Da Umberto Eco a Daniel Pennac
Narcisi e ciarlatani, questo il catalogo dopo Parigi
Nella definizione di Tommaso Campanella, ciarlatano è “chi nelle piazze attira con le chiacchiere la gente, spacciando rimedi vantati come miracolosi e universali”. Deriva da “cerretano”, per sovrapposizione con “ciarla”, dal nome del borgo umbro da cui si dice sia partita la genìa degli accattoni professionali, i truffatori, gli imbonitori, gli imbroglioni. Oggi che la medicina gode di una autorità indiscussa contro la “falsa scienza”, i ciarlatani abbondano fra gli intellettuali. Sono complottisti, giustificazionisti, fatalisti. Sono affascinati dal kalashnikov, “l’arma dei poveri”.
Per questi narcisi di successo, quello cui abbiamo assistito a Parigi e prima a New York, è una chimera, la strage non era strage. Non è stato un omicidio di massa a sfondo islamico, ma il suicidio della democrazia capitalistica. Una doxa in cui il terrorismo è figlio dell’ingiustizia, della rabbia dei senza lavoro, della disperazione di un lumpenproletariat offeso dall’arroganza della globalizzazione occidentale. Questi intellettuali hanno gettato i semi dello sconforto in un pezzo cospicuo dell’opinione pubblica occidentale. E’ l’avvento della grande morale chomskiana, un banalissimo calcolo aritmetico dove c’è soltanto una brutale conta dei morti senza vittime né carnefici, giusto o sbagliato.
In Italia, Umberto Eco ha dichiarato: “C’è da chiedersi se ai fanatici che oggi metterebbero una bomba nelle navate della cattedrale di Notre-Dame a Parigi sia stata data la possibilità di guardare veramente Notre-Dame, di capire cosa rappresentava, o se invece siano stati costretti semplicemente a passargli davanti e a vederla come simbolo di una società che li confinava a vivere nelle bidonville”. Bidonville? Eco dovrebbe andare a vedere dove vivevano i fratelli Kouachi, che hanno sterminato la redazione di Charlie Hebdo: un bell’appartamento che l’Unione europea aveva messo loro a disposizione, con tanto di bandiera blu fuori dal palazzo.
Fra i ciarlatani, gli scrittori hanno sempre un posto privilegiato. Come il britannico John le Carré, che vede nelle frustrazioni e nelle umiliazioni passate e presenti le fonti del terrorismo: “Il fatto di essere state a lungo sfruttate crea nelle comunità un desiderio di rivalsa, per quanto psicotico e sbagliato. Per comprendere cosa produce questa psicosi che porta a voler ‘uccidere, uccidere, uccidere’, basta osservarle da vicino”. O come Dominique Lapierre, lo scrittore del romanzo bestseller “La città della gioia”, per il quale “senza un miliardo di poveri che non hanno accesso all’acqua non ci sarebbero stati nemmeno gli attentati alle Twin Towers, senza i campi profughi in Palestina non ci sarebbero nemmeno i kamikaze in Israele”. Vagli a spiegare di Osama bin Laden e della sua infanzia dorata. Dei 15 su 19 kamikaze dell’11 settembre che provenivano da abbienti famiglie mediorientali. Di Mohammed Atta figlio di uno degli avvocati più rinomati del Cairo; di Ziad Jarrah, che schiantò il volo 93 in Pennsylvania, e che apparteneva a una delle famiglie più conosciute e benestanti del Libano, o di Nawaf al Hazmi, che schiantò contro il Pentagono l’aereo American Airlines 77, che era un ragazzo ricco cresciuto alla Mecca. Eppure, tutti impegnati a ripetere la stessa fregnaccia. “E’ il capitalismo a spingere i giovani al terrorismo”, ha scandito lo scrittore francese Daniel Pennac. Per Luis Sepúlveda, quello del romanzo-fenomeno “La gabbianella e il gatto”, “è il capitalismo la causa del terrorismo”.
Per Gianni Vattimo, forse inconsapevole di cosa fa l’Isis agli omosessuali a Raqqa e Mosul, “il mondo occidentale ha deluso le aspettative dei musulmani che lo hanno scelto, e i terroristi hanno come retroterra queste masse deluse dalla promessa di libertà che l’occidente rappresentava ma che poi non ha mantenuto”. Sul Monde, il filosofo francofortese Jürgen Habermas ha appena sostenuto che “il jihadismo è una forma assolutamente moderna di reazione alle condizioni di vita caratterizzate dallo sradicamento”. Qualcuno dovrebbe spiegargli che tutti i terroristi del 13 novembre erano cittadini radicati e integrati nelle democrazie francese e belga, vivevano di sussidi, scuole cattoliche persino. Toni Negri sostiene che “mentre il proletariato della banlieue era inserito socialmente, via via è stato escluso dalle nuove formazioni dell’economia cognitiva”. La violenza dei giovani musulmani radicalizzati sarebbe il frutto della loro esclusione dall’ordine liberaldemocratico. Naomi Klein, la madrina del “no logo” e del popolo di Porto Alegre, ha scritto che per battere l’Isis serve un nuovo interventismo climatico: abbassare il tasso di Co2 per sconfiggere le armate del Califfato. Slavoj Zizek, il paraguru del pensiero debole, ha sostenuto che contro lo Stato islamico serve il ritorno alla lotta di classe e che “l’unico modo per concepire quello che è successo l’11 settembre è collocarlo nel contesto dell’antagonismo al capitalismo internazionale”. Per questo lo Stato islamico è stato ribattezzato “l’organizzazione terroristica più ricca del mondo”? Se il fine ultimo è smantellare la democrazia liberale e il capitalismo ogni fine è lecito. “Tutto è lecito qui”, scrive Slavoj Zizek nel suo libro “Iraq: the borrowed kettle”, “compreso il fanatismo religioso”. Thomas Piketty, dopo le stragi di Parigi del 13 novembre, ha scritto che la zona che va dall’Egitto all’Iran, via Siria, Iraq e Penisola araba, ovvero il grande bacino di reclutamento di terroristi, è “la regione più diseguale del pianeta” e che quindi all’origine del jihad contro l’occidente c’è la disuguaglianza. Vagli a spiegare a Piketty che il jihadista è quasi sempre un tipo pasciuto e con lauti conti in banca, che abita nei quartieri benestanti di Londra, con diplomi in scuole private e che si impegna a tempo pieno per rovesciare la società occidentale che lo ha generato.
Un influente gruppo di intellettuali ritiene invece che l’Isis non debba essere fonte di preoccupazione: “La violenza è un anacronismo”. Quello che vediamo è soltanto una illusione. Guida questo gruppo il professor Steven Pinker di Harvard, celebre psicologo evoluzionista che deve essersi perso qualcosa nella catena dell’evoluzione, visto che lo scorso settembre, dalle colonne del Guardian e poi anche nella sua prestigiosa facoltà, ha sostenuto che i decenni che stiamo vivendo sono “gli anni più pacifici della storia”. Le guerre e i genocidi sono al minimo storico. E tanti saluti al fratricidio in Siria, al collasso etnico-religioso dell’Africa, a Boko Haram, a Charlie Hebdo, a Israele e alla guerra in Ucraina. Ovviamente Pinker non poteva immaginare che un commando di kamikaze un mese dopo avrebbe fatto strage di parigini nei ristoranti, nei teatri, negli stadi. John Arquilla su Foreign Policy ha demolito la concezione di Pinker: “No, i quattro cavalieri dell’apocalisse sono ancora fra di noi”. A sminuire la minaccia dell’Isis è anche Francis Fukuyama, il quale va ripetendo da un anno che il pericolo dello Stato islamico è “ingigantito dai media”. E’ lo stesso Fukuyama che scrisse “La fine della storia” dopo il crollo del Muro di Berlino, una sorta di determinismo storico che prevedeva l’inevitabile ascesa planetaria della democrazia liberale e la fine dei conflitti nazional-religiosi. Invece, la democrazia è in forte regressione e la religione ha un ruolo sempre di maggior peso, nella banlieue francese come in un tugurio africano. E’ lo stesso Fukuyama che prima sostenne e poi sconfessò la guerra in Iraq nel 2003.
Ma è poi vero che il terrorismo agisce solo grazie alla morte? Non si può forse terrorizzare senza uccidere? E uccidere è necessariamente far morire? Non è anche “lasciar morire”? E’ la tesi di Jacques Derrida, il padre nobile della decostruzione, formulata a proposito dell’11 settembre: “Si ha forse torto nel supporre con leggerezza che ogni terrorismo è volontario, cosciente, organizzato, deliberato, intenzionalmente calcolato: ci sono alcune ‘situazioni’ storiche o politiche nelle quali il terrore opera, per così dire, da solo, attraverso il semplice effetto di un dispositivo, in ragione dei rapporti di forza in atto, senza che nessuno, nessun soggetto cosciente, nessuna persona, nessun ‘me’ ne sia effettivamente consapevole o se ne senta responsabile. Tutte le situazioni strutturalmente oppressive a livello sociale o nazionale producono un terrore che non è mai naturale (nella misura in cui è organizzato, istituzionale) e dal quale esse dipendono senza che coloro che ne beneficiano debbano mai organizzare degli atti terroristici e siano mai trattati come terroristi”.
Sì, abbiamo letto bene: per Derrida siamo tutti terroristi potenziali, chi più chi meno, seminiamo la morte senza saperlo. Il più noto degli intellettuali tedeschi, Peter Sloterdijk, docente di Filosofia a Karlsruhe e direttore dell’Istituto di Filosofia presso la Akademie der Bildenden Künste di Vienna, ha sostenuto che gli attentati dell’11 settembre sono “dei problemi ai grattacieli” che fanno parte dei “fatti minori” della storia. “Due o tremila morti in un giorno rientrano nella variazione naturale”, ha scritto il filosofo. E ancora: “Si ha un nemico solo quando lo si può colpire, distruggere, eliminare. Gli islamisti radicali pianificano attacchi terroristici, ma non sono nemici. Sono solo una manifestazione perversa dell’industria dell’intrattenimento che è la stampa e ormai anche la politica. Il terrorismo è un programma di intrattenimento per l’ultimo uomo”.
Già dalle prime ore dopo l’11 settembre 2001, il fior fiore degli intellettuali europei ha immediatamente imboccato la strada delle giustificazioni con grande sfoggio di sottigliezze retoriche: i diciannove kamikaze che avevano sventrato le torri del World Trade Center erano agenti di uno spietato castigo. Il doppio attentato fu la realizzazione di una giustizia immanente. Il premio Nobel per la Letteratura, Josè Saramago, sul País e su Repubblica mise sotto accusa il “fattore Dio”, e vide nella tragedia delle Torri il suo ateismo, capovolgendo la morte di Dio di Friederich Nietzsche in un’invocazione a uccidere il Dio assassino. “Il ‘fattore Dio’ in cui il dio islamico si è trasformato ha scagliato contro le torri del World Trade Center gli aerei della rivolta contro i disprezzi e della vendetta contro le umiliazioni”, ha scritto Saramago. Susan Sontag si domandava che cosa fosse accaduto perché l’America subisse tanto odio, e manifestava il senso di colpa di una cultura di impostazione irrimediabilmente freudiana.
Rossana Rossanda rese omaggio al suo dichiarato antiamericanismo concludendo che il terrorismo islamico si spiega benissimo, perché solo gli americani nella loro arrogante ingenuità potevano pensare “di essere al di sopra delle conseguenze dei loro atti”.
Qualche giorno fa un suo allievo, uno scrittore che raccoglie i premi letterari, sempre sul Manifesto ha pubblicato un articolo allucinante, in cui sostiene che lo Stato islamico è una “malattia” nata in seno all’Europa, che è così rapace, inquinante e incosciente da aver partorito questa appendice malefica che adessa la punisce per i suoi stessi peccati.
Il filosofo della contemporaneità Paul Virilio ha parlato del crollo delle Torri come di un gesto espressionistico che mette i terroristi sullo stesso piano degli artisti nell’epoca della globalizzazione planetaria. Come è noto il grande musicista tedesco Karlheinz Stockhausen, all’indomani dell’attentato al World Trade Center, scrisse che si era trattato della “più grande opera d’arte mai realizzata”.
C’è stato chi, come Jean Baudrillard, tra i più lucidi e liberi interpreti della postmodernità, ha affermato che l’attacco alle Torri gemelle in fondo in fondo fu desiderato dagli Stati Uniti, che fu il risultato della sua “potenza insopportabile”. Nessuno non può non sognare la distruzione di una potenza, una qualsiasi, che sia divenuta tanto egemone. Insomma i terroristi islamici l’hanno fatto, ma siamo noi che l’abbiamo intimamente voluto. “Nessuno ha potuto fare a meno di sognare la distruzione di una simile potenza diventata tanto egemone”, ha scritto Baudrillard.
[**Video_box_2**]A furia di denunciare i difetti della società consumistica occidentale, Baudrillard rimase affascinato già dal totalitarismo nel 1980, quando presentò la Repubblica islamica dell’Iran come “il solo destabilizzatore attivo del terrore e del monopolio strategico dei due Grandi. Forse solo la violenza rituale per niente anarchica, l’attuale violenza di una religione, di un’entità tribale che rifiuta i modelli della libera socialità occidentale, poteva sfidare quest’ordine mondiale”. In molte occasioni Baudrillard ha ritratto gli islamisti come “schiavi che si ribellano a un ordine repressivo”. A resistere non sono solo i diseredati di Zizek, gli sfruttati, il desiderio si colloca nel cuore stesso di coloro che condividono i benefici della mondializzazione capitalistica.
Stessa visione per Judith Butler, la star del campus californiano di Berkeley, teorica della ideologia del gender: “Dopo l’11 settembre, sono rimasta scioccata dal lutto per le persone che sono morte negli attacchi al World Trade Center, ma meno lutto pubblico per i lavoratori clandestini o per le famiglie gay e lesbiche distrutte dalla perdita di uno dei partner. Poi siamo andati in guerra molto rapidamente… A quel punto abbiamo iniziato a uccidere le popolazioni all’estero senza logica. Non abbiamo avuto necrologi per loro”. Con altrettanto cinismo Eric Hobsbawm, lo storico del “Secolo breve”, liquidò così i morti dell’11 settembre: “E’ stata una tragedia umana, ma non ha cambiato in niente la situazione mondiale”.
Si arriva, infine, ma senza per questo concludere l’elenco dei narcisi molesti, al premio Nobel Dario Fo, che dopo il 13 novembre ha invitato la gente a riempire i teatri, “come facevamo noi durante la strategia della tensione”. Soccorso Rosso contro la bandiera nera del Califfato. Il giorno dopo il crollo delle Twin Towers, Dario Fo puntò il dito contro la speculazione finanziaria: “La belva feroce del capitalismo affondava felice i suoi denti nelle carni dei morti e fortune luminose si sono costruite in poche ore. E non c’è da stupirsi. I grandi speculatori sguazzano in un’economia che uccide ogni anno decine di milioni di persone con la miseria, che volete che siano ventimila morti a New York?”.
Figuriamocene, cosa vuoi che siano allora i 130 morti della notte di Parigi. Vittime collaterali nella guerra fra “il sistema” e i dannati della terra, che reclamano soltanto un posto a tavola.
Il Foglio sportivo - in corpore sano