Gente di New York
Il volo alto di Jonathan
Sulla porta, un attimo prima di dirsi che è stato un piacere, l’occhio cade su una copia di “Purity”, l’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, con la fototessera sfocata di una ragazza che somiglia a Aubrey Plaza ma è solo “un’amica del fotografo”. Una copertina ridotta ai minimi termini, con un carattere aggraziato in blu, il nome dell’autore grande quanto quello del titolo, e tanto bianco. C’è chi l’ha trovato un po’ svogliato come sforzo stilistico. Il clima informale permette una battuta: “Certo che Franzen venderebbe anche se la copertina la disegnassi io…” Sul volto di Jonathan Galassi compare un velo di disappunto, ma subito vuole sapere: “Perché? Cosa non ti piace? Cosa ti trasmette? Cosa manca? Qual è il problema?”, chiede, e la cosa strana è che le risposte gli interessano. Quella copertina – ovvero la copertina del romanzo più importante del momento fra la mani di Farrar, Straus and Giroux, e se è per questo fra quelle di qualunque altro editore al mondo – è stata concepita, vagliata, discussa, rivista, ripensata e corretta, poi cancellata e infine riabilitata qui, nel suo ufficio. E’ stata sottoposta a feroci critiche di avvocati del diavolo delle copertine per vedere se teneva, c’è gente che ci ha perso il sonno o la fede, altri che hanno studiato indagini di mercato e consultato algoritmi di marketing librario fino allo sfinimento, e infine autore ed editore hanno emesso il loro verdetto positivo per la Aubrey Plaza fuori fuoco. “Volevo una cosa totalmente diversa da questa” e dallo scaffale estrae una copia di “Freedom”, il precedente romanzo di Franzen, e la accosta a “Purity” per rendere l’idea. Una ha i colori sfolgoranti di un tramonto irreale, l’altra è un inno al less is more. Da un altro scaffale ancora tira fuori la copertina dell’edizione britannica, che non ha la ragazza sfocata, non ha immagini, ha soltanto geometrie concentriche dorate che puntano sull’unica parola del titolo. “Quale ti piace di più?” chiede, sapendo la risposta. “A me quella americana sembra che trasmetta qualcosa del romanzo, mentre questa grida ‘ehi, è uscito il nuovo libro di Franzen!’, sono due impostazioni diverse”, dice, e si capisce quanto deve aver pensato e ripensato a quel libro, dagli aggettivi alla grammatura della sovracoperta, fino allo spazio bianco della copertina.
“Anche certi vuoti hanno un valore”, diceva Montale, il poeta che gli ha cambiato la vita. Questo per dire che Galassi ha una particolare propensione all’ascolto. Fa domande anche quando dovrebbe rispondere e vuole sentire le opinioni dell’interlocutore su qualunque tema: cosa ti piace di Leopardi? Com’è scrivere per un giornale conservatore oggi? Preferisci Milano o Roma? Perché Elena Ferrante funziona così bene in America? Cosa non ti è piaciuto del libro di Franzen, a parte la copertina? E dire che poco prima di entrare in questo dialogo serrato si era scusato per essere ancora un po’ rintronato dal jet leg dopo un viaggio in Australia e Nuova Zelanda, e se n’era tornato dopo qualche minuto con una mastodontica tazza di caffè. Lo dicono anche i suoi autori che la sua qualità migliore è sapere ascoltare, interessarsi per davvero, profondamente a ciò che si ritrova davanti, anche alle bozze malmesse di uno scritto con qualche oncia di qualità. Galassi è un’istituzione della cultura newyorchese. Si tratta di decidere se la sua fama la deve al lavoro editoriale, alla poesia, alla critica o alla traduzione, naturalmente dall’italiano, lingua che ha appena orecchiato nella sua famiglia di italoamericani assimilazionisti e che poi ha reimparato in Italia. Se chiedete a lui vi dirà che è innanzitutto un editore, ma giusto qualche mese fa ha aggiunto al suo personale scaffale anche la forma del romanzo, pubblicando “La musa”, edito in Italia da Guanda, esperimento di prosa al confine con il memoir.
“Volevo vedere se ero capace di fare quello che ho sempre visto fare dagli altri”, ride lui, che ha sempre detto di non avere avuto la “chutzpah”, la faccia tosta, per diventare romanziere appena uscito da Harvard. A sessantacinque anni si è messo a lavorare a un romanzo. Lo ha fatto ogni giorno, con la meticolosa precisione di una Flannery O’Connor, per tutta l’estate, e si è ritrovato alla fine fra le mani la storia di un editor, Paul Dukach, che insegue la poetessa più ricercata e oscura del mondo, Ida Perkins, la musa che tutti vorrebbero pubblicare e che non vince mai il Nobel. Quando un oscuro Dries Van Meergeren – perfetta sintesi fiamminga di tutti i nomi che vincono il Nobel e bisogna andarli a cercare su Google appena l’Accademia li dirama: venti minuti più tardi sono tutti grandi maestri – vince il premio dopo “aver leccato per anni culi svedesi”, Paul si consola con lo stesso argomento che si ripetono ogni anno gli adepti di Philip Roth: la brutta notizia significa che la musa potrà ancora vincerlo, un giorno. Ma non è che vanità e commercio, lo sa Paul e lo sa pure Galassi, che si nasconde male nella vicenda romanzata di un uomo di lettere stretto fra due padri nobili dell’editoria americana, trasposizioni piuttosto chiare di Roger Straus, il suo ex capo, morto nel 2004, e James Laughlin, mitico fondatore di New Directions Publishing.
E’ un libro sulla fattura dei libri, arte che ha sempre due lati, uno in versi e uno in prosa. Quello in versi è l’ineffabile piacere di mettere in pagina la poesia, “entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi tanto diversi come Croce storicista idealista e Gilson cattolico, sono d'accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia”, come ha detto Montale alla consegna del – colpo di tosse – Nobel. “La poesia, per me, e per chiunque sia serio, penso, riguarda l’alterità”, dice Ida Perkins, un prodotto di fantasia che Galassi definisce come una “diva”, una “peccatrice", una Katharine Hepburn o una Eleonora Duse più umbratile, che dickensianamente si ritira nella solita Venezia fragile e spettrale per concludere i suoi giorni infelici al riparo dal mondo. “E’ un Bob Dylan al femminile: ha lo stesso aspetto di divismo e venerazione globale, una sacralità declinata in forma di donna”, dice. Non c’è verso di fargli dire chi è Ida Perkins dal punto di vista commerciale, l’autore che insegue, che vorrebbe nella sua squadra ma non può avere. Il lato in prosa è la mercificazione, altra parola cara a Montale, dell’arte, faccenda magistralmente rappresentata nella mediocrità della conventicola di piazzisti della letteratura che ogni anno converge a Francoforte per la fiera del libro, con le paturnie, i calcoli meschini, le fazioni, i complessi d’inferiorità, le feste in cui si beve troppo.
Il ritratto che Galassi fa del mondo professionale che abita non è cortese, e lui ne ride con il disincanto di chi conosce le regole del gioco. Suggerisco un paragone con il mondo del giornalismo fustigato qualche anno fa da un ex cronista scottato dalla realtà mediocre del mestiere, Tom Rachman, nel libro “The Imperfectionists”, pubblicato in Italia da Il Saggiatore, e ha il sussulto del commerciante delle lettere sempre alla ricerca di nuovi bottini: “Quel libro lo abbiamo sottostimato al tempo, è stato un vero peccato…” e alla fine se l’è preso Random House, l’asso pigliatutto dell’editoria globale. Ad ogni modo, la musa di Galassi ci precipita anche nel mondo fatuo e à la page dell’editoria newyorchese che l’autore guarda con distacco e nel quale contemporaneamente sguazza felice. Che fosse il suo elemento si è capito fin da quando, ancora fresco di laurea ad Harvard con perfezionamento a Cambridge, si trovò a dirigere l’ufficio di New York della Houghton Mifflin Company. La cosa non sfuggì a Random House, che se lo accaparrò, tenendolo per cinque anni, salvo poi indicargli la porta quando l’allora proprietario, S. I. Newhouse, decretò che la casa editrice aveva bisogno di un catalogo “più vitale”, cioè più commerciale, non proprio la specialità di Galassi. Ironia suprema: il primo libro che ha portato alla sua nuova casa, Farrar, Straus and Giroux, è stato “Presumed Innocent” di Scott Turow, un blockbuster da seicentomila copie in copertina rigida rese ancora più redditizie dal fatto che l’autore ha rifiutato l’anticipo ben più lauto di un competitor per lavorare con gli editor di Farrar. Trionfo su tutta la linea.
Ne “La musa” c’è però anche una sottotrama che si può rinvenire e che ha a che fare con l’omosessualità di due personaggi, fenomeno che si rivela in forma esplicita soltanto in età matura, faccenda squisitamente autobiografica di cui Galassi parla senza imbarazzo. “E’ stato dopo la morte dei miei genitori che mi sono sentito in un certo senso autorizzato a esplorare sinceramente la mia identità sessuale”, e così dopo trentasei anni di matrimonio e due figlie ha abbracciato una rivoluzione che si agitava da tempo nelle stanze interiori. “Mi ci sono voluti anni di analisi per accettare questa cosa, ma ora vivo una vita più felice”, racconta, spiegando che la sua rivelazione nell’ambiente letterario è stata accolta più o meno con uno sbadiglio: “Non ha avuto alcun impatto: ho gli stessi amici di prima e vivo esattamente la stessa vita”. Storce un po’ il naso di fronte all’apparato grandioso della gay culture, con parate orgogliose e vita sottoculturale, roba di un’altra epoca: “Certo ci sono stati decenni di emarginazione, segnati dallo stigma dell’Aids, ma adesso guarda là fuori – indica la finestra a volta che s’affaccia sulla diciottesima strada – che bisogno c’è di starsene segregati? La vera liberazione è fare una vita normale”. Aveva già distribuito riferimenti, più espliciti, nella raccolta di poesie “Left-Handed”, uscita nel 2012. Qualche mese prima lo aveva scritto esplicitamente ai suoi vecchi compagni di college in uno di quei libri che si fanno per gli anniversari: “Mi trovo nella posizione di scrivere una di quelle note dalle quali ricordo di essere stato disorientato e stupefatto in passato. Oltre la soglia dei cinquant’anni, dopo quasi trent’anni di matrimonio, mi sono innamorato un’altra volta, questa volta di un altro uomo”.
Galassi è stato un tempo Galasso. Quello che a colpo abbastanza sicuro appare come un cognome romagnolo o marchigiano è in realtà un molisano reso più nordico dalla distrazione di un impiegato che ha trascritto male, una delle vittime di Ellis Island è l’onomastica, che ha restituito generazioni di cognomi americanizzati, con le geminate scempiate a capocchia (nel passaggio Giovanni da Verrazzano ci ha rimesso una “z”, diventando Verrazano) e le vocali finali tutte storpiate o troncate, e così la famiglia Galassi, che l’orecchio crede suppergiù del cesenate o del forlivese, arriva in realtà dalle parti di Isernia. Agli emigrati russi è andata peggio, dal punto di vista onomastico, e certo non era il problema principale durante le ondate migratorie in terza classe verso l’America, ma sempre di mutamento si tratta, come tale va registrato. Come tanti italiani sbarcati a New York senza un soldo e subito inquadrati in una cornice di pregiudizio antilatino e anticattolico, anche i Galassi si sono dati da fare per assimilarsi in fretta, operazione riuscita con successo. “Mio bisnonno è diventato un uomo d’affari ed è riuscito a mandare tutti i figli ad Harvard”, racconta. Il padre era avvocato, lavorava per il dipartimento di giustizia a Seattle quando Jonathan è nato, e la via forense era quella cui il brillante studente era destinato, con un’aspettativa che in famiglia non mancavano di sottolineare. Lui avvocato proprio non era, lo aveva già capito l’insegnante del liceo, e non lo era nemmeno il fratello minore, Peter, che per una vita è stato curatore della sezione fotografica del Moma. E’ cresciuto nel Massachusetts, in un contesto che porta diretto alla prep school e poi ai college dell’élite. Solo più tardi si è trasferito a New York, più precisamente a Brooklyn e più precisamente ancora a Carrol Garden, “la zona più sicura di Brooklyn” ride lui, alludendo alla nota presenza mafiosa che manteneva ordine in una zona altrimenti turbolenta. Ora ci sono padri con la barba che spingono passeggini a scatto fisso, ma cercando bene si trovano anche signore vestite di nero che d’estate stanno sedute fuori dall’uscio a guardare chi passa.
Il New York Times ha scritto una volta che la sua era una famiglia più di Wasp che di italiani, o almeno di italiani waspizzati: “Un po’ si parlava italiano, ma io l’ho imparato dopo, quando ho incontrato la poesia di Montale, e mi sono messo a tradurlo. A quel punto è nato in me il desiderio di riscoprire le mie radici, sono anche andato in giro per gli archivi di paesini del Molise a cercare notizie sui miei antenati”. Ci sono voluti tredici anni per tradurre l’intera opera di Montale, sforzo sublime di cui parla con sognante soddisfazione, e l’autore stesso è un ponte gettato fra Italia e America. Galassi tollera perfino le domande stupide del tipo “qual è la tua raccolta preferita?”, prendendosi la briga di pensarci e rispondere: “La bufera”. La passione per Leopardi è venuta dopo, “come conseguenza quasi naturale del lavoro fatto su Montale”, spiega. “Era necessario a quel punto occuparsi della poesia del XIX secolo per capire da dove veniva Montale, e Leopardi mi ha aperto un mondo, anche filosofico. Studiarlo e tradurlo è stata un’esperienza incredibile”, mi dice accompagnandomi alla porta e apprestandosi a dire che è stato un piacere, giusto un attimo prima che l’occhio cada su una copia di “Purity”, l’ultimo romanzo di ecc.
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