La Francia di mezzo
E’ l’economia, stupido. Sempre lei, il feticcio buono per ogni occasione, evocato per spiegare tutto e nulla, agitato come un fazzoletto dagli sfigati per sembrare fighi, dagli ignoranti per mostrarsi acculturati. Il circo mediatico-politico lo usa come passe-partout e anche questa volta lo ha issato sulle prime pagine e sugli schermi televisivi per spiegare il successo del Front national. Ebbene, ora più che mai è sbagliato. La celebrata formula adottata per la vittoriosa campagna elettorale di Bill Clinton nel 1992 (“It’s the economy, stupid”) non serve. Non perché le cose vadano bene al di là delle Alpi, anzi certe cose vanno persino peggio che in Italia, ma perché il nuovo senso comune non regge. Il n’est pas une question d’economie, bête.
Se fosse vivo, Antonio Gramsci avrebbe parlato di “economicismo volgare”, quello che mette in secondo piano la cultura, l’ideologia, la politica, la psicologia collettiva, per un presunto primato della produzione. E’ una formuletta facile facile che a sinistra serve per coprire la questione immigrati e il terrorismo islamico, o per mettere sotto accusa l’austerità; a destra per buttarla contro l’euro. Anche Marine Le Pen è figlia di Angela Merkel. Vanno in sollucchero i sinistrorsi, fin da Stefano Fassina, e i destrorsi, fino a Matteo Salvini. Certo, la disoccupazione è alta, spesso più alta soprattutto “giù al Nord” (tanto per citare il brillante film di Dany Boon) ma nessuno può affermare che la Provenza e la Costa Azzurra siano sotto la linea della povertà. Invece proprio il ricco sud è da sempre la roccaforte lepenista, con un’onda che parte da Marsiglia città “araba” per quasi il 50 per cento. Allora l’economia non c’entra per nulla? Certo che c’entra, ma non solo lei e comunque in un senso ben diverso da quello che si legge sui giornali. Cominciamo dai fatti, i legni storti dell’informazione.
L’austerità? Ma quale austerità. La Francia non ha mai rispettato i parametri di Maastricht sul deficit, non ha frenato la spesa pubblica, non ha liberalizzato il mercato del lavoro, non ha ridotto le pensioni, non ha tagliato la sanità (anzi, tutto il contrario), non ha venduto le telecomunicazioni, le line aeree e le altre aziende pubbliche, non ha mai seguito, insomma, il paradigma dominante. Eppure eccola qua la grogne populaire, quel borbottio diffuso che diventa un grugnito e dalla provincia sale implacabile verso Parigi, un’onda cavalcata con maestria dal Front national.
Se la spiegazione che va per la maggiore non tiene, allora come la mettiamo? Cerchiamo di capire a questo punto lo stato di salute dell’economia francese. Il Fondo monetario internazionale nel suo ultimo rapporto lo vede così: “Le rigidità strutturali continuano a pesare sulle prospettive a medio termine. La crescita del prodotto potenziale è fondamentalmente più debole rispetto a prima della crisi, riflettendo la più bassa produttività e l’eredità della recessione. Crescenti spese del governo hanno spinto in alto il debito pubblico e il peso delle tasse. Un esteso periodo di solido aumento dei salari ha eroso la competitività, ristretto i margini di profitto e ridotto la capacità delle imprese di investire e innovare. Le rigidità del mercato del lavoro stanno mettendo in pericolo la creazione dei posti di lavoro e alimentando la disoccupazione strutturale. Colli di bottiglia che persistono da lungo tempo, come una estesa regolazione e barriere alla concorrenza nei servizi, stanno ostacolando l’innovazione, l’investimento e la crescita della produttività. Queste rigidità potrebbero venire a minare la crescita di medio termine specialmente se il completamento delle riforme si interrompe o si materializzano choc esterni come una crescita più bassa nei paesi avanzati e la volatilità del mercato finanziario”. Una lunga citazione, ma sono parole chiare senza nemmeno troppo gergo economichese. Per illustrarle, ecco qualche cifra.
Il prodotto lordo cresce (+1,4 per cento nell’ultimo trimestre); i prezzi sono fermi a più 0,1; la disoccupazione al 10,8 per cento della forza lavoro; la bilancia con l’estero è leggermente negativa (-0,5 del pil); il bilancio pubblico è a meno 4,1 e non raggiungerà il fatidico 3 per cento del pil nemmeno tra due anni. Ciò vuol dire che Parigi ha avuto la possibilità (o il privilegio) di compensare la crisi con un’ampio ricorso alla spesa in deficit. Se prendiamo, infatti, la dinamica del bilancio pubblico, vediamo che la Francia con una quota pari al 57 per cento del pil è seconda solo alla Finlandia nella classifica della spesa totale, ma è prima ampiamente per la spesa sociale. Dal 2000 a oggi sono cresciute moltissimo le uscite per la sanità, le pensioni e gli stipendi dei dipendenti pubblici, che rappresentano una quota rispetto al totale degli impieghi superiore alla media europea, molto più alta persino di quella italiana.
Nonostante paghino più tasse di tutti gli altri europei, danesi esclusi, i francesi non ce la fanno a mantenere in equilibrio le finanze dello stato. Parigi ha ottenuto da Bruxelles esenzioni alle regola di Maastricht con la scusa che il debito pubblico era ancora basso, ma così facendo il debito ha marciato verso la quota fatidica del cento per cento, oltre la quale si rischia di precipitare nel circolo vizioso, come l’Italia. Dunque a questo punto non ci sono alibi, tuttavia anche Hollande ha puntato i piedi coprendosi non più con la scusa della recessione come aveva fatto il suo predecessore Nicolas Sarkozy, ma con l’argomento che l’èra dell’austerità è finita. Naturalmente, gli eurocrati si sono piegati, a cominciare da Jean-Claude Juncker.
Buon per i francesi, dovevamo fare anche noi lo stesso – dicono gli euroscettici italiani. Eppure trascurano, forse perché hanno ascoltato molti lamenti (spesso puramente propagandistici) e non hanno visto le cose da vicino, che nonostante tutto questo spendi e spandi, la Francia è in panne. Se di crisi bisogna parlare, non si tratta di recessione all’italiana (meno dieci punti di pil nei sette anni di vacche magre), alla spagnola o tanto meno alla greca, ma di una stagnazione di lungo periodo. “L’economia è in eterna convalescenza”, ha scritto Le Monde commentando le ultime previsioni dell’Istituto di statistica. Un giudizio che coincide con quello di Jacques de Larosière, già governatore della Banca di Francia e tra i padri della moneta unica europea, il quale spiega con ragioni strutturali il vicolo cieco nel quale si dibatte il paese: “I costi unitari della manodopera crescono più di quelli dei nostri vicini – sottolinea uno dei più autorevoli economisti europei – la spesa pubblica è anch’essa in ascesa oltre la media, ma soprattutto la formazione della manodopera è inadatta ai bisogni dell’industria attuale. Questa combinazione di fattori ha fatto sì che la competitività francese si sia ridotta di cinque punti rispetto alla Germania, a partire dall’introduzione della moneta unica”.
L’euro, insomma, non ha fatto bene nemmeno alla Francia? Forse, ma la si può raccontare anche così, cambiando punto di vista: i francesi si sono illusi di essere al timone, nella stessa barca con i tedeschi, invece dovevano remare come tutti gli altri, idea che non è mai passata per la testa ai sindacati, ai tecnocrati, ai patron e nemmeno alla classe politica che va in giro con il cesto sotto il braccio per riempirlo di voti.
E se la trappola fosse scattata ben prima dell’euro e della crisi, se avesse preso le mosse dalla mondialisation, come la chiamano oltralpe? Anche la Francia, ovviamente, è stata investita da quel cambiamento negli equilibri economici (e politici) mondiali chiamato globalizzazione. Per un po’ l’ha subito, illudendosi di essere difesa dalla propria grandeur. “Dopo tutto abbiamo la force de frappe nucleare, parbleu!”. Poi l’ha demonizzato. Hanno cominciato gli intellò, a destra come a sinistra, all’insegna dell’exception culturelle e della Nation.
Regis Debray, uno degli scrittori culto per i sessantottini, l’avventuriero che era andato al seguito di Che Guevara nella giungla boliviana e fu persino accusato ingiustamente di averlo tradito, si batte da anni “contro il mondo senza frontiere”, e ha rilanciato la sua visione dopo l’attacco a Charlie Hebdo. Alain Finkielkraut, maoista in gioventù nella Gauche prolétarienne, poi polemista di punta tra i nouveaux philosophes, ha scritto un libro di 230 pagine, L’identité malheureuse, l’identità infelice, per rilanciare l’idea di nazione, lamentando che stiamo tutti perdendo contatto con il passato. Il pluriculturalismo è in realtà conflittuale e l’estrema destra – sostiene il filosofo – s’è impadronita del dibattito sull’identità. La causa immediata è nel cambiamento demografico provocato dall’immigrazione di massa, tuttavia anche Finkielkraut come Debray indica nella globalizzazione che ha appiattito le civiltà e abbattuto i confini, nel suo cosmopolitismo al confine con l’apolidia, l’origine vera del processo. “Non c’è umanità che non appartenga a una cultura”, scrive, e questo vale per la Francia che deve rilanciare la sua missione o per l’Italia che deve difendere le bellezze lasciate dal suo incredibile passato. Altrimenti la società, quella francese e quella europea in generale, passerà “da una comunità di destino a una giustapposizione di particolarismi”.
Idee lepeniste? Idee che colgono il sentimento collettivo che si agita nell’animo dei francesi. Il pendolo della nuova nazionalizzazione va dall’estrema sinistra all’estrema destra o meglio scavalca esso stesso le frontiere ideologiche, accomuna le teste pensanti della Rive gauche che si battono da tempo contro l’imperialismo delle multinazionali trasformato in multiculturalismo. E accoglie chi ignora o ha dimenticato che la nation (con la minuscola) è diventata una melma purulenta a Vichy. Certo c’era l’eroe solitario, quel Charles de Gaulle esiliato a Londra, e c’erano i maquis, ma si sa che i resistenti al dominio nazista erano pochi, quanto quelli italiani tra il 1943 e il 1944. Anche i francesi in maggioranza erano diventati “volenterosi carnefici di Hitler” e persecutori di ebrei.
La classe dirigente, politica ed economica, quella che ha governato in questi anni, cioè la destra tecnocratica post gaullista (Sarkozy, Juppé) e la sinistra riformista (Strauss-Kahn) prima ha subito l’offensiva delle idee, poi ha cercato di cavalcare economicamente la globalizzazione esaltando i punti di forza nazionali: il nucleare, i treni, la grande distribuzione, l’aeronautica, le catene alberghiere, le banche, la moda. I francesi sono bravissimi nell’organizzare grandi strutture, più dei tedeschi troppo rigidi, più degli americani troppo conflittuali. Ma sono arrivati troppo tardi. Nel frattempo s’è abbattuta la crisi del 2008.
Prendiamo i campi nei quali la Francia può vantare un primato rispetto a tutti gli altri, tedeschi e americani compresi. Per esempio il nucleare civile. E’ un vero capolavoro di industria e di organizzazione che fornisce la quasi totalità dell’energia elettrica e rende il paese meno dipendente dagli idrocarburi, quindi dagli arabi e dai russi. In questo momento storico si rivela una scelta saggia. Angela Merkel che ha abbandonato (sia pur gradualmente) la filiera atomica dopo Fukushima, è ricattata per via del gas russo, l’Italia lo stesso. Quasi tutti i paesi occidentali sono in via di denuclearizzazione. Gli Stati Uniti hanno trovato la loro bonanza nelle scisti bituminose, però la maggior parte degli europei è contraria a fratturarle (no fracking). La scelta francese, per quanto illuminata, costa cara, non solo a causa del prezzo dell’uranio, ma perché costringe il paese a mantenere una megastruttura di sicurezza in patria e in Africa, soprattutto nel Niger dal quale si approvvigiona. Chi paga? Il contribuente. Finora lo ha fatto volentieri, adesso rumina e ruggisce.
[**Video_box_2**]La compagnia aerea di bandiera, Air France, che aveva fatto man bassa per tenere testa a Lufthansa e a British Airways, comprandosi l’olandese Klm e un pezzo dell’Alitalia, adesso perde quattrini, quindi taglia posti di lavoro e servizi. Le grandi catene della distribuzione alimentare, come Carrefour o Auchan, tra le prime al mondo, chiudono gli ipermercati perché non tirano più. I treni ad alta velocità, i Tgv, restano dei gioielli del trasporto su ferrovia, tuttavia stanno manifestando la loro vulerabilità in tempi di terrorismo. E potremmo continuare. Restano forti, fortissime, le banche, che hanno superato la crisi del 2008 meglio della Deutsche Bank o delle concorrenti inglesi, restano i colossi delle assicurazioni come Axa, e soprattutto i giganti del lusso, come Bernard Arnault o François Pinault. Ma i campioni nazionali sono sempre meno sostenuti da un tessuto di medie imprese. Questa è una delle differenze importanti a vantaggio dell’Italia. E spiega in parte perché le esportazioni francesi sono andate peggio in termini di valore aggiunto. Con l’irrompere della Cina, entrambi i paesi hanno perduto quote sul mercato mondiale, ma l’Italia si è dimostrata più adattabile, più flessibile. Del resto flexibilité nel vocabolario politico- economico francese è una parolaccia.
E qui torniamo al cruccio di economisti come De Larosière (o degli analisti del Fondo monetario, di Moody’s, della stessa Bce): le mancate riforme. E’ questo che ha lasciato la Francia nel tempo del nulla, quella terra di nessuno dove il vecchio muore e il nuovo non nasce ancora, alimentando la nostalgia della grandeur perduta e il timore per un futuro incerto ancor più di qualsiasi altro futuro. Riforme mercatiste e mondialiste, direbbero Debray e Finkielkraut, che schiacciano l’identità sotto il “modo di vita maggioritario”? Può darsi, ma riforme necessarie. Qual è l’alternativa, chiudere le frontiere? Prima o poi finiranno anche il camembert e il fois gras, le brioche costeranno troppo persino per gli eredi di Maria Antonietta. E i guru del neogallismo (sì, non si tratta del fumetto di Asterix, adesso gli intellò dichiarano persino di sentirsi più vicini ai Galli che agli altri europei) si troveranno a fare i conti con i nuovi plebei: a differenza dai sans coulottes loro indossano mutande, ma si avvolgono nelle bandiere verdi e nere del califfato e dell’islam militante. Eccoli là, già si vedono avanzare tra place de la Bastille e place de la République. E qualcuno ha cominciato a tirare le somme.
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