Il ritorno del sole
Poche ore di luce livida, quando il cielo è nuvoloso, o dorata, se il riflesso di un sole remoto accende l’orizzonte nel cielo sereno. Luce di crepuscolo, quasi un ricordo del giorno, che quassù, nel Grande Nord, dà la misura precisa del tempo della notte del mondo. E, tanto più, scandisce la lenta, sospirata, immancabile, eternamente ritornante, grandiosamente festosa uscita dalle tenebre. Il Natale, a Oslo, là dove le ombre lunghe della terra rendono più percettibile la distanza del pianeta dalla sua stella, è un momento quanto mai denso di trepidazione e di attesa. Nel cuore dell’inverno, nel corso della notte più lunga dell’anno, si aspetta con fiducia. Si aspetta l’arrivo della luce, del calore, della vita, ovvero la venuta del Bambino emblema di speranza e di salvezza. Naturale che qui, sin dalle origini e ancora oggi, il significato della Natività cristiana si intrecciasse con le forti suggestioni e la simbologia del passaggio dell’anno. Che il racconto, o l’annuncio, della redenzione si innestasse su un fitto sostrato di credenze e tradizioni ben più antiche della cristianizzazione della landa scandinava. Ebbero buon gioco i missionari della chiesa di Birka quando, nel IX secolo, diffondendo in terra nordica la buona novella, la collegarono ai riti pagani della vegetazione e alle leggende cosmologiche rurali. A un’analoga strategia, a metà del X secolo, dovettero il loro successo Haakon il Buono, sovrano di Norvegia figlio di Araldo Bellachioma, e Aroldo Denteazzurro, il fautore dell’unificazione e della conversione del regno di Danimarca, i quali, per far accettare il nuovo credo alle popolazioni refrattarie, procedettero per progressivi adattamenti della religione cristiana agli usi e alle superstizioni contadine. Per esempio, fu per decreto regale che si legiferò affinché ognuno celebrasse l’Avvento preparando per l’occasione nelle fattorie la propria birra artigianale. Da allora, almeno, per quanto ci è testimoniato da fonti tanto frammentarie ed elusive quanto intriganti e affascinanti, per festeggiare il Natale nelle regioni più settentrionali d’Europa, “si beve lo Jul”, “drikke Jul”, ci si butta alle spalle i rigori dell’inverno con il boccale in mano e si brinda al ritorno del sole.
“Jul”, è questa la parola del suono melodioso – ci vibrano campanelli dentro, i jingle bells, e, associazione tutt’altro che peregrina, il frusciare delle spighe di luglio – che indica il Natale in tante lingue nordiche. Se ne sente l’eco ovunque. Nei vari “Julemarked”, i mercatini di Natale. Nello julebrød e nello jule-kake, il pane e il dolce natalizi, impastati nella forma circolare di una ruota, addolciti con uvetta e canditi, decorati con i simboli dell’infinito. Accanto agli jule-nek, i fasci di grano, orzo, avena, che un tempo venivano conservati intatti durante l’ultima trebbiatura invernale, esposti all’ingresso dei granai e offerti come dono votivo a Odino. Che gli uccelli del campo andassero a beccarne le spighe era un segno propizio: sazi e grati, nella bella stagione, avrebbero risparmiato il raccolto. Ancora oggi quei campestri bouquet ornamentali vengono appesi come portafortuna davanti alle porte di casa nei giorni di vigilia, per la delizia dei passeri cittadini. Allo Jul, poi, si intonano, fastosamente, la veste e il gusto della juløl, la birra di Natale, che è una birra scura, ad alta fermentazione, fruttata, a volte speziata, perfetta per accompagnare i dolci. Per non dire della compagnia minuta e numerosa degli jule-nisse, lo stuolo degli gnometti natalizi che, nei giorni prossimi alla notte santa, brulicano dappertutto: nelle vetrine dei negozi e alle finestre delle case, sulle cartoline di auguri sulle etichette delle bottiglie, nei racconti dei grandi e nei sogni dei bambini.
Mercati, brindisi, simboli solari – la “ruota” del pane e del sole che, con termine omofono a quello per “Natale”, in norvegese si chiama “hjul” –, spiritelli fatati, richiami alla seminagione: tutto questo lo Jul la trascina con sé, evocando con insistenza memorie precristiane.
Eppure tutte le attestazioni più lontane della misteriosa paroletta sonora si trovano in ambienti ecclesiastici. Aveva scrupolosamente tracciato qualche anno fa una mappa delle sue occorrenze il filologo Tiziano Daniotti, esperto di cultura germanica e appassionato di lingue scandinave, nel suo saggio sullo “Jól” (edizioni Herrenhaus), intitolato con l’antico nome norreno della primeva festività invernale da cui sono derivati il norvegese, svedese e danese “jul”, il finlandese “joulu”, l’islandese “jól”, il dialettale inglese “yule” e lo scozzese “jøl”, ovvero i termini odierni che, in un’ampia area del Nord Europa tuttora indicano il Natale. Non è questa ovviamente la sede per entrare nei dettagli di una trattazione di filologia germanica. Si ricorda solo rapidamente che dalla prima menzione del mese di “jiuleis” apparsa in un calendario liturgico gotico nel 407 d. C., alla citazione dei due mesi “giuli”, dicembre e gennaio, negli scritti sulla cronologia degli anglici di Beda il Venerabile, ai calendari delle feste religiose (“Martyrologium” e “Menologium”) del IX e X secolo, devoti all’“aerra geola” o all’ “aerra jula”, corrispondenti al solstizio invernale, fino agli almanacchi islandesi del 1250, per ottocento anni abbondanti, in un contesto cristiano, si continuò a celebrare come un cruciale momento di rivelazione l’oscuro transito del sole che, nel tempo precedente il Natale, si coricava, andava a riposo, si nascondeva nella sua caverna, prima di riprendere lentamente il suo corso. “I mesi giuli prendono il nome dal mutare del cammino del sole verso l’aumento del giorno: uno lo precede, l’altro lo segue”, scriveva nel “De temporum ratione” San Beda nel 725. “E sai perché noi chiamiamo il Natale Jul?”, gli faceva eco quasi un secolo dopo il poeta svedese Samuel Columbus, autore di un’elegante ode encomiastica, “Perché la luce del mondo inverte in quei giorni la sua ruota” (hjul in svedese). Che il disegno di tre ruote addentellate a formare un ingranaggio di precisione sia finito nell’edizione 2015 di una delle tante birre natalizie di Oslo dimostra che ancora oggi si inclina ad associare spontaneamente il Natale con le fasi solari.
Dire che la festività religiosa del Natale abbia preso, nel mondo contemporaneo, una deriva secolare e commerciale è una scontata banalità. Proprio là, invece – lassù, al Nord – dove dello Jul restano vitali le connotazioni pagane, si direbbe che il Natale ritrovi le sue radici simboliche più profonde. La festività che, con l’avvento del cristianesimo, venne a celebrare la ricorrenza della nascita del Redentore e l’avvio della storia della salvezza, aveva una serie di caratteristiche che, con tutta evidenza, la predisponevano a una conversione del suo significato, a una non irreversibile traduzione. Lo Jul era – e in un certo senso oscuramente resta: con l’oscurità dei simboli che “ci parlano ancora, è solo che non sappiamo che cosa ci dicono”, scriveva Ernst Jünger – il punto di convergenza di una serie di manifestazioni sacrali. Nei giorni della sua ricorrenza – un arco di tempo non precisamente determinato, approssimativamente compreso tra la fine di novembre e l’inizio di gennaio, o tra Santa Lucia e la prima luna nuova di febbraio, o tra a San Nicola (6 dicembre) e l’Epifania – si celebravano il culto degli antenati, la festa per la conclusione della trebbiatura, i riti della vegetazione, il ritorno del sole dopo il solstizio. Si preparavano banchetti familiari e cerimonie collettive. Si rendeva omaggio ai defunti e si officiavano i riti propiziatori per la fertilità della terra e della famiglia. E, come in epoca pagana si brindava a Thor e a Odino, così, dopo la conversione, si mesceva birra per Maria e Gesù bambino, festeggiati insieme alle schiere degli angeli ma anche a tutto uno stuolo di esseri inferi e misteriosi.
Con la maestria di cui solo gli scandinavi sono capaci, e con il fiero attaccamento alla loro tradizione che li contraddistingue, le tracce di quelle usanze attraverso la storia sono per esempio esposte in questi giorni al Norsk Folkemuseum, il museo delle tradizioni popolari che, simile allo Skansen di Stoccolma, si sviluppa a cielo aperto sull’altra sponda del fiordo di Oslo. Qui, entrando nelle casette contadine, perfettamente ricostruite secondo i canoni dell’architettura medievale e rinascimentale, si rivedono i pavimenti di legno che, in onore ai cicli della natura, venivano cosparsi di sabbia nelle zone costiere o di fronde sempreverdi nell’entroterra. (Si badi che l’albero di Natale è una introduzione tardiva, come pure Santa Claus: fu importato dalla Germania via Danimarca solo a metà Ottocento e solo nelle case delle famiglie cittadine e benestanti. Dai primi anni del Novecento, poi, si diffuse in tutte le famiglie). Si osservano i giacigli di paglia che, nelle notti di Jul, venivano lasciati a disposizione degli spiriti degli avi, sicché tutti i membri della famiglia, pronti ad accogliere la loro visita, durante le feste si accoccolavano per terra per dormire. Si ammirano le decorazioni natalizie della tavola, povera ma solennemente imbandita: apparecchiata con la candela ti sego che restava accesa per tutto l’avvento; con il pane di Natale, che restava intatto fino al culmine della festa e di cui una buona fetta veniva preservata e mescolata ai semi da spargere sui campi dopo la prima aratura di febbraio; con la birra di precetto, distribuita in ordine gerarchico e in proporzioni variabili a tutta la famiglia, bambini compresi; con il porridge di riso, di cui, come una parte del pane natalizio e dell’ultimo grano non trebbiato, veniva tenuta in serbo una porzione da offrire alle creature naturali e soprannaturali che popolano l’universo scandinavo: agli spiriti dei defunti, agli uccelli dei campi, ai numi tutelari, ai geni del luogo, agli elfi, i troll, il disir che affollano le leggende nordiche. Era soprattutto nelle notti buie in prossimità del solstizio che si credeva si aggirasse quella compagnia di esseri venuti dall’oltremondo: durante le cosiddette “Rauhnächte”, le notti “aspre” – o “pelose”, o “fumose”, o “pungenti” a seconda che si voglia associare l’etimo della parola germanica alla radice “rûch”, “pelo”, “rau”, “grezzo”, o “Rauch”, “fumo” -, quelle in cui nella Britannia e Scandinavia antiche si compiva il volgere dell’anno e si scatenava la leggendaria “caccia selvaggia”, la corsa furiosa per le foreste delle creature infere, delle anime inquiete e dei soldati morti in battaglia guidati dallo psicopompo Odino con tanto di cavalli e segugi al seguito.
[**Video_box_2**]In questo fantastico corteo rientrano anche in “Nisse”, i suddetti “Julenisse”. Non gli si rende giustizia a definirli i Santa Claus, i Babbi Natale norvegesi, perché è vero che, negli anni Settanta dell’Ottocento, complice il successo della pittrice illustratrice svedese Jenny Nyström, creatrice di centinaia di cartoline illustrate e ideatrice di svariate copertine di rivista, acquisirono alcuni tratti del gioviale panzone di Rovaniemi – barba bianca, cappello rosso, slitta – ma sono tutta un’altra cosa. Per cominciare sono tanti. E non hanno la pancia. Il loro nome deriva da Nils, appellativo familiare affettuoso per dire “tipetto”, “personaggio”, “compagno”, o forse dal norreno “nidsi” ovvero “fratellino”, “cuginetto”, “zietto”, o comunque “piccolo caro parente”. Non sono mai più alti di tre piedi, ma non sono bambini: sono uomini fatti e piuttosto anzianotti. La loro divisa è quella rustica dei contadini di una volta, portano un cappello a punta di colori sgargianti che non è detto sia rosso. Le loro barbe assomigliano al muschio che cresceva sui tetti delle cascine e la stoffa delle loro giacche è ruvida e pelosa. Hanno un viso rugoso, l’espressione furba, e agilità e forza straordinarie. Come tutti i norvegesi, sciano. Qualcuno dice che abbiano le orecchie a punta, solo quattro dita nelle mani e che i loro occhi, come quelli dei gatti, brillino luminosi nel buio. I gatti, insieme ai cavalli e alle capre sono tra i loro animali prediletti: niente renne dunque. Sono golosi, dispettosi e soprattutto molto permalosi. Chi ti dimentichi di offrire loro il riso e latte di cui sono ghiotti, si aspetti qualche brutto tiro: pare si divertissero, per vendetta, a legare tra di loro le code delle mucche, a rovesciare il latte, a rompere scodelle e vasellame. Sotto le loro sembianze tornava a far visita alla casa l’anima del suo primo abitante, del capostipite della famiglia, del fondatore della fattoria o di colui che per primo aveva disboscato la foresta e arato i campi. Il loro traffico con il regno dei morti li rende da sempre vagamente sinistri. Perciò fanno paura, ma con chi ne ha rispetto, sono gentili. Dalla metà dell’Ottocento, blanditi per secoli con zuppa di riso e leccornie, si sono convinti a farsi carico, a Natale, del ruolo di porta-doni. Ancora oggi contribuiscono a conferire allo Jul quell’alone di mito e di fiaba che rende così esotico e magico il mondo nordico.
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