Monumental Checco
Zalone non fa satira politica né imitazioni, crea personaggi. Ma questo non è un paese per comici: anatomia di un successo a lungo snobbato
Guardate i trailer che annunciano il nuovo film di Checco Zalone, please. Bastano tre minuti. Poi guardateli un’altra volta. E un’altra volta ancora, per capire quanto contano nel mestiere di far ridere la precisione dei tempi comici e le controscene (dicesi controscena quando è l’altro a parlare, in questo caso la cliente della farmacia, mentre viene inquadrato Zalone in camice bianco che ascolta e, per capirci, “fa le facce”). “Mestiere di far ridere” qui significa: trasformare una gag che sulla carta è carina, ma certo non da sganasciarsi – la moglie trascurata dal marito, effetti e contromosse – in un gioiellino.
Aiuta anche la tecnica: nello stesso trailer (che poi trailer a rigore non sarebbe, non mostra neanche un fotogramma di “Quo vado”, più secretato di un’intercettazione giudiziaria), l’attore sfodera toni, accelerazioni, frenate, sussurri che sfuggono alla maggior parte dei diplomati al Centro sperimentale di cinematografia. Gente che poi occuperà militarmente il cinema italico, convinta che “recitare” voglia dire pronunciare la battuta – spesso scritta in un italiano di plastica – con impostazione da filodrammatica. Avvertenza: se siete interessati a temi quali la conferenza sul clima, la geopolitica mediorientale, la rivolta delle classi subalterne e il sole dell’avvenire che sulle medesime presto brillerà, sconsigliamo di proseguire la lettura.
La farmacia, il divanetto dello psicoanalista dove Zalone scopre che non gli escono più di bocca le parolacce (“ci ho costruito la carriera, immagini la delusione dei bambini…”), il Vaticano (con l’uso astuto del semibuio e qualche soldino investito nei costumi, pare più credibile di quello visto in “Suburra” di Stefano Sollima, sono i misteri del cinema italiano): gli sketch ricordano allo sterminato pubblico che il 1° gennaio, diretto (e sceneggiato) come gli altri exploit zaloniani da Gennaro Nunziante, esce “Quo vado”: quest’anno i soldini messi a pizzo per i film delle feste bisogna farli durare fino all’Epifania.
Ogni previsione è naturalmente fuori luogo. Mai come in questo momento siamo seguaci di Mark Twain, che trovava ardue le previsioni “riguardo al futuro”. Si può solo riproporre l’escalation: “Cado dalle nubi”, anno 2009 e 14 milioni di incasso; “Che bella giornata”, anno 2011 e 43 milioni di incasso; “Sole a catinelle”, anno 2013 e quasi 52 milioni di incasso (più l’indotto, segnalò una volta Luca Medici, il laureato in Giurisprudenza e musicista e autore comico che il personaggio Zalone lo ha inventato e lo interpreta: “I cinema si riempiono e pure le pizzerie vicino ai cinema lavorano”). Non male per uno che fece irruzione nel pop con la canzone “Siamo una squadra fortissimi / fatta di gente fantastici”. Il tormentone dell’estate 2006, trascinato dalla vittoria italiana ai Mondiali di calcio: di palloni e giocatori non sappiamo nulla, ma a sentirla sulla suoneria di un cellulare fu colpo di fulmine.
Più o meno in quel periodo, su Telenorba, Checco Zalone faceva l’imitazione di Nichi Vendola. Abito grigio semilucido – quella tinta che sul tessuto di lana o altre fibre naturali neppure prende, attecchisce solo sul sintetico – e parrucchetta in tinta bassa sulla fronte, quando attacca con “La Puglia è la terra che scorre nel sangue delle mie vene…” siamo già conquistati. Anche prima di sentire che il sangue che scorre nelle vene, oltre a portarsi dietro la terra di Puglia che alla circolazione bene non fa, è “raggrumito dalla barbarie dei poteri forti”. Che, va da sé, affliggevano “la vita dei nostri padri contadini chini sotto il sol levante”. Per punteggiatura, gli sputi a ogni “s”. “Sputavi” era uno dei motivi per cui Walter Matthau-Willy non voleva rifare coppia con George Burns-Al nel film “I ragazzi irresistibili”, tratto dalla commedia di Neil Simon. Erano due attori di vaudeville, e il colpevole, per dispetto, aumentava le parole con la “s”.
Con questi inizi e i record di incassi, il resto dovrebbe essere storia. Della comicità, se la materia fosse presa da queste parti un po’ sul serio. Sappiamo benissimo che a spiegare le battute le si ammazza, e noi di mestiere non studiamo le rane morte. Però fuori d’Italia il comico viene considerato un mestiere rispettabile, oltre che molto difficile (lo sanno i dilettanti allo sbaraglio nelle serate “open mic”, come li vediamo nella serie “Louie” e come li vedevamo nella serie “Seinfeld”). Non si configura come l’evoluzione di chi a cena dopo qualche bicchiere racconta bene le barzellette. Perfino Obama – una sera all’anno, alla cena per i giornalisti accreditati alla Casa Bianca – si fa scrivere il testo da professionisti e fa il suo numero, stuzzicando anche le questioni delicate. Nella litania italiana dei “poeti, santi, navigatori”, il comico non ci sta (e non ci sta neppure il romanziere). Gli effetti si vedono, nel paese di Bartali e Coppi: satira politica – e solo satira politica – per undici mesi l’anno. I comici svincolati dall’appartenenza politica (indipendentemente dalla bravura e dalle preferenze) escono dalla tana assieme alle renne e alle palle colorate.
Gli italiani comprano in massa libri e biglietti del cinema solo a Natale e dintorni: i primi vengono regalati, quindi non sussiste l’obbligo di lettura (copyright Luciano De Crescenzo); i secondi servono per levarsi i parenti di dosso (copyright nostro). Sono film da ridere, perlopiù. Ma non sembra mai il momento adatto per discutere come funziona – o come non funziona – la comicità. Al massimo, si dibatte sul tema “cinepanettoni sì, cinepanettoni no”. Magari, per noi che li dobbiamo vedere tutti: “Cinepanettoni, quanti ne sfornano quest’anno?”
Legittimo il proposito di partecipare alla festa, nel periodo più generoso di spettatori. Però, insomma, almeno variare le battute, ritoccare la formula, guardare fuori dalla finestra cosa succede (se proprio uno non ha voglia di salire sul tram, come suggeriva Cesare Zavattini agli sceneggiatori che volessero farsi un nome). Se non lo si fa, vietato lamentarsi se poi gli incassi calano, a dispetto di cast che ormai paiono l’elenco del telefono: la speranza è che ognuno porti al cinema i propri fan, come nei saggi scolastici ogni bambino convoca i genitori e tutti i parenti che riesce a trovare. Una generazione che ride cercandosi gli sketch sul web – e ha a disposizione il meglio della comicità, se vuole, anche in materia di pecoreccio e toilet humour – ha standard diversi dai genitori e dai nonni.
Per quanto amassimo Checco Zalone – complice anche una meravigliosa parodia di “A te” di Jovanotti, eseguita alla presenza di Jovanotti, e anche qui c’erano le “s”, però con la zeppola: “Fe folamente lo fapessi fuffulterei” – nessuno poteva garantire la riuscita di “Cado dalle nubi” (il cimitero dei comici bravi mai arrivati al cinema è affollato). Ricordiamo perfettamente la prima risata a scroscio, quando “Angela” nella canzone faceva rima con “Losangela”: “Ami solo me, spositi con me, che in viaggio di nozze io ti porto a Losangela”. Va ascoltata da uno con la maglietta rosa, cantante di piano bar a Polignano a mare, voglioso di raggiungere “L’acne del successo” (era già una battuta di Marcello Marchesi, ma tra grandi si può fare). Salito a Milano canta la canzone “Gli uominisessuali” in un locale gay, indicando ogni avventore con il dito. A memoria di spettatore, non c’era paragone con la concorrenza, che proponeva gag sui telefonini finiti nel culo del tacchino, o sciate a gambe larghe contro l’albero, mentre in “Cado dalle nubi” l’ingenuo venuto dal sud prendeva una busta di cocaina e lo usava come stucco per riparare il lavandino.
Accadeva molto prima che Roberto Saviano aprisse “Zero Zero Zero” con un monologo da cui si evince che se non conosci almeno dieci sniffatori, per rispetto delle statistiche il cocainomane sei tu. A Saviano la parodia toccò nello spettacolo “Resto Umile World Tour”: lo scrittore era “all’acne del successo”, grazie al suo programma assieme a Fabio Fazio, e anche questo sta nella categoria “grandiosi tempi comici”. A noi piaceva anche zio Michele da Avetrana, che dava gli ingredienti delle ricette come in un masterchef campagnolo e subito li ritrattava. Ma il paese non era ancora pronto, e probabilmente non lo sarà mai. I comici americani invece hanno campato – ma proprio campato, per anni – su O. J. Simpson e il suo processo. Ma appunto, il loro presidente un giorno all’anno afferra il microfono, spara qualche battuta, e nel paese delle class action e del politicamente corretto nessuno ha da obiettare.
Saviano era il Saviano televisivo, indeciso tra il Nobel per la letteratura e il Nobel per la pace, magari tutti e due. Aria seria e compunta di chi rivela una notizia che non puoi non sapere (conosciamo gente che a Milano ha smesso di mangiare pizza, dopo che Saviano ha snocciolato l’elenco delle mozzarelle contaminate dalla camorra, e questa non è – ripetiamo, non è – una battuta di Zalone). Informazioni a raffica, scandite con il tono che ora quando lo rifà Carlo Lucarelli sembra uno scopiazzatore, e invece – da centinaia di puntate – scandiva già così i delitti. Stessa sorte toccò a Jep Gambardella, zalonizzato nel salotto di Maria De Filippi (con quel nome e con quei vestiti, che altro si poteva fare?). Tempismo perfetto anche in questo caso: Jep Gambardella fu sbeffeggiato non quando il film uscì (se lo filavano francamente in pochi, a parte gli intellettuali e i critici convinti che il personaggio fosse ispirato a loro). Fu sbeffeggiato quando il film vinse l’Oscar e fu trasmesso in tv. Totalizzando 10 milioni di spettatori, dicono. E tanti dovevano essere. Il giorno dopo era impossibile mettere piede dal fruttivendolo o al supermercato, senza sentire qualcuno che dicesse: “Com’era poi? io mi sono addormentato quasi subito…”.
Al cinema, Checco Zalone non fa le imitazioni e non fa satira politica, e neanche le mette insieme nella combinazione che sta affossando Maurizio Crozza (con l’eccezione di uno pseudo Papa Francesco che consegna personalmente un frigorifero in fondo a via Salaria, incontrando puttane e rapinatori). Costruisce personaggi, e questi sono merce rara. Costruisce personaggi della nostra epoca, e questa è merce ancora più rara (non possiamo ridere per gli anni che ci restano con le barzellette che resero grande la Settimana enigmistica, con le crociere che imbarcano moglie e amante, con i cellulari infilati nel culo del tacchino). Checco Zalone sfoderò i depressissimi Emo, che magari non sono la novità più nuova sulla faccia della terra, ma son sempre meglio dei milanesi che orripilati vanno al sud per lo sposalizio dei figli (i quali amoreggiano via skype e parlano al telefono con New York, ma una pernacchia ai genitori che reagiscono come in “Indovina chi viene a cena?” non la fanno mai).
I film di Checco Zalone hanno successo perché lo meritano: dietro ci sono la fatica, le riscritture, il perfezionismo del comico e del regista Gennaro Nunziante. Per “Quo Vado”, viene voglia di riciclare un commento sfuggito in occasione di “Sole a catinelle”, prima che diventasse assoluto campione di incassi: “Se facciamo trenta milioni di euro, diranno che ha incassato poco” (si sono visti produttori accendere ceri alla Madonna per parecchio meno). Restano i critici, più o meno con questa dinamica: il primo film non lo prese sul serio nessuno; il secondo non si poteva ignorare, e anche chi non aveva visto il primo commentò “meglio, più maturo”; al terzo tutti si dichiararono zaloniani della prima ora, con poche voci contrarie improntate al modello di pensiero: “se piace a tanti e incassa molti soldi io sono contro”. Al quarto, sarebbe giusto considerarlo come farebbero gli americani, o anche i francesi e gli inglesi: un patrimonio nazionale.