Il presidente del Consiglio Matteo Renzi con Roberta Pinotti (parafulmine categoria “ircocervo”) e Debora Serracchiani (parafulmine categoria “ad honorem”)

Uomini al fronte

Marianna Rizzini
Battuta sempre pronta e petto in fuori. I parafulmine di Matteo Renzi. Atlante minimo. I casi scuola di Orfini e Serracchiani. Il ministro Padoan e l’incubo della ripresa che c’è e non c’è a seconda di chi guarda. Il soldato Guerini, gli intoppi da patto del Nazareno, le formule palindrome, i segnali di fumo, la pazienza.

Essere parafulmine, questo è il problema. Essere colui (o colei) che quando il gioco si fa complicato ci mette la faccia – faccia magari riluttante – in Parlamento, in televisione, in piazza, sui giornali, sui fronti paralleli della polemica politico-socio-economico-culturale. Essere parafulmine obtorto collo. O senza sentirsi tale, senza rendersene conto, addirittura per decisione volontaria (secondo fine? masochismo? spirito di servizio?). Essere un soldato che combatte mentre il generale sta già facendo un’altra battaglia, non se ne cura oppure, al contrario, ci pensa giorno e notte, ma ci sono giorni e notti in cui poco ci manca che ti sconfessi. E’ la sorte delle figure-parafulmine del fronte renziano, uomini e donne in combattimento nel nome e per conto del premier, anche se non sempre in linea col medesimo. (Segue catalogo minimo, arbitrariamente ordinato in categorie).

 

 

Uomini al fronte ma anche no. Sono quelli che apparentemente agiscono senza apparire troppo pasdaran, e anzi dando l’idea di potersi anche ribellare al capo, e però poi, chissà perché, si ritrovano imprigionati nell’ingranaggio.

 

Matteo Orfini. Aridaje, nel senso che Orfini, già presidente del Pd, già commissario del periclitante pd romano nella Roma dell’ex sindaco Ignazio Marino, già ex nemico postdalemiano di Matteo Renzi, si ritrova negli scomodissimi panni del renziano di fatto e a modo suo, quello a cui toccano grane di non semplice decrittazione. E chi, a margine del caso Marino, aveva pensato “beh vedi che il dalemismo di Orfini prima o poi viene sempre fuori” o “beh vedi che tiene il piede in due scarpe” (un po’ con Renzi un po’ con Marino), alla fine si è dovuto ricredere: Orfini è ancora lì, metaforicamente in catene. E’ l’uomo cui tocca, sul Corriere della Sera, far capire che “Alfio Marchini non andrà mai con il Pd” (e se per caso Renzi aveva fatto capire il contrario pazienza). E non basta: a Orfini tocca dissipare le ombre sull’effettiva presa sul territorio del non proprio scoppiettante pd romano, tanto che quando l’intervistatore gli chiede “non dovrebbe essere il Pd ad organizzare appuntamenti” come quello dell’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli per la “Prossima Roma”?, Orfini risponde con parole di alta e non del tutto pragmatica diplomazia: “Giornata utile e opportuna…”, ma “il Pd ha un altro ruolo: quello di ascoltare, di interloquire…”. E vagli a ricordare che l’ultima volta che ci si è messi in testa di interloquire con i circoli pd, con l’intenzione di giungere a una completa “mappatura”, è saltato fuori Fabrizio Barca, l’alfiere della cosiddetta “mobilitazione cognitiva”, ed è finita quasi a botte: pagelle brutte, bocciature con zero spaccato, circoli in subbuglio, Orfini costretto a spiegare e mediare, e Barca sempre sullo sfondo (“il prossimo sindaco di Roma deve arrivare dalla politica”, ha detto, ben sapendo che qualcuno ha fatto anche il suo nome). Tanto per cambiare è il soldato Orfini a restare imbrigliato nella parte del puntualizzatore: “Chi vuole candidarsi a Roma dovrà passare dalle primarie”, ha detto. E si sa: nel Pd dici “primarie” e non sai mai che cosa potrebbe accadere.

 

 

Parafulmine ad honorem. Sono quelli che qualsiasi cosa succeda devono far finta non sia successo niente; quelli che se non succede devono far finta sia già successo, quelli che dicono ciò che il premier non dice, non ha ancora detto, ha già detto, forse vorrebbe dire, forse no, forse non più. E dopo che l’hanno detto loro, non è detto che lui usi le stesse parole. Il loro volto, un tempo forse sorridente, appare stabilmente corrucciato.

 

Debora Serracchiani. Vicepresidente pd e presidente della Regione Fiuli, già eurodeputata pd, già eterna promessa negli anni embrionali del Partito democratico, ormai parafulmine onorario del renzismo con i galloni della proto-rottamatrice. Fu infatti Serracchiani, nel 2009, con la frangetta alla Amélie Pulain, a dire, in tempi difficili per il veltronismo politico al tramonto, la frase morettiana “a questo partito manca la leadership” (morettiana nel senso del Nanni Moretti di “con questi dirigenti non vinceremo mai”). Stimata da Pierluigi Bersani, che l’ha voluta governatore nel Nord-Est, Serracchiani, volto dolente del renzismo didattico, oggi ha il compito di spiegare anche l’inspiegabile. Per esempio perché se n’è andato Stefano Fassina, ex deputato pd ora vertice di Sinistra italiana, il Fassina che Serracchiani aveva liquidato come un Gianfranco Fini d’antan e in crisi di nervi un anno fa, al deflagrare dell’insofferenza del dissidente: “…Mi è parso abbia espresso soprattutto una sofferenza personale, Fassina…Mi sembra isolato anche rispetto alle gran parte della minoranza dem”, aveva detto. Di routine, il soldato Serracchiani è addetta ai dibattiti in cui è contrapposta a qualche Cinque Stelle, a Matteo Salvini o agli scontri a distanza con Alessandro Di Battista. Compiti ingrati, forse, ma mai quanto quello recente: affrontare la suddetta bestia nera, le primarie. “Non si può candidare chi è già stato sindaco”, diceva infatti Serracchiani il 23 novembre, su Repubblica, nei giorni caldi dell’annuncio della candidatura Bassolino a Napoli. E quando le chiedevano “ma perché non volete sostenerlo, Bassolino?”, Serracchiani usava il giro di parole che confermava i sospetti: “…Bassolino non è in cima ai miei pensieri…”. Passavano poche ore, e la risposta non tardava ad arrivare: “Due vicesegretari non fanno un segretario del pd”, diceva l’ex sindaco di Napoli, tirando in ballo anche l’altro uomo al fronte (e altro vicesegretario pd) Lorenzo Guerini. Poi, al culmine della querelle, arrivava una Direzione del Pd, e Matteo Renzi, nel ruolo di segretario-premier, pareva meno spiccatamente renziano di Serracchiani (della serie “facciamo una moratoria, e convochiamo un primarie-day per il 20 marzo”. Punto).

 

Lorenzo Guerini. Più defilato rispetto al soldato Serracchiani, ma pur sempre soldato, Guerini è l’uomo cui piovono sul tavolo gli intoppi da patto del Nazareno: tentativi di allargare la discussione sulle riforme ancora ferme in anticamera; trattative per l’elezione di grandi cariche, a partire da quella del presidente della Repubblica; lancio di segnali di fumo nei momenti di riavvicinamento a Forza Italia (“Siamo pazienti e aspettiamo”, diceva Guerini a Ferragosto). E però il povero soldato Guerini, uno che non ha il passo marziale dei caterpillar renziani (e anzi ha l’allure defilata da deputato d’esperienza della Prima Repubblica) puntualmente viene inchiodato all’amaro pane quotidiano del doppio incarico di Renzi: è opportuno che un premier sia anche segretario?, è la domanda ricorrente dei cronisti. Lui risponde con formule palindrome, passibili di lettura in un senso e nell’altro (esempio: “Mettiamo da parte le fibrillazioni interne”).

 

Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, da giorni sotto torchio mediatico per via delle stime sul pil; da settimane sotto il fuoco dei nemici esterni e interni per via della Finanziaria. Ma l’incombenza peggiore è quella degli annunci sulla cosiddetta “ripresa” – che c’è, non c’è, c’è un po’ o per niente a seconda dell’occhio che la guarda. Se Padoan deve annunciare che il pil sale, lo farà con parole guardinghe; talmente guardinghe da risultare inadatte all’eloquio più motivatore del premier (che infatti ne usa altre). In ogni caso, per un Padoan che compare in tv con aria da Cassandra, c’è sempre un Renzi che lo interpreta in direzione meno pessimisticamente univoca. E se il ministro, sul Corriere della Sera, si mostra preoccupato per la ricaduta negativa sui consumi  del “clima di paura” che serpeggia in Europa dopo la strage di Parigi del 13 novembre, Renzi mette il filtro rosa: “Siamo preoccupati, sì, ma il messaggio che saprà dare l’Italia sarà di ripartenza”. E Padoan, per spegnere le polemiche, è tornato a oltranza su quel +0,9 di ripresa stimata. Fatto sta che nel frattempo ci si è messo anche il prof ed ex premier Romano Prodi, che sul Fatto quotidiano ha lanciato il velenoso strale: “… Mi hanno un poco sorpreso le dichiarazioni del ministro Padoan che, in un certo senso, mettono le mani avanti riguardo a un possibile peggioramento dell’Economia. Spero non abbia notizie ancora più cattive. Io ritengo poco probabile che eventi così tragici possano avere conseguenze molto negative sull’economia”. E sul volto del soldato Padoan, gli occhiali scendono sempre più sul naso, via via che l’espressione si fa più angustiata – ma mai come la sera del 20 ottobre a “Ballarò”, quando il ministro di formazione ex comunista e di indole blairiano-rigorista ha dovuto spiegare ai telespettatori che la spending review dovrà essere sempre più estesa. E al momento di difendere il governo dall’accusa di “convenienza elettorale” nell’abolizione di Imu e Tasi, il soldato Padoan ha dovuto abbandonare il sorriso, le cravatte e l’aplomb da “turista yankee venuto a Roma per comprare il Colosseo” (così l’aveva definito  su Libero Giancarlo Perna). Ma alla fine è sbottato: “Faccio notare una banalità: qualunque misura di politica economica, qualunque taglio di tasse ha un’implicazione di tipo elettorale, non nascondiamoci dietro a un dito”. Poi, sconsolato, ha aggiunto: in ogni caso è una misura “volta a sostenere le famiglie”.

 

 

I gianburrasca. Sono quelli che reggono l’urto mediatico di riforme non sempre benvolute dall’opinione pubblica. Lo fanno con stile informale, loro dannazione o salvezza a seconda dei punti di vista.

 

Giuliano Poletti. Ministro pirotecnico del Lavoro e volto da combattimento del Jobs Act. Ha attraversato il campo di battaglia in estate, quando si è trattato di duellare con gli antipatizzanti sul numero effettivo di lavoratori baciati dalla riforma. Nonostante il passato in Legacoop e l’aspetto bonario da Babbo Natale con piadina (d’estate ama le vacanze in camper sulla Riviera Adriatica), il ministro ha insospettabili sprazzi liberal-liberisti, tipo quando dice che tre mesi di vacanza sono troppi o quando definisce l’orario di lavoro “un attrezzo vecchio” (a quel punto il sottosegretario Luca Lotti l’ha corretto: il tema sollevato da Poletti c’è, anche se forse l’ha sollevato “in maniera un po’ goffa”, ha detto). Il ministro in ogni caso non demorde. Ultima dichiarazione spiazzante: meglio laurearsi a 23 anni con 98 che a ventotto con 110 e lode.

 

Stefania Giannini. Ministro dell’Istruzione glottologa e renziana, già montiana (è stata per qualche tempo segretaria di Scelta civica), e punching-ball mediatico della riforma “La Buona scuola”. Dopo mesi di tribolazione, Giannini, un tempo anche  bersaglio estivo dei paparazzi, per la riforma si è “data otto”. Così ha detto al settimanale “Oggi”, ma oltre a essere da mesi sotto contestazione degli oppositori esterni e di una larga fetta degli insegnanti, nel settembre scorso è finita sotto il fuoco amico dei militanti (lavoratori precari) alla festa dell’Unità di Ferrara. La cosa era già successa in primavera, quando, a una celebrazione per il 25 aprile, a Bologna, Giannini si era trovata nel bel mezzo di una “pentolata rumorosa” organizzata dai Cobas (modello cacerolazo sudamericano).

 

 

I parafulmine volontari. Sono quelli che nella posizione scomoda del soldato che prende i colpi ci stanno per ragioni geopolitiche (per esempio: appartenza a Ncd)
Angelino Alfano e Beatrice Lorenzin, rispettivamente ministro dell’Interno e ministro della Salute. Non sono del Pd e forse, chissà, vorrebbero esserlo (“come sarebbe più facile la vita”, hanno l’aria di pensare all’ennesima intervista televisiva, davanti alla muta dei nemici scatenata al quadrato: contro il loro essere ministri del governo Renzi e contro il loro essere post-berlusconiani). Lui, Angelino, l’uomo cui si rimproverò la mancanza del “quid” quando era delfino dell’allora Cavaliere, oggi si trova sulla linea del fronte “prevenzione terrorismo” (con annessa polemica su libertà e sicurezza). Si consola annunciando “un presepe in ogni prefettura” e presentando il suo libro “Chi ha paura non è libero”. Lei, Beatrice, ha passato mesi a dire in ogni possibile trasmissione o convegno che “gli allarmi sui tagli alla Sanità” erano “frutto di ignoranza”. Il taglio di capelli alla Meg Ryan anni Ottanta, Novanta e Duemila segue l’umore e la fatica della perenne graticola mediatica. Si consola a casa con la famiglia (è da poco diventata madre di due gemelli), solo che anche lì le arriva il grugnito dei social network.

L’ircocervo. Creature un po’ parafulmine e un po’ truppa d’attacco
Roberta Pinotti. Al posto di combattimento per conto del governo su argomenti spinosi (dai marò in giù), dopo gli attentati di Parigi è parsa più interventista del premier. (“Bombardare non è un tabù”, ha detto lei, poi correggendo in “ma non in Siria”. “Bisogna essere equilibrati e avere buon senso”, ha detto lui). E Pinotti per un attimo è parsa non più soldato, ma generale non del tutto allineato.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.