Tutti i bambini di Parigi
Dal venerdì degli attentati a Parigi, dalla sera in cui stavamo tutti e quattro sul divano a guardare un film di paura, e sono cominciati gli spari e le bombe a Parigi e abbiamo tolto il film di paura e guardato la paura vera, i bambini parlano sempre di Parigi e dei cattivi di Parigi, con una concentrazione dolorosa e stupita, con l’infanzia scoperchiata, come se la vita, non all’improvviso però completamente, in quel preciso istante, su quel divano, avesse rivelato il male. “Ma vogliono uccidere anche noi? Ma perché?”, chiede ogni giorno mia figlia, che in queste settimane era terrorizzata dalla radioattività e dalla possibilità che il phon per un cortocircuito le incendiasse i capelli, e adesso dice che della radioattività non le importa più, e chiede ancora: perché. “Perché sono cattivi, scema”, le ha risposto suo fratello piccolo ed è corso a indossare il costume di carnevale da Star Wars, ha detto che lui li ammazza tutti con le mani e la spada laser, faceva mosse di karate che non hanno fatto ridere nessuno, provocando l’esultanza di sua sorella che in effetti gli dice sempre: “Non fai ridere nessuno”. Noi incollati alla tivù, ai computer, ai messaggi con gli amici a Parigi, che Facebook ha contattato subito e a cui ha ordinato: clicca qui se stai bene, e così il giorno dopo su Facebook c’era una lunga lista di persone che stavano bene, loro e i loro figli, loro e il loro stupore atterrito e piantato nella realtà, loro e i bambini che vanno a scuola con il monopattino e la mattina dopo sono rimasti a casa, e qualche mamma piangeva e diceva: vieni via dalla finestra. “Ma hanno sparato anche nel parco con la corda?”, ha chiesto mio figlio già di nuovo pronto con il karate e le urla per difendere il suo parco preferito al mondo, i Jardins du Luxembourg, dove ci si siede su una ruota appesa a una corda e si fa un giro sospesi nel vuoto e poi ci si rimette in fila per ricominciare, e sembra che non esista niente di più bello che prendere velocità e starsene appesi lì, per il maggior numero di giri possibile, e poi salire in cima alla Tour Eiffel fatta tutta di corda, con sotto la sabbia.
In quel giardino loro sentono di possedere Parigi, in quel parco Parigi diventa una faccenda personale, un miscuglio perfetto di lei e di noi, di grande e di piccolo, di monumentale e di abbracciabile. E adesso quel miscuglio perfetto di qui e altrove è sotto attacco, anche per i bambini che pensano al male come a un mostro che alla fine perde sempre. I bambini francesi, che hanno sempre l’aria di sapere tutto, e di saper parlare di tutto, in effetti lo sapevano già. “E’ un attacco?”, ha chiesto un ragazzino di sei anni alla madre la sera dopo cena, quando hanno sentito gli spari, e loro hanno le finestre di fronte al Carillon, dove c’erano due ragazze nascoste sotto un tavolino, e l’uomo incappucciato ha puntato l’arma addosso a loro, ma poi è scappato via senza sparare più. E’ un attacco?, così come si chiede: è un temporale?, quando senti i tuoni che arrivano da lontano. “Gardez votre sang-froid”, ho letto nel cortile di un palazzo sulla Rive Gauche, e anche i bambini francesi seguono l’indicazione, in caso di incendio, in caso di esplosioni, in caso di attacco. Mantengono il sangue freddo. E’ un attacco, non può essere nient’altro, perché è già successo, perché a scuola hanno spiegato l’Isis, o come dicono loro Daesh, perché hanno sentito i genitori a cena parlare di kamikaze, di posti pericolosi, di quell’amica che vuole andarsene da rue de Rosiers, dove fanno i falafel più buoni del mondo, perché ha troppa paura. Non avere paura, possiamo ancora dirlo serenamente ai nostri figli? Non c’è niente di cui avere paura, vieni qua, ci sono io. E’ molto difficile adesso, e bisogna almeno nascondere l’audio degli spari al Bataclan, con le urla stupefatte di chi stava festeggiando il venerdì sera e vedeva cadere a terra gli amici e gli sconosciuti come uccelli colpiti in volo. Noi adulti ci dondoliamo fra la paura e il dovere di non averne, di rassicurare, e oscilliamo fra la rassicurazione a cui i bambini hanno diritto e il dovere di non dire troppe bugie. Non è come con il lupo cattivo. Mamma stanotte viene il lupo cattivo? No amore, te lo assicuro. Mamma, le streghe? Non esistono le streghe. Mamma, gli assassini? Ho chiuso la porta con tre giri di chiave e non può entrare nessuno. Mamma, ma i cattivi di Parigi arriveranno anche qui? Lanceranno una bomba anche qui? Dentro questa domanda, ripetuta mille volte in molte case, in tutte le scuole, c’è già l’infanzia divisa in due, spezzata nel prima e dopo Parigi: prima e dopo la fiducia totale nelle risposte dei grandi. Loro non vivono su Marte, e l’hanno sentito alla televisione: colpiremo anche Roma, Londra, Washington, questo è solo l’inizio. Possiamo mentire, certo, possiamo dire stavano scherzando, sai come fanno in televisione, dicono un sacco di stupidaggini, adesso dormi (un bambino di nove anni con gli occhiali ha detto a mia figlia che no, la prossima volta i cattivi andranno in Germania perché là sono ricchi, noi siamo troppo poveri, e comunque a Roma abbiamo molti agenti segreti con gli occhiali scuri). Ma ci sono già i compagni in cima alle scale, il lunedì mattina dopo gli attentati, che saltellano, spalancano gli occhi, agitano le mani macchiate di penna biro e dicono: hai visto che è successo a Parigi? Lo sai che stanno arrivando qua, i miei genitori non vogliono più che prendiamo la metropolitana e che andiamo al cinema, dicono che è pericoloso, vero maestra che possiamo guardare tutti i film in classe coi pop corn?
Ognuno aggiunge un pezzo, una notizia strappata dalle labbra di un fratello grande, qualcosa visto in tivù, l’assedio della polizia alla casa di Saint-Denis, in classe si sono divisi in gruppetti per dirsi tutto quello che sanno di Parigi, con un’eccitazione preoccupata, da quinta elementare ma con uno scatto in avanti verso l’età adulta, e un ragazzino con le guance rosse ha chiesto: ma erano cattivi anche da bambini quelli che hanno sparato? Una compagna gli ha risposto che no, si diventa cattivi appena si diventa grandi, e si diventa cattivi se c’è qualcuno che ti ripete sempre: devi essere cattivo. Tipo tuo padre? Sì, tipo tuo padre, o tua sorella, o qualcuno a scuola che ti mette in punizione se non sei abbastanza cattivo. Durante il minuto di silenzio una bambina si è incastrata con la gonna nella sedia e ha fatto un gran fracasso, non riusciva a liberarsi, si è messa a piangere, e la maestra alzava gli occhi al cielo perché molti ridevano, e un bambino biondo alla fine ha urlato: non voglio morire, non ho ancora finito l’album dei calciatori. La maestra ha detto che questi cattivi vogliono che tutti noi viviamo come loro e crediamo nel loro dio, e hanno colpito i ristoranti, il teatro, lo stadio perché odiano la nostra libertà e i nostri divertimenti, li considerano perversi (“Mamma, anche tu odi le partite di calcio, però non uccidi il babbo, sbatti solo i piatti, oppure ti chiudi in camera”, “Infatti, lo vedi quanto sono buona? Poi un giorno ti racconto Voltaire”, “Lo so che dice Voltaire, ho visto ‘South Park’, ma non so se Voltaire sbatteva i piatti”).
[**Video_box_2**]I bambini lo sanno, che il Bataclan “era pieno di genitori, c’era anche una mamma che ti assomigliava e quindi mamma la sera tu non devi uscire mai più”, e non c’è più possibilità di aggirare la paura perché la paura da adesso fa parte anche dei loro giorni, e in un modo vivido e acceso e pieno di cose che girano in testa (“Ma non hanno dei figli? Ma non si vergognano?”). Eravamo qui, indecisi se rivelare la triste verità o aspettare un altro anno, Babbo Natale siamo noi, Babbo Natale è lo zio o il nonno con una barba finta e un cuscino sulla pancia, mi dispiace ma ormai sei grande, e adesso bisogna dire che invece quelli con le cinture esplosive, con i kalashnikov, con le bombe, ma soprattutto con l’odio verso tutto quello che noi siamo, quelli esistono davvero. “E sono un po’ dappertutto”, ha detto una sera a tavola una madre piena di fiducia nella verità nuda, e suo figlio è scoppiato a piangere, lei si è sentita stupida, il marito ha dormito nelle notti successive nel letto con il ragazzino di sette anni, dicendogli: “Sta’ tranquillo, sono più forte io di quelli, non li faccio entrare”, ogni volta che si sveglia di notte pieno di paura per quel “dappertutto”. Dicono che dobbiamo ripeterlo sempre ai nostri figli: noi siamo più forti (e crederci anche noi, almeno un po’). Babbo, ma loro se muoiono sono contenti, quindi vuol dire che nella loro vita non c’è niente di bello, che non si perdono niente. I miei compagni musulmani invece si divertono come noi, e non gli dà fastidio anche se siamo un po’ diversi: a Amira ho prestato quel libro, “Capitan mutanda”, lo legge all’intervallo perché dice che a casa sua madre non le lascerebbe tenere un libro con un uomo in mutande, però è un libro molto divertente. “Te la immagini Amira che prende il fucile e ci spara a tutti?”, hanno riso in classe, e Amira ha riso con loro, e ha fatto finta di sparare con le mani, tatatatatata: poteva essere un momento spaventoso, o almeno imbarazzante, e in un talk show si sarebbe gridato che era un’offesa inaccettabile, ma i bambini stanno su un altro piano, più limpido, non hanno bisogno di rassettare le parole, di nasconderle, di non dire islam, loro sanno benissimo da che parte andare, e sono tutti, compresa Amira, tifosi di Anonymous, la comunità di hacker anonimi che ha dichiarato guerra informatica allo Stato islamico. “Sta’ tranquilla, mio padre è di Anonymous”, ha sussurrato un bambino all’orecchio della ragazzina bionda che ha paura di andare in bagno da sola e abita a Roma vicino al Vaticano: lei ha già preparato la borsa di Snoopy per scappare, ci ha messo dentro anche le figurine degli animali e due peluche fondamentali per dormire, e ha detto che però adesso è tranquilla: papà tu mi prendi sulle spalle e corri, mamma tu prendi la gattina in braccio e corri, è meglio se ti togli i tacchi stavolta. Correre, scappare, nascondersi, anche questa è una reazione alla paura, come pensava il bambino di quattro o cinque anni a Parigi per strada, che intervistato dal Petit Journal ha detto: “Adesso dobbiamo cambiare casa”. E il padre tranquillo, tenendolo stretto: “No, è la Francia la nostra casa”, “Ma loro hanno le pistole, papà, e sono molto molto cattivi, non sono per niente gentili”. Il padre allora ha risposto: “Ma noi abbiamo i fiori e le candele”, e allo sconcerto del bambino, che gli diceva: “Ma i fiori non fanno niente”, ha spiegato che invece i fiori ci proteggono. Il bambino ha sorriso e ha detto all’intervistatore adulto: “Sì, mi sento meglio”. Forse era lui che tranquillizzava noi, decidendo di credere alla favola dei fiori. I fiori profumano soltanto, e le candele ricordano chi è stato ucciso in nome di una convinzione assoluta che se ne infischia della morte. Che si nutre della nostra paura. La paura dei nostri figli, anche. “Mamma io non ho più paura, andiamo al cinema adesso, compriamo i pop corn, facciamo le cose nostre”. Le cose nostre? “Le cose nostre, quelle che a noi piacciono e a loro no. A me non importa se non sono come piace a loro, io sono come piace a me, e neanche loro mi piacciono comunque”. Va bene, andiamo al cinema a vedere “Pan”, la storia di Peter Pan all’inizio, quando stava nell’orfanotrofio e poi ha scoperto che sapeva volare, e compriamo i pop corn più grandi che esistono, e la coca cola con il ghiaccio. “Sì, però tieni per mano mio fratello, che è più piccolo e di sicuro se quelli sparano non sa volare”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano