oscuro maggiore britannico, Ivan Hirst, incaricato di occuparsi degli impianti di Wolfsburg (la città fabbrica che il Führer aveva chiamato Kraft durch Freude, potenza attraverso la gioia). E’ lui a costruire il prototipo dell’auto che Hitler aveva affidato al dr. Ferdinand Porsche e la chiama Volkswagen. Orgoglioso della sua creatura, la mostra a Lord Rootes, il magnate dell’auto britannica che la trova “repellente per il compratore medio, troppo brutta e rumorosa”. Della British Motors resta solo il ricordo (nonostante abbia prodotto uno dei più grandi successi mondiali come la Mini Morris). La Volkswagen è tra le prime al mondo.
E il dr. Porsche? Ex direttore tecnico della Mercedes-Benz, poi membro attivo del Partito nazista, creatore della “macchina del popolo” (anche se in realtà ha preso il progetto dalla cecoslovacca Tatra) nel 1940 viene incaricato dal governo collaborazionista di Vichy di gestire la Peugeot (la famiglia di origini ugonotte si rifiutava di collaborare) e lascia al genero Anton Piëch la gestione di Wolfsburg. Alla Liberazione, entrambi sono imprigionati, poi rilasciati nel 1947 e rimpatriati. La condizione è che Porsche non produca auto di massa e su territorio tedesco. La potente vettura sportiva, così, nasce in Austria (poi la sede viene trasferita a Stoccarda). Nel 1956 James Dean, giovane star della generazione perduta muore al volante della sua 550 spider e sembra l’inizio della fine. Il successo torna nel 1963 quando esce il nuovo modello, la 911 disegnata da Fernando Alexander Porsche, nipote del dr. Ferdinand.
La Volkswagen conquista il primato europeo negli anni Novanta dopo averlo condiviso nel decennio precedente con la Fiat. La casa italiana comincia il proprio declino dal 1992, proprio quando crolla anche la cosiddetta Prima Repubblica nella quale gli Agnelli avevano primeggiato come principi del capitalismo nazionale. La casa tedesca invece trae il massimo vantaggio dalla unificazione, si espande in Spagna con la Seat, a spese della Fiat, conquista la Skoda soffiandola alla Renault, si afferma come leader in tutto l’est post comunista. Ma non solo. Gli uomini di Wolfsburg capiscono il mercato cinese meglio dei torinesi, ai quali gli emissari di Deng Xiaoping si erano rivolti in prima istanza, e si impiantano stabilmente nell’Impero di Mezzo contribuendo al suo decollo economico.
A questo punto matura la rivincita della famiglia Porsche-Piëch. La Volkswagen del Dopoguerra era diventata un’azienda in parte pubblica con il pacchetto azionario principale in mano al Land della Bassa Sassonia il cui presidente di turno è membro stabile nel consiglio di amministrazione, con potere di influenza se non di veto. Quando Ferdinand Piëch prende il potere al vertice, progetta di assumere anche il controllo del gruppo, usando la Porsche come veicolo della scalata.
Ferdinand Karl, figlio di Anton e Louise Porsche, nato a Vienna nel 1937, svezzato in Porsche fino al 1971, grazie al successo della 907 viene chiamato alla Audi per rilanciare il marchio (la vecchia Auto Union) destinato alla gamma alta del mercato. Una carriera folgorante che gli vale il comando della casa madre, quando Carl Hahn nel 1993 lascia una Volkswagen in piena rimonta, ma piena di buchi. Piëch la rilancia ed esagera. Vuole togliere spazio a Mercedes e Bmw, così acquista Lamborghini e Bugatti, poi punta addirittura a Rolls Royce e Bentley. Una nuova battaglia d’Inghilterra che si risolve con un mezzo insuccesso: prende Bentley, però gli viene negato il nome Rolls Royce che finisce a Bmw. L’auto tedesca è al top e nello stesso anno Daimler sbarca in America acquisendo Chrysler. Il matrimonio finirà presto in rovina, gettando un’ombra sulla cultura manageriale germanica.
Piëch passa la mano, ma solo in apparenza. Dal consiglio di sorveglianza e come maggiore azionista, manovra la potente IG-Metal (il sindacato dei metalmeccanici) e sfida il governo della Bassa Sassonia. Nel 2006 lancia l’attacco e, cambiata la legge, potrà acquisire la maggioranza del capitale. Non tutto fila liscio. Il Land punta i piedi, i sindacati reclamano la loro mercede. Poi c’è di mezzo Wendelin Wiedeking, l’uomo che ha ristrutturato e rilanciato la Porsche e “vuole trasformare una macchina da guerra in una macchina da soldi”. Ferdinand Piëch è un uomo laborioso e timorato, ma con un grande ego e una debolezza per le donne. Non a caso ha 12 (alcuni sostengono 13) figli nati da quattro unioni diverse, alle quali va aggiunta una serie di avventure sentimentali, come quella con Marlene, l’ex moglie del cugino Gerd Porsche che non contribuisce a migliorare i rapporti tra i due rami della famiglia.
La battaglia per il controllo della Volkswagen si trascina per quattro anni. Wolfgang prima acquisisce la maggioranza, spendendo 23 miliardi di euro e indebitandosi fino ai capelli, ma non gli basta ancora, vuole arrivare al 75 per cento per avere il potere assoluto. La recessione del 2008-2009 lo riporta a più miti consigli, finché Piëch con un clamoroso rovesciamento di fronte propone la fusione tra le due imprese, diluendo il debito e di fatto salvando la Porsche. Nel frattempo Ferdinand ha fatto fuori Wiedeking, il suo successore Bernd Pischetsrieder e vuole sbarazzarsi anche di Winterkorn che, grazie ai sindacati e al governo del Land viene considerato il successore naturale. Il putsch non gli riesce, toccherà al dieselgate il compito dell’angelo vendicatore. I capi azienda sono le vittime naturali, però la famiglia Piëch-Porsche dovrà aprire il portafoglio. Farà appello al potere relazionale del quale gode ai vertici di un capitalismo basato sul prestigio delle grandi famiglie e sulla sostanziale coesione dell’élite. Tuttavia molti dubitano che ce la possa fare con le proprie forze. Per tornare sopra tutto e tutti, la Volkswagen dovrà affidarsi ancor più al puntello politico e sindacale. A Tokio e a Wall Street si fregano le mani.
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