Natale di canto e disincanto
Il momento più difficile arriva circa un’ora dopo l’inizio della recita di Natale, quando è evidente che durerà per sempre. E che passeremo lì la notte, poi passerà anche la Vigilia, passerà il giorno di Natale, noi non avremo comprato nemmeno un regalo, non avremo neanche apparecchiato la tavola, i mandarini ammuffiti in cucina, i parenti tornati nelle loro gelide città, le luminarie spente e i cappelli da Babbo Natale abbandonati per strada insieme alle bottiglie di spumante rotte, e noi saremo ancora lì, nell’atrio della scuola, seduti sulle seggioline dei nostri figli, con i cappotti addosso, un pandoro in mano a volte, o una videocamera, in attesa che qualcuno aggiusti lo stereo che si è inceppato durante “So this is Christmas”. O anche “Jingle Bells” in versione rap. E visto che manca ancora tutta la rivisitazione di Dickens, e che nella grotta il bue e l’asinello si stanno strangolando a vicenda e la maestra si stringe al collo il foulard come gesto di disappunto, e poiché manca la parte autogestita (quest’anno le femmine hanno scelto il musical, e hanno litigato molto su chi dovesse interpretare Rizzo in “Grease”, tanto che a un certo punto, verso la fine di novembre, una madre preoccupata ha proposto di aprire uno sportello antibullismo), allora conviene arrendersi, sorridere, applaudire, fare ciao con la mano al rappresentante di classe che sta anche girando il filmino, accettare di essere la voce fuori campo accovacciati dietro una tenda e intanto pensare davvero allo spirito del Natale. Conviene impiegare questo tempo per essere Scrooge, magari non così disperati e avari, e tenere fra le mani il passato, il presente e il futuro (anche se il futuro non esiste, perché la recita non finirà mai). Ricordarsi dei Natali passati, quando credevamo a Babbo Natale, quando volevamo i pattini rossi o quando, più avanti, volevamo soltanto sparire, quando avevamo la febbre alta, quando abbiamo cambiato vita per sempre, quando abbiamo finto che andasse tutto bene, quando abbiamo aspettato qualcosa che non è mai arrivato, quando abbiamo capito che il Natale non era più nostro ma dei nostri figli, e che non importa se non succede quasi più che qualcuno indovini un nostro desiderio, un pacchetto sotto l’albero, una fantastica promessa.
Mentre tutta la vita ci passa davanti e noi invecchiamo seduti lì accanto alle casse dello stereo, mentre i nostri bambini stonano, inciampano, sudano e si riempiono la bocca di pop corn, mentre si cambiano i costumi di scena urlando nel backstage, cioè nel bagno delle maestre, l’unico con la cartigienica, le madri cinesi chattano in modo forsennato, le madri ucraine stanno sedute composte con senso della noia e della disciplina, le madri del Bangladesh hanno portato molte amiche per riuscire a sopravvivere, e guardano l’ora e cullano altri figli, le madri francesi volteggiano sui tacchi e approfittano dell’attesa per mettersi il rossetto, le madri italiane preparano interiori classifiche di bellezza e si chiedono chi porterà via le sedie, alla fine di tutto (contro ogni logica, perché è evidente che la recita non finirà mai), e intanto le diversità culturali permanenti non impediscono di lottare per l’ultima fetta di panettone, ma gli universi culturali permanenti comprendono, per tutti, l’amore per i bambini e un pensiero fisso che ritorna a ogni Natale, soprattutto quando si sta seduti lì a fare bilanci mentre i figli con le loro voci piene di campanellini raccontano l’essenziale invisibile agli occhi perché è l’ora del “Piccolo principe”: il mistero delle luci di Natale lasciate in una scatola in cima a un armadio, la capacità inspiegabile che hanno queste lucine di prendere vita durante l’anno al buio e formare grovigli inestricabili, nodi impossibili da sciogliere, e nel caso in cui si riesca a scioglierli, dopo giorni di ostinati tentativi, si scopre sempre (non quasi sempre), che le luci sono tutte rotte. Come una ribellione: nessuno le userà per più di un Natale, perché ogni Natale sarà diverso, e ogni volta dovrete meritarvelo, uscire con la febbre alta a comprare altre luci, sbagliare formato, intermittenza, tutto, tornare al negozio, implorare comprensione, spiegare che i bambini vorrebbero più un effetto discoteca, invece vostra moglie chiede una semplice Tour Eiffel e serve un compromesso, insomma ogni anno, ogni dicembre, bisogna crederci un altro po’ a questo Natale maltrattato, a questa umanità che si dispera dentro negozi in cui nessuno fa più pacchetti regalo, e impegnarsi almeno durante i giorni precedenti per far funzionare tutte le luci di tutte le cose insieme (ci sarà tempo, poi, per svenire ubriachi con la faccia sul cappone ripieno, ci sarà tempo per rinfacciarsi l’esistenza in cucina, durante la resa dei conti dei piatti nella lavastoviglie, che non ci stanno mai tutti, così il mondo si divide fra quelli che vogliono comprimere in un solo lavaggio un intero pranzo di Natale per dodici persone, anche a costo d’infilare i bicchieri uno dentro l’altro e tirarli fuori ancora sporchi ma non pensarci più, e quelli che dicono: fammi spazio, dammi un grembiule, dove sono i guanti di gomma, lavo tutto io, sottolineando una superiorità morale, l’eroismo chiassoso di chi ha chiuso duecento cappelletti a mano, e scatenando così una nuova gara di recriminazioni, soprattutto se si è ricevuto in regalo un golf con i castori). Far funzionare tutte le luci insieme significa anche affettare cipolle, prima, con un senso di ineliminabile felicità, dire alla vecchia zia quanto le stanno bene i capelli all’insù, schivare le frecciate sui nuovi mariti che sono sempre più brutti, antipatici e peggio vestiti di quelli vecchi, dire alla figlia adolescente: metti via quel telefono, almeno a Natale sta’ con noi (lei manderà allora velocissima messaggi con faccette disperate e pistole: mia madre, che palle, a dopo, che sfigata, sei la mia vita, ti lovvo), ma dopo mezz’ora nascondersi dietro l’albero di Natale per chattare con frenesia e entusiasmo. E poi mangiare con gioia, per giorni, gli avanzi, farlo solennemente, come il nostro saluto alla terra degli uomini liberi, mangiare avanzi fino al disgelo, far durare il Natale fino a Pasqua, disfare l’albero solo un minuto prima che le luci, nella scatola dentro l’armadio, si rompano per sempre.
Quando i bambini credono a Babbo Natale è tutto più semplice: la concentrazione allegra su di loro perché abbiano il Natale perfetto, i travestimenti, e nascondi il costume rosso nella cuccia del gatto sennò lo trovano (ai padri bisogna spiegare che invece Babbo Natale non esiste e che i regali dobbiamo comprarli noi entro il ventiquattro sera e i negozi chiudono presto, e la spada laser è introvabile, e loro ci guardano confusi, ma come, il patto era che io mi travesto e Babbo Natale fa i regali), e tutte le complicate acrobazie per non farsi scoprire, nascondere gli scontrini, i sacchetti dei negozi, e informarsi vagamente sui desideri (mamma perché ti interessano così tanto le trottole volanti?), offrirsi di imbucare la letterina e aprirla con il vapore, andare sul sito della Coca Cola dove fanno la magia di Babbo Natale che telefona davvero con una vera voce natalizia, tentare di far entrare la villa dei conigli travestita da computer dentro la valigia, ogni gesto trasforma il Natale in qualcosa di magico, di necessario, e di esaltante. Fino a che il trucco riesce, fino a che un intero mondo immaginario pieno di fatine dei denti, gnomi orologiai e renne che trainano slitte cariche di pacchetti non comincia a crollare, un elemento dopo l’altro, e a un certo punto diventa chiaro che non si può più sospendere l’incredulità, non si può continuare a infilare un cuscino dentro i pantaloni per fare la pancia di Babbo Natale e far durare l’infanzia per sempre, e rispondere “ma certo che esiste”, con aria convinta, alle domande sempre più incalzanti dei bambini. Ma se esiste come fa a portare i regali a tutti i bambini del mondo? E come fa a sapere che a Natale non siamo a Roma? E perché non porta i regali ai bambini poverissimi, a loro dovrebbe portarne di più che a noi. E perché ogni volta è un Babbo Natale diverso, cammina in modo diverso e un anno aveva perfino gli occhiali da sole come quelli della mamma? Perché nei negozi vendono i costumi da Babbo Natale? Perché sui pacchetti c’è scritto il nome del negozio di piazza Venezia? E lo sai che a scuola tutti dicono che Babbo Natale siete voi? E non mi diresti una bugia, vero? No amore non ti dico le bugie, scrivi la letterina però, ché altrimenti Babbo Natale non fa in tempo a costruire il Nintendo. Quando ci si comincia a sentire manipolatori un po’ scemi, quando si inizia a giustificarsi, la notte (ma lo faccio per lui, per non dargli una delusione), significa che è ora di smetterla, è il momento di rassegnarsi alla realtà. Ma nessuno vuole essere il distruttore di sogni, nessuno vuole dare il via all’età adulta con un disincanto, ma nessuno vuole nemmeno essere sbugiardato da qualcun altro. Così, quando la bambina è arrivata a casa, una sera, dicendo: “Ho scoperto che Babbo Natale non esiste, me lo ha detto la maestra”, la prima reazione è stata di sgomento. Ma come, e tutta la fatica fatta? e la responsabilità educativa? e quest’ultimo Natale che volevamo trascorrere con la polvere magica che abbellisce il mondo? e il momento di gloria del cugino con una vera pancia di Natale, a cui avevamo promesso che sarebbe toccato a lui? e il fratello piccolo, che crede a tutto quello che dice sua sorella?
[**Video_box_2**]All’improvviso eravamo nudi. Davanti alle nostre bugie, al bicchiere di vino lasciato ogni anno sul tavolo, a quelle sciocche minacce (guarda che Babbo Natale vi vede dalla finestra, se distruggete il divano non vi porta i regali). Ma che cosa dici tesoro, sei sicura? La maestra ha detto che se vado in prima media credendo ancora a Babbo Natale, anche se ho un anno di meno, mi prenderanno tutti in giro. Ma mamma, tu non lo sapevi che non esiste? La bambina non era arrabbiata, anzi era piuttosto euforica, come se si sentisse finalmente parte del mondo con la verità in mano. Mamma, tu lo sapevi? Beh, un po’ lo sospettavo, ma speravo che esistesse, dicono che esiste finché ci si crede, dopo scompare. A quel punto, la vergogna per lo sbugiardamento, perfino l’arrabbiatura con la maestra che aveva rivelato l’indicibile al posto nostro, hanno lasciato spazio a un sollievo, a una liberazione. E’ fatta, ma a nostra insaputa, è fatta, noi siamo bugiardi ma innocenti. Non è colpa nostra se Babbo Natale non esiste, anzi io non volevo rassegnarmi, volevo crederci, lei adesso lo sa. Adesso sente la responsabilità verso il fratello, e mi strizza l’occhio mentre dice: fratello, sta’ tranquillo, anche se hai rotto l’iPad con un calcio Babbo Natale verrà lo stesso, perché è gentile e sa che hai promesso di accompagnarmi in camera per sempre tutte le volte che ho paura dei mostri cattivi. Ma i mostri cattivi non esistono! Certo che esistono, ha risposto lei, sennò non esisterebbe neanche Babbo Natale. La scoperta del mondo ha fatto un giro intero su se stessa e ha rimesso tutto a posto, in un ordine perfetto, in cui i mostri non esistono ma fanno paura lo stesso, e Babbo Natale non esiste ma porta i regali lo stesso e beve il vino lo stesso prima di tornare in Lapponia, o in Groenlandia, o nella pubblicità della Coca Cola, o dentro la cuccia del gatto. Quindi è Natale lo stesso, l’età adulta non lo ha divorato ancora, e forse non riuscirà a divorarlo mai. Ogni volta ricomincerà un nuovo Natale, e ogni volta spunterà da qualche parte un bambino per cui travestirsi ancora, e anche quando non ci saranno bambini con le campanelline nella voce, ci sarà la speranza di qualcosa di inaspettato, di un momento un po’ magico fra la lavastoviglie, le carte dei regali e gli avanzi di tortellini in brodo. Ogni volta, ma non questa volta, perché la recita non finirà mai.
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