Nostalgia romana
Il film che racconta quando la capitale era “swinging”. Tutt’altra cosa rispetto alle giornate che l’hanno appena sconvolta (caso Marino) tra lo lo schiaffo del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione: Roma non ha gli anticorpi contro il degrado, Milano è la capitale morale e la surrealtà che diventa cronaca quotidiana dell’assurdo.
Prima lo schiaffo del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione: Roma non ha gli anticorpi contro il degrado, Milano è la capitale morale (Raffaele Cantone dixit). Poi la surrealtà che diventa cronaca quotidiana dell’assurdo, con il sindaco dimissionario Ignazio Marino che dice e non dice, fa e non fa, compare e scompare, compila liste di oggetti e mangia pasta con le sarde a casa del vicesindaco, all’Ostiense, in compagnia del commissario e presidente pd Matteo Orfini – e la cena della pace, che pace non sarà, si trasforma subito in cena delle beffe, con il “marziano” primo cittadino che le dimissioni invece di confermarle le ritira, e intanto va alla prima di “007-Spectre”, il film dove Roma è un po’ “Grande bellezza” e un po’ “Suburra” (sempre notte, a Roma ormai nei film è sempre notte) ma alla fine anche un po’ Parigi, con la Nomentana che pare boulevard e il quartiere Monti che pare Montmartre. “Quanto sei bella Roma”, diceva la canzone, ma oggi nessuno lo dice più, e anzi è tutto un “Romafaschifo” sul web e un Roma-che-schifo detto a baristi e tassisti: e la monnezza e le mazzette e le mafie capitali e la ditta-autobus nel marasma e la metro C e la metro B e i camion bar e i gabbiani e i topi e i serpenti – ché c’è stato pure un allarme vipere, a un certo punto. E quasi non ci si crede, giunti al giorno ultimo della tragicommedia capitale, con Marino indagato (per peculato) e decaduto per simultanee dimissioni di 26 consiglieri, che Roma cinquant’anni fa è stata così “swinging” da attirare artisti stranieri a frotte e pensatori italiani in quantità, e cantanti e attori e galleristi e pittori, uno sciame sempre sveglio che aveva il suo epicentro al bar Rosati, nella piazza del Popolo oggi teatro di meno divertenti notti di manifestazione in cui gridare “onestà-onestà” sventolando bandiere a Cinque stelle.
“Swinging Roma”, si intitola il documentario passato qualche giorno fa alla Festa del Cinema (regia di Andrea Bettinetti e produzione Good Day Films con Sky Arte HD e Istituto Luce Cinecittà): e il fato crudele, con crudele tempismo avverso, ha fatto sì che il film venisse proiettato al Maxxi proprio mentre il sindaco Marino decideva, con gran sorpresa del Pd tutto, di fare la mossa del cavallo: non mi dimetto più, e vi pedonalizzo del tutto i Fori, tiè. E faceva uno strano effetto, ascoltare il resoconto dell’ultima cena Marino-Orfini (con vino di Eataly, però) e intanto guardare sullo schermo le immagini della Roma deserta delle mattine da dolce vita – Roma era l’unico posto dove era possibile non fare niente riempiendo comunque il vuoto dell’esistenza, dice in “Swinging Roma” Achille Mauri, fratello del pittore Fabio Mauri, e per crederci bastano i racconti di Marina Ripa di Meana, allora giovane ex duchessa Lante della Rovere nonché fidanzata del pittore bello e maledetto Franco Angeli. Pur separata, Marina veniva comunque invitata alle formalissime cene placée nelle dimore nobiliari viste anche ne “La Grande bellezza”, presentato in versione lunga con director’s cut sorrentiniano alla Festa di Roma. E anche in quel caso il fato crudele ha voluto che la proiezione si tenesse nella sera della grande incertezza: ma che davvero Marino non se ne va?, era la domanda che nessun red carpet poteva far dimenticare. Cene placée, dunque, quelle di Marina agli albori degli anni Sessanta, ma il bello cominciava dopo, alle undici di sera, quando si poteva uscire in hot pants dai bei palazzi e correre appunto in piazza del Popolo, dal pittore che aveva come amici solo pittori e scrittori, e litigare al punto da vergognarsi, il giorno dopo, a ripassare per via Margutta, e fuggire in montagna a casa dell’artista Giosetta Fioroni e dello scrittore Goffredo Parise, per poi sparire per un giorno e una notte con un maestro di sci, riapparendo armata soltanto di uno “scusate, ho fatto un po’ tardi”.
Ma l’impressione, oggi che la nostalgia pervade i superstiti di quell’età dell’oro e il senso di straniamento si impadronisce di tutti quelli a cui Raffaele Cantone è diventato antipatico per il solito paragone Roma-Milano fatto nel momento in cui sembrava più difficile dargli torto, è che la Roma ruggente non possa essere riportata a galla nell’autopercezione cittadina. Neanche proiettando a ripetizione documentari alla “Swinging Roma” nelle piazze e neppure facendo leggere nelle scuole “Addio a Roma” di Sandra Petrignani, il libro che qualche anno fa ha raccontato la capitale povera e bella del Dopoguerra, poi ruggente negli anni del Boom, tra notti al Piper e primi turismi di massa (“i torpedoni!”, scriveva sulla Stampa Carlo Levi, e il pensiero del romano odierno corre al prossimo – ennesimo? – Giubileo e ai pullman che già scaricano comitive russe e giapponesi sul Lungotevere).
A passare davanti a Rosati, oggi, non si vedono certo Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, Mario Schifano, Tano Festa, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Dacia Maraini, Carlo Emilio Gadda, Federico Fellini o Ennio Flaiano. Ma neanche compare un Sorrentino né un Matteo Garrone né un Nanni Moretti né uno scrittore emergente o non emergente, a quei tavoli scaldati da fiamme finte che si alzano al cielo dentro gabbie di ferro. Ci sono ancora gli americani, sì, anche se non del genere Cy Twombly o Robert Rauschenberg, e anche se al vertice del polo museale romano d’arte moderna c’è Giovanna Melandri (al Maxxi) invece di Palma Bucarelli (allora, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna).
Eravamo così, ma chi se lo ricorda?, pensava, a margine del film, il cittadino immerso nei giorni show-off del quasi-dimesso sindaco e dei quasi-dimessi consiglieri. Cronache marziane parevano non solo e non tanto quelle dal quartier generale del poco terrestre Ignazio Marino, ma anche quelle che, in “Swinging Roma”, parlavano di una quotidianità allegra e sfrontata, cose incredibili a udirsi in tempi mesti (questi), in cui pure nella polvere residua di dolce vita (vedi la première del suddetto “007-Spectre”) si nasconde il particolare che ti riporta a terra: “C’è Marino, c’è Marino!”, diceva infatti il tam-tam internettiano, e nessun Daniel Craig e nessuna Monica Bellucci potevano cancellare dalla mente la domanda-ossessiva: “Perché c’è andato, Marino, alla prima di ‘007’?”. E le ipotesi più incredibili si sollevavano dall’indistinto del web: per lanciare segnali a Orfini?, per dire “me ne infischio?”, per dare l’addio definitivo allo scranno? Non c’era nulla da fare: dovunque ci si girasse, il mugugno ripartiva al coro di “Romafaschifo”, blog per indignati della rete, come si è detto, ma anche pensiero unico dell’autorappresentazione cittadina. Quella che cinquant’anni fa era magniloquente, e non soltanto perché il pittore-rockstar Mario Schifano aveva strappato al Mick Jagger traditore l’amata Marianne Faithfull (era seguita storia di tormento ed estasi). Né soltanto perché alla Gnam erano sbarcati, sotto la direzione Bucarelli, i quadri di Jackson Pollock o di Kandinskij. La magniloquenza stava anche nelle piccole cose apparentemente futili raccontate da Irene Brin, geniale giornalista di costume e gallerista all’“Obelisco”; e stava nel poter ridere tra scrittori delle manie di Carlo Emilio Gadda, oggetto di scherzi feroci e affettuose derisioni: Sandra Petrignani scrive che Parise restava ogni volta basìto davanti ai “piedoni di Gadda calzati in scarpe gigantesche, strane, legnose” e davanti al suo terrore della velocità che gli faceva compiere azioni inconsulte: una volta, in macchina, aveva tirato a casaccio il freno a mano mentre Parise era alla guida.
[**Video_box_2**]“Roma ruggente? Magari”, pensava intanto, a margine del film, il romano contemporaneo che la mattina, dopo aver gridato “mortacci tua” su Twitter o dal vivo, solitamente all’indirizzo di altri automobilisti, buche assassine o mezzi pubblici ritardatari, si ritrovava a sfogliare le pagine di un qualsiasi quotidiano locale con drammatico bollettino della “conta”: “Quanti consiglieri comunali extra-Pd, nottetempo, è possibile trovare in modo da poter mandare a casa il sindaco non più dimissionario?”. Variante: “Quanti consiglieri comunali prometteranno di sfiduciare il sindaco non più dimissionario e poi non lo faranno?”. E nel delirio dell’attesa, nell’ansia sottile dell’epilogo, si sperava di poter fare davvero come negli anni Sessanta “swinging”, quando negli atelier dei giovani artisti usciti dall’Accademia si parlava e litigava allo sfinimento, ma non necessariamente per giungere a un punto fermo (anzi). C’era, nell’atmosfera da decennio creativo, chi passava giorni e giorni chiuso nella stanza davanti alla tela bianca (Cy Twombly), perché un quadro doveva prima essere tutto “deciso” nella testa. E chi, come Schifano, ciclicamente cadeva preda di attacchi di produttività artistica pazza e furibonda. C’era la noia dell’essere professore d’arte, ma la si poteva tenere a bada scarabocchiando libri presi in prestito alla libreria “Ferro di Cavallo” di Agnese De Donato (lo faceva Gastone Novelli, che poi passava lo stesso volume ad Achille Perilli e ad Alberto Burri, i quali, a loro volta, scarabocchiavano per noia a bordo pagina. Alla fine il libro era diventato una specie di tesoro per la libraia, che infatti poi l’aveva venduto per comprare al figlio una casa a New York). Sempre al “Ferro di cavallo”, in via Ripetta 67, gruppi di amiche intellò leggevano gli scritti del “Gruppo 63” per dare premi al lavoro più innovativo, solo che a volte i lavori erano di pesantezza estrema, motivo per cui ci si rammaricava di non potersi rilassare con un libro di Giorgio Bassani.
Era il tempo della “mescolanza”, tempo in cui “si conversava”, dice nel documentario lo scrittore Raffaele La Capria: gli attori non stavano solo con gli attori, gli scrittori non stavano solo con gli scrittori. Soprattutto, c’era la piazza, surrogato dello studio d’artista e amplificatore di fantasia. “I pittori erano rapaci” verso il mondo esterno, dice il poeta Nanni Balestrini, che allora li frequentava, e però il mondo esterno all’inizio non voleva neppure chiamarli “talenti” (ogni volta che Palma Bucarelli ne promuoveva uno, qualche deputato o senatore del Pci scriveva lettere aperte molto scandalizzate all’Unità, e poteva anche capitare che una mostra alla Gnam fosse oggetto di interrogazione parlamentare). Aleggiava, su quel gruppo di giovani ancora scapestrati che passavano le serate tra arte, letteratura, cinema e amori folli (la passione politica arriverà negli anni Settanta e farà da spartiacque tra una generazione e l’altra), l’inquietudine preveggente di Pier Paolo Pasolini, lo snobismo intellettuale di Luchino Visconti, la curiosità anche “rompipalle” (come dicevano gli amici) di Alberto Moravia, uno che persino in India non riusciva a darsi pace cinque minuti. E se Franco Angeli poteva dire “borghese di merda” alla fidanzata ex Lante della Rovere senza per questo scalfire la storia d’amore più raccontata e invidiata del gruppo, Schifano poteva regalare alla stessa Marina ex Lante quadri poi diventati preziosissimi (“erano generosi con me, ma anche io con loro”, racconta lei oggi ridendo). Si leggevano gli scritti di un giovane Alberto Arbasino, ci si infastidiva per la neve a Roma (come Flaiano), si osservava la misteriosa e duratura liaison tra Elsa Morante e Alberto Moravia, proseguita molto oltre la fine dell’amore, e ci si allarmava per l’intermittente ma sempre funesta ira di Laura Betti (contro questo o quell’avventore del suo salotto).
Poi però era arrivato il ’68, con gli scontri di Valle Giulia e la perdita dell’innocenza per i ragazzi ancora in montgomery e non ancora in eskimo. “Coraggio, il meglio è passato”, ci si diceva citando l’aforisma scritto da Ennio Flaiano quando gli anni Cinquanta si erano inabissati per lasciare spazio al decennio del Boom, ed era stato come un presentimento. E “coraggio, il meglio è passato”, pare pure lo slogan occulto della campagna donchisciottesca orchestrata in piazza del Campidoglio dai sostenitori oltranzisti dell’infine sfiduciato ex sindaco Marino, quelli per cui comunque “Marino resta sindaco” senza se e senza ma. E lui, Marino (per distrarsi? per consolarsi?), intanto compila liste di oggetti (“scatole eleganti, piccolo mappamondo”), citando comunque, a scanso di equivoci e dopo Che Guevara, il Salvador Allende del “non sono un martire, ma un lottatore sociale”.