Superfluo d'antan
Lo sbrilluccichio: lampadine accese, decorazioni natalizie, qualsiasi cosa emani un piccolo splendore. Non posso resistere allo sbrilluccichio, dice Renzo Arbore in “E se la vita fosse una jam session?”, l’autobiografia appena uscita per Rizzoli: se vede qualcosa di sbrilluccicante mentre guida, Arbore non può fare a meno di girarsi, di fare inversione a “U”, di assediare la bancarella che la espone, come se quella luce riportasse ad altro, a un passato che non torna. Ma si sospetta non sia un vizio isolato, l’irrefrenabile attrazione per lo sbrilluccichio perduto, nei tempi in cui l’edonismo e l’ottimismo sono stati prima minacciati e poi sconfitti dalla morale anticasta, e il clima economicamente mesto ha dato corpo ai fantasmi distopici del ripiegamento (vedi “decrescita felice”), mentre il terrore su scala internazionale minava i simboli del divertimento e delle ore libere dai pensieri. Non sono mai sembrati lontani come oggi, gli anni Ottanta dello “sbrilluccichio” descritto da Arbore nel suo libro, quando Pippo Baudo lo accompagnava da padre Pio soltanto “per curiosità”, e padre Pio si risentiva al punto da metterli alla porta; quando Raffaella Carrà e Maurizio Costanzo erano all’apice del successo, e si potevano fare viaggi pazzi per comprare carne in scatola di alligatore a New Orleans, orecchie di porco a Brooklyn e frigoriferi da valigia a Chicago.
Non è mai sembrato così lontano il mondo di plastica, merletti e fosforescenze (look di Madonna tra il 1983 e il 1985) che si affacciava dal teleschermo a tarda sera, quando dai varietà spuntavano i futuri reduci e i futuri frammenti del carrozzone a colori inabissatosi pezzo per pezzo, a livello sociale, politico e televisivo, nel riflusso anti-edonista del post Tangentopoli: ragazze Coccodè, scenografie argentate e dorate con palme sullo sfondo, pappagalli in prima fila, quiz con fagioli e telefoni non cellulari, danze in tuta traslucida da tuca-tuca, orchestrine jazz-swing che sbarcano a Sanremo (“Il clarinetto” di Arbore), presentatori-non presentatori che fanno “regie in diretta”, e maghi e finti sponsor e salotti tv nascenti (come il “Maurizio Costanzo Show”) in cui la scena artistica e politica si autorappresentava in chiave decontractée. Era il mondo tv prima di tutto: prima che il trucco e i costumi dei ballerini perdessero l’allure para-tropicale del parterre di “Quelli della notte”, prima che i talk di intrattenimento diventassero apocalittico-crepuscolari, con facce preoccupate al posto dei volti improbabili da sketch tra un divanetto e l’altro. Ed era un tempo sospeso tra le tensioni del Novecento e quelle del Duemila, quello a “sbrilluccichii” descritto da Arbore nel suo libro: prima dell’ondata moralizzatrice dilagata dai tribunali, prima dell’austerity che diventa forma mentis, prima delle minacce terroristiche all’occidente come modo di intendere la vita.
Arbore, che negli anni Ottanta arrivava in quel mondo dalla radio, racconta lo stupore continuo dell’ex ragazzo venuto da Foggia nell’universo della Roma pop, in cui, al ristorante Augustea, ritrovo storico della capitale politica e mondana, poteva capitare, mentre si stava a cena con Franco Rosi e Lina Wertmüller, di veder comparire all’improvviso Lory Del Santo, vestita in modo da far inorridire le femministe in gonnellona. E, proprio per quel suo essere “tutto il contrario” del prototipo muliebre prediletto in ambiente intellò, Arbore poteva proporre all’amico Luciano De Crescenzo, con cui lavorava a “Tagli, ritagli e frattaglie”, di scritturare seduta stante la pin-up, e De Crescenzo si alzava dal tavolo, inseguiva la Del Santo alla toilette e “tornava con il suo numero di telefono”.
[**Video_box_2**]L’amicizia con De Crescenzo, racconta Arbore in “E se la vita fosse una jam session”, era per così dire “nata sulle corna”. I due cioè si erano conosciuti quando Arbore stava a Sorrento e De Crescenzo stava a Napoli, ma “per interposta persona”: la ragazza fidanzata con Arbore, almeno così pensava Arbore, partiva da Sorrento per andare a Napoli “dall’ingegner De Crescenzo”, che secondo Arbore era soltanto un suo grande amico, e poi ripartiva da Napoli – dove secondo De Crescenzo era fidanzata con De Crescenzo medesimo – per tornare a Sorrento dove, tra gli altri, “c’era pure Renzo Arbore”, così diceva la ragazza, come fosse un caro conoscente. Una volta a Roma i due avevano scoperto il comune passato da “cornuti”, racconta Arbore, e l’amicizia era scaturita di conseguenze e tra le risate (“con lei tu eri sempre nominato”, “anche tu”). Ma erano pure anni, quelli, in cui ad Arbore poteva arrivare la telefonata di un’agenzia turistica sovietica che gli proponeva l’imbarco a bordo di una nave per la cosiddetta “Crociera d’autore”, con invito estendibile ad alcuni amici. E tanto l’aveva esteso, Arbore, l’ìnvito, che aveva portato a bordo tra le cinquante e le sessanta parsone (tra cui Marisa Laurito, Gegè Telesforo e Andy Luotto), più un’intera squadra di partecipanti al concorso per “Miss Teenager”. Partiti da Genova, e imbarcati sulla nave messa a disposizione dall’Urss, Arbore e gli amici, al cospetto di Sergio Leone e Sylva Koscina, complici la vodka gratis a tutte le ore e l’atmosfera da gita scolastica spesata dalla grande potenza in piena Guerra fredda, ne avevano combinate di tutti i colori in giro per il Mediterrano, attribuendosi per scherzo dei “ruoli fissi”: ogni amico doveva dire sempre le stesse cose, in modo che i passeggeri in cerca d’autografo, disorientati, pensassero che, alla fin fine, quelle celebrities fossero “dei rimbambiti surreali”. A Luotto toccò lo scomodo ruolo della spia americana in cerca di proseliti tra i marinai russi. Girava tutto il giorno cercando di convincerli a “scegliere la libertà” e fuggire con lui negli Stati Uniti, aggirandosi con fare circospetto nella stiva, e facendo preoccupare oltremodo il comandante, che a quel punto telefonava in cerca di lumi all’organizzatore della crociera – e vagli a spiegare che era tutto uno scherzo. Al culmine del delirio goliardico, la compagnia di “rimbambiti surreali” era a un certo punto sbarcata a Casablanca, in pieno delirio alcolico ma pure in pieno Ramadan, cosa impensabile oggi, e aveva sfiorato più volte l’incidente diplomatico. Fu a bordo di quella scombiccherata crociera, comunque, che nacquero alcuni numeri di “Quelli della notte”, dice Arbore: la sera, per intrattenere il pubblico, il gruppo improvvisava balletti e lezioni alle aspiranti reginette di bellezza. Poteva sembrare, lì per lì, la prova generale di un programma trash, invece “Quelli della notte” sarebbe diventato un programma di culto per gli intellettuali: Umberto Eco dirà che Arbore aveva “rivalutato agli occhi” di chi viveva al nord “un mondo misconosciuto” e pieno di “genio e creatività”, e il linguista Tullio De Mauro scriverà un pezzo sul Messaggero sul “recupero di certi vocaboli che appartenevano al linguaggio comune nelle famiglie napoletane, pugliesi e siciliane”.
Dopo l’ultima puntata, comunque, era piovuta la fama nazionale (“a Torino scoprimmo di essere famosi come i Beatles”, scherza Arbore, ricordando di aver pensato: “Mah, non si capisce ’sta cosa”). E’ a quel punto che arrivò la telefonata da casa Agnelli, con invito a Villar Perosa. Arbore si era trovato a conversare direttamente con l’Avvocato, sentendosi totalmente inadeguato (argomento: l’America). De Crescenzo invece era stato preso del panico quando il tassista aveva fatto capire di poterlo aspettare per riportarlo a Torino a fine visita, come faceva di solito. E De Crescenzo, durante il pranzo, al pensiero del conto finale sul tassametro, era corso a dirgli che no, poteva anche andare, mentre Arbore pensava “E mo’? Che figura facciamo con ’sti Agnelli?”.
Nello stesso rutilante momento d’oro della trasmissione, e in pieni anni Ottanta, poteva succedere di ritrovarsi al Quirinale con Sandro Pertini presidente, al cospetto di Francesco Cossiga, Giulio Andreotti e Bettino Craxi (“la cosa che mi colpì fu che tutti si chiamavano soltanto con il nome: Francesco, Bettino, Giulio”, dice Arbore). Pertini, pensando evidentemente che Arbore fosse un po’ più âgé, continuava a chiedergli se si ricordasse di Eleonora Duse. Invano Cossiga aveva fatto notare al presidente che forse Arbore era troppo giovane (ma Arbore, imbarazzato come quando a scuola si cerca di indovinare la risposta giusta, aveva subito detto, sfidando l’improbabilità anagrafica, che sì, certo, come no, la Duse se la ricordava eccome). Intanto, in assenza di mantra da crisi economica, e anzi nel quadro generale di fiducia nel benessere non minacciato razionalmente o irrazionalmente da congiunture economico-politiche, Arbore veniva preso da “irrefrenabile pulsione all’acquisto” per oggetti di modernariato (inutili), e per oggetti non di modernariato (di utilità dubbia): “Come ho fatto a vivere finora senza la forchetta che si allunga per raggiungere il piatto del vicino o quella a manovella per avvolgere gli spaghetti senza girare il polso”?, si diceva Arbore al culmine della passione per il “disutile”, intento ad accumulare i tesori poi confluiti della cosiddetta Caverna di Ali Babà, la stanza-magazzino piena di cimeli (tra cui la leggendaria collezione di occhiali da diva del cinema comprati a Hollywood, con montature a farfalla, a frutto, a fiore). Sorte ha voluto che il regno del superfluo diventasse regno della caccia al ladro dopo un furto subito da Arbore (presente Arbore) a casa sua, con i malviventi che si aggiravano tra vecchi giocattoli e strane confezioni di cibo armati di coltellacci da cucina, e con i poliziotti esterrefatti durante i sopralluoghi. A un certo punto, infatti, schiacciando inavvertitamente un pulsante, un agente aveva fatto scattare un interruttore collegato al pianoforte e alle casse acustiche, dando il via al cosiddetto “innesco di suono”: una specie di colpo da palla di cannone, con rimbombo spaventoso (e i poliziotti si erano ritrovati a puntare i revolver verso l’alto, come di fronte a un pericolo imminente).
Quel desiderio di immergersi nell’ottimistica dimensione del superfluo, oggi spesso moralmente bandito o impossibile, e l’accumulazione di oggetti che ne derivava, riportava Arbore con la mente al suo primo giocattolo, il “balillino”, un ninnolo di epoca fascista a forma di piccolo balilla, regalatogli poco prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale nella città (Foggia) dove il futuro anchorman di “Quelli della notte” imparò poi a suonare, grazie ai genitori melomani, il pianoforte, il clarinetto e la tromba. E negli anni del conflitto, sotto l’allarme bomba, il piccolo Arbore era diventato l’attrazione del rifugio antiaereo situato nel palazzo di famiglia: cantava canzoni in dialetto del nord-est, imparate dalla tata friulana. Al suono della sirena accorrevano tutti a palazzo Arbore, “chi in pigiama, chi mezzo nudo, chi in accappatoio”. Per stemperare la tensione, un avvocato amico del padre di Arbore aveva inizialmente proposto di far esibire il ragazzino tra un’Ave Maria e l’altra. Ed era stato quello l’esordio sulle scene di “quello della notte”. Uno che ai suoi programmi applicava la regola dell’“abbiamo detto quello che dobbiamo dire, mi dispiace”: “Io ho da sempre considerato un programma come un film”, scrive Arbore, “come una storia, come un libro. Hai da dire delle cose, hai da inventare dei personaggi: lo fai e poi chiudi”. E alla fine si erano chiusi i programmi, e anche un’epoca.
Il Foglio sportivo - in corpore sano