L'islam degli incoronati
Dominick Rivetti non si dà per vinto: “Qui la legge è uguale per tutti a prescindere da chi sei, chi conosci e da dove vieni”. Rivetti è il capo della polizia di Beverly Hills, un vero americano. E si morde le mani. Un video postato su internet il 20 settembre scorso mostrava una Ferrari gialla sfrecciare per il quartiere più glamour di Los Angeles terrorizzando pedoni, passanti, automobilisti. Ma Rivetti, nonostante la sua fede nella legge, nell’ordine e nella costituzione di Filadelfia, sa che non prenderà mai quel pirata della strada. Chi era? Gli agenti non hanno impiegato molto a fare due più due: quell’auto è ben nota e appartiene a un famoso quanto singolare pilota da corsa, uno sceicco. Si chiama Khalid bin Hamad al Thani, figlio di Hamad bin Khalifa al Thani che ha regnato sul Qatar dal 1995 al 2013 prima di lasciare il trono a Tamin, uno dei 24 discendenti (11 maschi e 13 femmine) avuti dalle sue tre mogli. Lo sceicco Khalid è conosciuto in tutto il mondo come grande sponsor delle gare automobilistiche alle quali spesso partecipa egli stesso. Del resto, condivide l’amore per le auto di lusso con tutta la sua casata. L’attuale emiro, tra Ferrari, Lamborghini, Pagani-Zonda possiede un’intera autorimessa. Perché stupirsi, non sono fatti così i signori del Golfo Persico, fedeli ai loro stereotipi, dalla kefiah alle babbucce?
Re ed emiri, principi e sceriffi, non si limitano a scorrazzare lungo i viali del tramonto occidentale. Forse una volta facevano così e basta, quando ormeggiavano lo yacht a Montecarlo o regalavano un diamante grande come un uovo a Lory Del Santo, insomma ai tempi del ratto dal serraglio. Adesso le cose sono cambiate, eccome. Da quando hanno cominciato a usare il petrolio come arma, si sono comprati un pezzo d’occidente. L’evento chiave è la guerra del Kippur dell’ottobre 1973, chiamata nel mondo islamico guerra del Ramadan, quando Egitto e Siria attaccarono insieme Israele. Dopo la caduta del comunismo, sceicchi e affini hanno osato sempre più finché l’11 settembre 2001 ha segnato il punto di svolta. Altro che grande coalizione contro il terrorismo, con l’occidente è cominciata una sfida di lunga durata. Le monarchie del Golfo Persico sono le corazzate del mondo sunnita; a quello sciita pensa l’Iran.
Ma torniamo in quella piccola e inquieta penisola abbarbicata all’Arabia Saudita come un pesce pilota alla balena, nel Qatar dominato per almeno due millenni dai persiani, poi dal Bahrein, dagli ottomani e dai britannici. Nel 1971 diventa indipendente e rifiuta di entrare a far parte sia dell’Arabia sia dei sette Emirati arabi uniti, scelta alla quale non è estranea la volontà di riappropriarsi pienamente della principale risorsa, il petrolio, estratto e commercializzato dalle compagnie occidentali fino al 1974, l’anno della nazionalizzazione. A guidare la nuova vita dell’emirato è la tribù al Thani, prima sotto l’egida del leone britannico, poi sempre più padrona di se stessa con Khalifa, emiro dal 1972. Nel 1995, mentre si trovava a Ginevra, viene detronizzato dal figlio Hamad il quale nel 2013 lascia il trono all’erede Tamin di appena 33 anni, concepito dalla seconda moglie, Mozah, l’unica attivamente coinvolta nella politica del proprio paese.
Tamin bin Hamad bin Khalifa è una personalità forte che si è fatta largo nella selva di principi e pretendenti. Ha studiato in Inghilterra, anche lui, e ha frequentato la Royal Military Academy Sandhurst, la più prestigiosa del Regno Unito, dove entrano i rampolli della nobiltà, i signori della guerra o gli sceicchi. Musulmano wahabita, ha sposato tre donne e ha già otto figli. Finanziatore e sostenitore politico dei Fratelli musulmani, li ha aiutati durante le cosiddette primavere arabe, usando non solo i petrodollari, ma anche la propaganda attraverso la catena televisiva al Jazeera fondata da suo padre. Dietro l’effetto domino che dalla Tunisia ha fatto cadere le principali pedine del nord Africa e del medio oriente c’è questo filo che parte dal Golfo Persico. In Libia, in modo particolare, la Qatari connection ha giocato un ruolo fondamentale nel crollo di Gheddafi. Certo, Nicolas Sarkozy e David Cameron ci hanno messo il carico da undici, ma sono intervenuti quando i piedi d’argilla del tiranno si erano già sfarinati. E non si parla con sempre maggiore insistenza del Qatar tra i sostenitori del Califfo che sta scassando la Siria dopo essersi impadronito di un pezzo dell’Iraq?
L’obiettivo primo di Tamin è promuovere il suo emirato e ha cominciato con lo sport. Si è comprato il Paris Saint-Germain, Zlatan Ibrahimovic compreso. Ed è riuscito a ottenere i Mondiali nel 2022 dopo aver mancato le Olimpiadi del 2020. Fin qui siamo allo show, ma il vero business è ben altro e a questo pensa il Qia, Qatar Investment Authority, il fondo sovrano che dispone di almeno 250 miliardi di dollari americani. L’amministratore delegato è uno di famiglia, naturalmente: Abdullah bin Mohammed bin Saud al Thani. In questi anni ha comprato un po’ di tutto in tutto il mondo. La maggiore quota di investimenti è a Londra e a Parigi, ma come si sa si è gettato anche su Milano. L’elenco delle partecipazioni è più lungo del catalogo di don Giovanni, tuttavia qualche nome serve a capire dove va a parare. Nella capitale britannica possiede il grattacielo più alto d’Europa, lo Shard progettato da Renzo Piano, e i magazzini Harrods, una quota significativa della banca Barclays e il pacchetto principale del London Stock Exchange che controlla anche la Borsa di Milano. Sta dentro l’aeroporto di Heathrow, nella Royal Dutch Shell, nei supermercati Sainsbury’s e in una panoplia di proprietà immobiliari. Nel portafoglio parigino troviamo Lagardère, Vinci, Veolia, Vivendi, Lvmh, gli Hotel Carlton, Peninsula, Raffles, e 35 mila metri quadrati sugli Champs Elysées. Un colpo strategico lo ha messo a segno anche in Germania acquistando il 17 per cento della Volkswagen e il 10 per cento della Porsche, diventando così il terzo azionista dopo la famiglia Piëch-Porsche e il Land della Bassa Sassonia. L’Italia, affamata di capitali, gli ha aperto le braccia. Si è comprato il complesso immobiliare di Porta Nuova a Milano, il Grand Hotel St. Regis a Roma, il Four Seasons a Firenze, la Costa Smeralda, e poi Valentino, Pal Zileri, e non ha intenzione di fermarsi.
Il Qatar non è il solo, naturalmente. In Italia i capitali sono arrivati dal Kuwait (che ha preso anche una piccola quota di Poste italiane), dal meno ricco Oman e soprattutto da Abu Dhabi. Il principe ereditario, Mohammed bin Zayed al Nahyan, è di casa anche a Palazzo Chigi. Lo ha portato Enrico Letta, ma Matteo Renzi ha stretto con lui una relazione intensa anche perché lo considera un interlocutore prezioso, soprattutto nel tentativo di dipanare la matassa libica. L’emiro ha ripescato l’Alitalia con Etihad ed è diventato con il fondo Aabar il principale azionista di Unicredit, la più grande banca italiana, l’unica ammessa a far parte del club degli istituti di credito sistemici. Vuol dire che se crolla lei l’onda d’urto si ripercuote sull’intera economia mondiale. Per Unicredit come per Alitalia, l’emiro ha scelto Luca Montezemolo.
La famiglia al Nahyan ha la sua base in Abu Dhabi, mentre Dubai è guidata dagli al Maktoum. Entrambe derivano dal clan al Falasi sezione di Bani Yas, la federazione tribale che ha dominato gli emirati. Le due famiglie si dividono il potere: la presidenza allo sceicco Khalifa bin Zayed bin Sultan al Nahyan (fratello maggiore di Mohammed), mentre il primo ministro è Maktoum bin Rashid al Maktoum. Il braccio finanziario, l’Abu Dhabi Investment Authority che gestisce 600 miliardi di dollari, fa capo a Khalifa, uomo appartato e distante, con una passione per le Seychelles, ma non così distratto da non essere intervenuto anche lui in Libia. A differenza dai qatarini, gli emiratini preferiscono fare da sponda ai sauditi, dunque restano più filo occidentali almeno finché lo sarà anche la monarchia di Riad.
[**Video_box_2**]L’Arabia del resto è stata la prima a lanciarsi in questa strategia di penetrazione finanziaria in Europa e in America. Negli anni Settanta è diventata azionista di colossi tedeschi come Daimler e Hoechst. Il principe al Walid bin Talal, membro della famiglia reale saudita, è arrivato a possedere il 17 per cento di Citigroup (senza dimenticare il suo intervento in Mediaset, in Eurodisney e tante altre multinazionali, oltre ai maggiori hotel del mondo). Insomma, cosa c’è di nuovo e soprattutto cosa c’è di strano? Da quando il denaro puzza (o potremmo dire odora di cammello)? Tutti comprano tutto, basta avere i soldi. Lo fanno i cinesi, lo fanno persino i norvegesi, tanto per parlare di organismi finanziari posseduti da stati sovrani. I grandi fondi americani sono un’altra cosa, fanno capo non a sacri lombi, ma a gente comune, magari straricca come Warren Buffett, oppure in pensione come i dipendenti pubblici della California o le mitiche Vedove scozzesi (nome di un famoso fondo britannico). Esiste un retropensiero egemonico anche nel potere accumulato dai vari BlackRock o Carlyle, e in filigrana ci si può leggere un disegno politico, militare persino (la polemica è scoppiata ai tempi della invasione dell’Iraq). Però debbono rispondere agli azionisti. Il Qatar ha perso 12 miliardi in un giorno per il crollo del titolo Volkswagen, ma lo sceicco non ha fatto una piega, perché il Qia non mollerà certo l’alfa e l’omega del Modell Deutschland.
Allora è vero, si sente l’odore dei soldi. I liberisti sono in disaccordo. I capitali si muovono senza limiti e sempre più rapidamente. Se vengono in Italia bisogna forse respingerli? Del resto, per lo più hanno pacchetti di minoranza. Eppure oggi i fondi sovrani mettono becco, eccome, nella gestione delle società. Lo si vede alla Volkswagen. Ma più vicino a noi è il caso Unicredit, con il confronto al vertice, diventato aspro dopo le accuse (poi cadute) al vicepresidente Fabrizio Palenzona. A nome degli sceicchi, Montezemolo si trova a fare da ago della bilancia tra le fondazioni malmostose (come quella di Verona) e il management. Mentre la banca avvia una pesante ristrutturazione tagliando 18 mila posti di lavoro per evitare un aumento di capitale. Se non bastasse, da dove verrebbero i quattrini? Ancora dagli emiri?
E qui arriviamo alla qualità e alla quantità dei capitali. Ma per farlo occorre un passo indietro, fino alla crisi degli anni Settanta, ai petrodollari, al loro riciclaggio nelle banche occidentali sul quale si erano cimentati Guido Carli e lo sceicco saudita Ahmed Zaki Yamani, vero signore dell’oro nero. C’era la Guerra fredda, l’Arabia e gli Emirati stavano con gli Stati Uniti. Siria, Iraq, Egitto erano alleati dell’Unione sovietica. L’Iran faceva da snodo con Reza Pahlavi filo americano, finché non è arrivata la rivoluzione egemonizzata dagli ayatollah e dal loro capo supremo Ruhollah Khomeini esiliato a Parigi. E’ il 1979 e l’equilibrio nel Golfo Persico si rompe.
Investire nelle economie avanzate l’improvvisa ricchezza ricavata dall’impennata dei prezzi del greggio era un modo per saldare gli arabi all’occidente e viceversa, sotto la minaccia dell’Urss e del nuovo potere degli sciiti iraniani. La politica, in particolare la politica internazionale, ha sempre giocato un ruolo importante sulle grandi scelte di investimento finanziario e industriale. Dopo che i libici fecero esplodere un aereo sui cieli di Lockerbie in Scozia nel 1988, gli Stati Uniti spinsero gli Agnelli a liberarsi dell’azionista Gheddafi. L’embargo verso l’Iran ha condizionato le rotte del petrolio e la strategia delle compagnie straniere, a cominciare dall’Eni. La stretta contro Saddam Hussein ha messo in crisi la Banca nazionale del lavoro che aveva finanziato (e forse indirettamente armato) il regime iracheno.
Con il crollo dell’Urss e la fine della Guerra fredda, le paratie stagne sono cadute. Poi tutto si è capovolto l’11 settembre. L’attacco agli Stati Uniti non è partito dall’Iran, ma da due grandi filiere che portano dentro al Qaeda e di lì si diramano fino al Califfato: la prima parte dalla Fratellanza musulmana in Egitto e di lì arriva al dottor Ayman al Zawahiri, nato da una ricca e famosa famiglia egiziana che vanta magistrati, letterati e medici, ideologo e oggi numero uno dell’organizzazione; la seconda trae origine dalla componente wahabita, radicale e ortodossa, della dinastia saudita che aveva il suo campione in Osama bin Laden, figlio del costruttore edile che ha rifatto Medina e La Mecca. A questo punto, anche i pesci pilota cominciano ad agitarsi. Il Qatar si avvicina sempre più agli wahabiti, gli Emirati restano filo americani. Il Bahrein oscilla.
La guerra in Iraq e soprattutto il confuso e instabile dopoguerra accelerano il riposizionamento, finché la crisi del 2008 mette in ginocchio l’intero occidente. Così, mentre le banche occidentali traballano e si sbranano per sopravvivere, arrivano i capitali dall’islam. Il Corano proibisce l’usura, alla quale viene associato l’interesse che per gli occidentali è il prezzo della merce moneta. Non è proibito invece il profitto. In ogni caso, quando la finanza islamica penetra in Europa o in America, entra nel campo degli infedeli come Saladino in quello di Riccardo Cuor di Leone.
Che fare? Bloccare i capitali del mondo musulmano? Introdurre un protezionismo ideologico o magari religioso? Al contrario: la libertà degli scambi (di denaro e di merci) è sempre l’anticamera della libertà tout court, ma essa presuppone regole uguali per tutti e che tutti rispettano. La prima è la trasparenza, ed essa manca nei fondi che rispondono non al pubblico, ma a sovrani assoluti. Ciò è ancor più vero nel caso delle autocrazie musulmane. Persino i vertici del Partito comunista cinese devono rendere conto a un’ampia platea di soggetti i quali a vario titolo entrano nell’arena politica, sia pur con norme certo non liberali né democratiche. Gli sceicchi al massimo rispondono alle loro famiglie. Certo, tra mogli e figli sono numerose, ma non riempiono nemmeno la piazza del mercato.
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