Zeus, ascoltami
Ugento (Lecce), esterno notte, vigilia di Natale del 1961. Luigi e Vito stanno scavando nel terreno di una casa privata, la casa di Domenico detto Cosimo. Lo scavo serve per assemblare un terrapieno sul quale costruire una piccola veranda per la nuova villetta di suo figlio Luigi. Lavori domestici come se ne facevano, come se ne fanno ancora nei piccoli centri abitati. A un certo punto la vanga incontra una resistenza, un blocco di pietra dura, una roccia? No, non è una roccia, sembra lavorata dall’uomo… gratta bene, Vito, gratta lì… sterra, sterra… aiutami a sollevare, tieni qui… e pure voi… alzate… alzate… E’ un capitello dorico, antico, fatto di marmo, già di suo una bella scoperta. Ma sotto, sotto quel capitello si apre come una fossa nauseabonda, più profonda che larga, graveolente. Doveva esserci una fossa biologica, una latrina qui intorno… chissà da quanti anni, decenni. Ma ecco spuntare qualcosa d’altro: “Un pupo!”, urla Cosimo, che ricorderà così l’evento prodigioso: “Si stava costruendo una villetta per mio figlio, quando a un certo punto abbiamo trovato una base e una volta spezzata, e caduta in un piccolo vano, incatenata alla parte di sotto della pietra vi era questo pupo”.
Pupo, così l’hanno chiamata la prima volta, appena dissotterrata, la statua arcaica di Zeus saettante ritrovata nella messapica Ugento, 74 centimetri di bronzo, un unicum in ambito magnogreco. E così gliel’ha presentata Cosimo Corsano detto (da quella notte) “Petteguleddo”, sempre alla vigilia di Natale del 1961, a Donna Sofia Codacci Pisanelli vedova Nicolazzi, erudita gentildonna e presidente della locale Pro Loco. “Un ‘pupo’ – ricostruì lei e la sua ricapitolazione è tratta dal bel libro di Francesco D’Andria e Antonietta Dell’Aglio, “Klaohi Zis, il culto di Zeus a Ugento”, edizioni Moscara associati –: Se avessi accettato, me l’avrebbero portato per due minuti, per farmelo vedere. Però avrei dovuto mettere un sacco, perché era molto sudicio ed aveva un odore tremendo”. La statua arriva, è monca, piede sinistro e mano sinistra verranno ritrovati di lì a pochi giorni. “Invece che in terra l’adagiò sul letto degli ospiti, dopo aver messo sotto una plastica… La statua avrebbe dormito a casa mia, e la sistemammo per bene sul letto. Le misi sopra un mantellino rosso da guerriero romano che mio figlio usava per carnevale; poi andammo a dormire. Ma la notte pensavo a quella statua; ogni tanto mi alzavo e l’andavo a guardare, come era bella, con quella mantellina rossa poi… Aveva una corona in testa… Perché? Certo si trattava di un dio o di un capo. Con uno straccetto tolsi un po’ di fango e notai sulla mano le vene, le unghie; un’anatomia perfetta. Sulla corona degli strani fiori. La mattina presto andai sul posto”. Lo scavo proseguì e in capo a due giorni uscirono dalla terra i frammenti mancanti. “Lagrime di commozione rigarono il mio volto – raccontò Donna Sofia – e a stento riuscii a dire: ‘Bravi, siete stati bravi, lascia qui. Vai… Ora mi vesto subito… Aspettami: che mettiamo in piedi la statua… Faremo un’operazione di plastica…’. In un battibaleno mi vestii e andammo nella camera degli ospiti, a riportare al proprietario la mano e il piede smarriti. Con un nastrino adesivo attaccammo provvisoriamente i pezzi, e, chiamato il maresciallo, che venne con il professor Zecca, preparammo il piano per l’avviso alla Soprintendenza. A Domenico Corsano sarebbe andato il premio” (stabilito in 200 milioni di vecchie lire il valore del manufatto, il ministero della Pubblica istruzione assegnò a Cosimo Corsano 50 milioni e altri 12 milioni e mezzo furono destinati a ciascuno dei quattro scopritori). Il soprintendente Nevio Degrassi rispose alla sollecitazione ma tardò a manifestarsi, e Donna Sofia divenne la custode di Zeus, l’improvvisata sacerdotessa di una statua sacra di eccezionale valore anche soltanto artistico, oltreché storico-archeologico. “Io ero diventata come una leonessa ruggente contro coloro che osavano sfidare il figlio suo. Passarono i mesi, e notai sul mantellino rosso nel quale avevamo avvolto la bella statua tracce di ruggine. Il soprintendente non veniva e così decidemmo di disinfettarlo prima, e di fare un bel bagno con doccia a Sua Eccellenza la Statua. Il fango cominciò a sciogliersi e cominciammo a vedere che un occhio era pieno di terra… I cordoni dei capelli… La corona, le unghie dei piedi… Avevamo messo nell’acqua calda una statua piena di fango, ne usciva fuori un capolavoro sacro dell’Arte italiana. Con la doccia a mano accarezzavo delicatamente e quasi con timore quella meraviglia. L’asciugammo con l’asciugamano più bello che possedevo… Sembrava vivo… Quello strano sorriso poi, che da un lato faceva sembrare serio quel magnifico volto, mentre guardandolo di fronte sembrava dovesse dischiudere le labbra compiaciuto e soddisfatto per le nostre cure”. Il sorriso degli dèi, gratitudine per un trattamento da sovrano qual è Zeus, cioè Giove, Rex deorum hominumque.
Circa un anno dopo, il 9 novembre del 1962, il soprintendente Degrassi si sarebbe finalmente fatto vivo, la statua venne spedita a Roma, fu presa in consegna dall’Istituto centrale per il restauro fino al 18 marzo del 1963. Il 4 aprile dello stesso anno, sotto gli occhi del presidente della Repubblica Antonio Segni, lo Zeus di Ugento fu mostrato al pubblico. Ma non a Ugento, nel Museo nazionale archeologico di Taranto. E lì è ancora, incomprensibilmente nascosta agli occhi del mondo, ostinatamente sottratta alla sua sede naturale: il Museo civico di Ugento. Motivazione ufficiale della soprintendenza: non si è ancora riusciti a realizzare un allestimento museale per i reperti di età arcaica. E così Zeus se ne sta rinchiuso in magazzino, lui che già trova innaturale un tetto comune sopra il suo capo celeste.
Lo Zeus di Ugento è il signore dei Messapi, popolazione italica d’origine illirica, o forse cretese (secondo Erodoto). La sua statua, del VI secolo avanti l’èra volgare, è davvero speciale e ricorda in modo impressionante quella ellenica di Zeus-Poseidon ritrovata nel 1926 sui fondali marini di Capo Artemisio, nell’Eubea. Il primo dei numi è raffigurato nudo, barbato, riccioluto, mentre incede avanzando con la gamba sinistra, nella mano destra impugnava la caratteristica triplice folgore, con l’altra sorreggeva gli artigli di un’aquila, il suo animale totemico. Gli studiosi lo dicono Zeus Keraunios, Giove folgoratore, l’attributo tonitruante di colui che fulmina gli empi occupanti del suolo patrio e scoraggia i nemici desiderosi d’invaderlo. La costa meridionale del Salento, lungo entrambi i versanti, è disseminata di luoghi cultuali a lui dedicati. Uno dei più importanti è a Leuca, nella Grotta Porcinara, dove il dio è venerato con il suo nome messapico: Zis Batas, dominatore degli eventi atmosferici e protettore dei naviganti indigeni.
Zeus di Ugento svettava sopra una colonna nel santuario urbano di Ausentum, il cui nome i Romani collegano alla radice “Auso” che significa “lucente” (Ausil è il Sole degli Etruschi, nume gentilizio della gens Auselia, poi divenuta Aurelia per via del rotacismo). Prevale oggi la dizione Ozan, “Terra di Zeus”, che figura anche nello stemma cittadino al di sotto di un Ercole dorico-italico: “Di azzurro, all’Ercole di carnagione, in maestà, capelluto e barbuto di castano al naturale, con la spoglia del leone nemeo, d’oro, scendente dalla spalla sinistra e coprente i fianchi e parte della gamba sinistra, l’Ercole sostenuto dalla campagna diminuita di verde, e afferrante con la mano destra la clava di nero, posta in palo, poggiata sulla campagna; il tutto accompagnato da due cornucopie d’oro, ricolme di fiori e frutti, al naturale, poste in palo nei cantoni del capo. Sotto lo scudo, su lista bifida e svolazzante di azzurro, la scritta, in lettere maiuscole di nero, OZAN. Ornamenti esteriori da Città”. E’ il figlio di Giove, Ercole, nume dei pastori e bonificatore di acque malsane (Ugento è nota per la presenza di vaste aree paludose). Con queste parole l’eroe messapico e i suoi concittadini si rivolgono al Padre celeste: “Klaohi Zis”: ascolta, Zeus; il corrispettivo magnogreco del romano Audi Iupiter. E Zeus ascoltò, in una lontana vigilia della festa solare di fine dicembre, nel 1961, manifestandosi da sotterra dopo una lunghissima incubatio, forse depositato lì in antico, come un tesoro di luce, un monito, una promessa di riscatto. Ma oggi chi ne invocherà il ritorno a Ugento, dai negligenti scantinati del museo di Taranto?
[**Video_box_2**]Sono stato a Ugento, poche settimane fa e ho visitato il suo piccolo eccellente museo civico, nel convento di S. Maria della Pietà dei Frati Minori Osservanti, istituito nel 2011 con una concessione di servizi stipulata tra il comune e lo Studio di consulenza archeologica, “al fine di promuovere la gestione integrata dei beni culturali locali”. Accanto a una riproduzione in bronzo della statua di Zeus (opera dell’artista turco Murat Cura), ho conosciuto Paolo Schiavano, archeologo: lavora lì, e lavora bene. I dati relativi al 2015 rilevano un picco di affluenza massima nei mesi estivi (una media di 80 visitatori al giorno) che cala nei mesi invernali (40 visitatori al giorno) per poi impennarsi nei mesi primaverili quando il pubblico è essenzialmente scolastico. Se paragonato ad altre realtà analoghe, il Museo di Ugento (12 mila abitanti) è un piccolo Louvre. Nel 2004 ha ottenuto un finanziamento di 3.500.000 euro dall’Unione europea (accordo di programma quadro) finalizzato a “recupero, valorizzazione e fruizione del Convento dei Francescani, Santa Maria della Pietà, quale sede del museo archeologico e sistemazione delle aree di pertinenza” (i lavori sono stati ultimati nel luglio 2009). Nel 2013 è il turno della Camera di commercio di Lecce, che con 15.000 euro finanzia il “progetto di tecnologia digitale per la resa in 3D degli affreschi delle cappelle laterali al chiostro. Per il biennio 2014-2015 sono giunti 482.154,34 euro dal Servizio Beni culturali-Area Politiche per la promozione del Territorio, dei Saperi e dei Talenti della regione Puglia. Obiettivi, fra gli altri: riallestimento del percorso espositivo con la creazione di una sala ad hoc per la copia della statua di Zeus; riallestimento della Tomba dell’Atleta con una moderna struttura in acciaio corten in cui sono esposti tutti i reperti del corredo; creazione del coffeebar del Museo con ampio spazio all’aperto utilizzabile per eventi e spettacoli; miglioramento del sistema di illuminazione; istallazione rete wi-fi; istallazione del servizio di video-sorveglianza; incremento della pannellistica esplicativa e delle insegne direzionali cittadine; trasferimento dei reperti conservati nei depositi della Soprintendenza Archeologia della Puglia che vanno a incrementare il percorso espositivo. Con questi presupposti, mi domando se esista una sola buona ragione per la quale la statua di Zeus debba rimanere nascosta e lontana da qui. Nemmeno in prestito, Zeus, ha potuto tornare a Ugento. Tra le mani ho qui la copia di una lettera datata 31 luglio del 2012, protocollata con il numero 9351 e firmata da Luigi La Rocca, soprintendente per i Beni archeologici della Puglia-Taranto. Oggetto: una richiesta di prestito avanzata dal museo di Ugento per una mostra temporanea. Risposta negativa, “l’auspicato prestito non è purtroppo praticabile”. Motivo: “Dopo l’ultimo prestito del reperto (Mantova, anno 2008), sono state riscontrate problematiche operative (tenuta del perno inserito nella gamba dello Zeus, oscillazioni del reperto bronzeo sul capitello, difficoltà di movimentazione, ecc.) con ripercussioni sullo stato di conservazione, le quali hanno sconsigliato e sconsigliano ulteriori trasferte della statua”. La soprintendenza dice in poche parole che la statua di Zeus resterà lì dov’è, invisibile, non mostrabile, ma sopra tutto malconcia, a quanto pare. E’ così dal 2008, cioè da almeno quattro anni, senza che si faccia il minimo cenno a restauri in corso o a progetti di manutenzione avviati. Se la merita, il Museo nazionale di Taranto, la statua di Zeus folgoratore? Direi proprio di no, ma sono sempre pronto a ricevere smentite e manifestazioni di buoni propositi.
E dire che i Tarantini la lezione l’avevano imparata, a suo tempo. Scrivono D’Andria e Dell’Aglio: “Con l’attributo di Kataibates, letteralmente dio ‘che discende’, veniva ricordato lo Zeus fulminatore, a cui anche gli stessi Tarantini avrebbero offerto sacrifici su stele collocate dinanzi alle abitazioni di quanti erano stati colpiti dalla folgore del dio, per aver commesso empietà durante la presa della città messapica di Carbina”. Ecco, c’è poco da scherzare coi Messapi.
E come sempre c’è un’altra pista da seguire, per convincersi che non tutto è perduto. Dirimpetto alla costa adriatica del Salento c’è l’Epiro, lì sorgeva in antico (c’è ancora oggi) l’oracolo di Dodona: un centro polare dei Pelasgi, nostri progenitori e civilizzatori degli Elleni, nel quale Zeus irradiava sentenze per mezzo della sua quercia sacra, il cui stormire veniva interpretato da ierofanti (Sellii) e sacerdotesse (Peleiadi). Studiosi di archeobotanica autorizzano a riconoscere nella sottospecie della “vallonea” (Quercus macrolepis) la quercia dodonea. E’ la stessa quercia, presenza sovrana, sopravvissuta in Puglia nell’areale salentino di Tricase, in modo così puntiforme da far pensare alla sua ghianda come a un segnacolo d’antichissima esportazione dodonea. Ugento dista da Dodona 227 chilometri in linea d’aria (azimut 99°) e da Tricase 16 chilometri. Cosa si vuole dimostrare? Nulla, se non che possono rinchiudere al buio una statua di Zeus, ma non il canto della sua chioma regale.
(continua)
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