Ogni uomo è un brand
Uno dei più grandi luoghi comuni che ci porteremo dietro in questo 2016 è quello della crisi di Facebook. Ogni volta che nasce un nuovo social network, media e commentatori ripetono che la piattaforma fondata nel 2004 da Mark Zuckerberg ha i mesi contati. Ogni anno queste previsioni vengono smentite, e i nuovi social network che avrebbero dovuto seppellire Facebook restano di nicchia o vengono dimenticati. In alcuni casi, se ritenuti innovativi e potenzialmente vincenti, Zuckerberg li compra. A Facebook ci hanno fatto l’abitudine ormai, e se fino a qualche anno fa le previsioni pessimistiche degli analisti preoccupavano qualche manager, adesso quasi non lasciano traccia. A confermarcelo, alla fine di un pranzo in un piccolo ristorante di Roma a fine dicembre, è proprio uno di loro: Luca Colombo, country manager di Facebook e Instagram per l’Italia. Prima di chiacchierare con il Foglio ha incontrato alcuni studenti universitari alla Luiss, rispondendo in modo apparentemente strano alla stessa domanda che gli facciamo noi, dove vede Facebook tra due, cinque, dieci anni. “Non lo so”. Ma come, e la famosa vision che un manager dovrebbe avere? All’inizio del pranzo si parla di figli, Colombo ne ha due che ogni tanto fotografa sul suo profilo Instagram, dove – confessa – “non posto molto spesso perché non ho la capacità di creare contenuti che altri invece hanno, anche se le mie foto cercano di essere immagini non scontate che raccontano la mia vita”. Se a un padre si chiedesse la stessa cosa sui suoi figli – che sarà di loro tra cinque, dieci anni – la risposta non sarebbe forse la stessa?
Il “non lo so” di Colombo si spiegherà bene durante la chiacchierata. Quando Instagram ebbe la sua prima esplosione – tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 – c’era la diffusa convinzione che grazie a questo nuovo social network chiunque potesse diventare fotografo, tra effetti vintage, filtri dai colori saturi, e bianco e nero ben dosato. “All’inizio forse era così – dice Colombo – Quando Facebook ha comprato Instagram, nell’aprile 2012, c’erano più o meno 40 milioni di utenti (a luglio di quell’anno il dato ufficiale parla già di 80 milioni, ndr): era ancora un social network di nicchia. Negli anni è cambiato molto il modo di usarlo, le persone hanno cominciato a differenziarsi per contenuti creati e stile”. Oggi gli utenti su Instagram sono 400 milioni, è chiaro che per emergere è necessario darsi uno stile particolare, riconoscibile. “Avere la capacità di cogliere il momento e saperlo rappresentare in modo originale con un’immagine non è sempre così facile – spiega – ma è l’unico modo per avere un engagement molto alto”, cioè un numero non piccolo di interazioni, commenti e “mi piace” sotto a una fotografia. “Le interazioni e i commenti alle foto non sono parametri business – aggiunge ancora il quarantacinquenne country manager italiano di Facebook – ma parametri che servono a capire l’affezione della gente al brand”. Nota bene: il mondo dei social network, forse ben più della società liquida di baumaniana definizione, ha modificato in modo irreversibile l’idea di brand. Non sono più solo le aziende o i marchi famosi di moda: ognuno di noi oggi è un brand, e i social sono il mercato in cui farsi conoscere e – perché no – vendersi. “Chi sa creare un contenuto di valore fa la differenza”, spiega Colombo, che di marketing e sviluppo di affari si occupa da vent’anni, prima in Mondadori e in Microsoft, oggi in Facebook.
Come è possibile però che una piattaforma per condividere foto via smartphone sia arrivata a essere uno dei social network con più margini di crescita, un luogo da cui giornaliasti, politici, modelle e fotografi tra i più quotati al mondo non possono più prescindere, tanto che da un paio d’anni Time premia il miglior fotografo accanto al miglior instagrammer? Quando Facebook ha acquistato il social network delle foto con i filtri nell’aprile del 2012 per un miliardo di dollari, immaginava già tutto questo? “All’epoca Instagram combinava alla perfezione un paio di trend emergenti”, ricorda Colombo. Facebook, che si stava per quotare a Wall Street, riceveva critiche per non avere una strategia chiara sul mobile. Instagram era mobile, “quindi in linea con quello che i consumatori chiedevano”. Allora Facebook aveva già oltre un miliardo di utenti, perché comprare un social network che ne raggiungeva sì e no 40 milioni? “La natura di Instagram erano le immagini, e sempre più le persone si esprimono per immagini”, dice. La combinazione di Instagram era perfetta, oltre che quasi unica allora. Nel 2012 Facebook intercetta un trend, lo cavalca, poi dà l’impressione di dettarlo. E’ vero che i social network e i giganti del web cercano di creare loro una domanda, in realtà inesistente, così da potervi rispondere con i propri prodotti? “Non credo che abbiamo creato noi questa esigenza: c’era già nella società, esiste nel consumatore, a prescindere da noi. Noi siamo solo operatori che attraverso la tecnologia abilitano queste esperienze, senza forzarle”.
Resta la domanda su come Instagram abbia fatto in meno di cinque anni a passare da 40 a 400 milioni di utenti. E’ a questo punto della chiacchierata che si apre un capitolo tra i più interessanti, sul quale Colombo si sofferma a lungo. “Così come per Facebook, anche per Instagram ci sono persone che analizzano e guardano tutti i comportamenti degli utenti nazione per nazione, in modo da capire come servirli al meglio. Sono i data scientist, e hanno l’obiettivo di comprendere come far crescere quell’utenza in un determinato mercato”. Nessuna forzatura, semmai “si accelera un processo in corso”. Come? “Guardando i dati, i comportamenti e lanciando nuovi prodotti. Oggi Instagram non è quello di tre anni fa: ci sono altri filtri, nuove applicazioni che permettono di creare collage, video ed effetti”. Marketing e analisi dei comportamenti: “Devi creare interesse su un prodotto, poi puoi studiare i dati”. Un miliardo e mezzo di iscritti a Facebook e 400 milioni su Instagram e che quotidianamente cliccano, scrollano, guardano, aprono link, mettono like, chiedono e accettano amicizie generano una quantità di dati impressionante. La bravura di un data scientist sta nel saperli interpretare. Un esempio utile a capire è quello del Brasile, dove cinque anni fa Facebook non aveva un peso: “Il player di riferimento era Orkut di Google con oltre 30 milioni di utenti”. Il social network di Zuckerberg contava 2-3 milioni di iscritti. Oggi i brasiliani su Facebook sono 99 milioni. Orkut è stato chiuso. Come è stato possibile? La risposta è una sola: data scientist. Dal quartier generale di Menlo Park, in California, un team di esperti ha studiato i dati che arrivavano dal Brasile: “Si sono chiesti: quali sono i temi che interessano? Quali le discussioni che funzionano meglio? Sulla base di questo hanno fatto il cosiddetto tuning sul prodotto: proposto certe amicizie invece di altre, creato un’interfaccia più funzionale” e adottato accorgimenti grazie ai quali nel giro di poco il Brasile è diventato uno dei cinque paesi al mondo con più utenti Facebook.
A sentire questi racconti le analisi sociologiche che siamo soliti leggere a proposito dei social appaiono improvvisamente secondarie, inutili, e sembra che l’ingegneria spieghi meglio della sociologia le interazioni tra noi e i nostri amici su Facebook. “Non saprei rispondere – ammette Colombo – Forse sì, a livello tecnico, ma l’interpretazione del dato in termini di pensiero e interessi delle persone non è ingegneristico, ha a che fare con la persona”. Ultimamente, rivela, Facebook cerca come data scientist biologi e persone che hanno lavorato nella finanza. Ogni conoscenza è utile.
Se non ci fossero i data scientist non ci sarebbe Facebook. “Un giornale dovrebbe avere un data scientist. Persino un ristorante dovrebbe averlo. Se costruisci un sistema che traccia certi dati – ad esempio a quale cliente appartiene un determinato scontrino – il data scientist può dare indicazioni utili a migliorare il business, suggerendo modifiche che altri metteranno in pratica”. In America è una figura professionale in crescita, in Italia ancora quasi non se ne sente parlare. E’ un problema culturale, di reticenza verso un mondo, quello dei big data, forse considerato non sufficiente a spiegare la realtà? “Forse sì – ribatte Colombo – Ma vale la pena di provarci”. Istruttiva è l’esperienza del sindaco Bloomberg a New York, che grazie ai big data è riuscito a ottimizzare i controlli sulle abitazioni non a norma. A Facebook lavorano a ciclo continuo sui dati, correggendosi sulla base delle risposte degli utenti, e utilizzandoli anche per Instagram, Messenger, WhatsApp e internet.org, il progetto nato da Zuckerberg per portare una connessione web in tutto il mondo: “Da quest’ultimo arrivano dati legati al territorio, alla morfologia del paese, utili per capire come portare meglio la connettività”. Nel nostro discorso la privacy sembra restare in sottofondo per gran parte della chiacchierata, fino a che è inevitabile parlarne: “La sua tutela deve essere imprescindibile – dice subito Colombo – ma bisogna stare attenti a non bloccare le opportunità che l’analisi dei dati dà. Se c’è un problema di privacy, prima lo si risolve e poi si usano i big data: troppo spesso invece la sola presenza del problema blocca tutto, perché si pensa che così ci si fa gli affari privati di una persona”.
Questa analisi e interpretazione continua dei dati è ciò che permette a Facebook di vivere e crescere in un mondo in continuo cambiamento come quello del web, cambiando a sua volta. Ecco il perché di quel “non lo so” come risposta alla domanda su dove sarà il social network tra qualche anno: “Il vantaggio competitivo che abbiamo rispetto ad altri è avere compreso che non è facile predire il futuro: puoi fare delle scommesse, ma sai che sono ad alto rischio, per cui devi essere pronto a cambiare rotta, rimetterti in gioco e ammettere l’errore”. Il discorso torna al 2012, quando a Menlo Park sbagliarono strategia sul mobile, con una app che impiegava troppo tempo a caricare. Dopo qualche mese a migliaia di sviluppatori fu detto: scusate, abbiamo sbagliato, e si tornò indietro. Il prodotto Facebook, o Instagram, è in continua evoluzione: “Quando qualcuno ha una buona idea, la si mette a disposizione di un set limitato di utenti. Sulla base di come questi utenti la usano si capisce se è buona. Se lo è, ci si investe e la si sviluppa. Se no, si chiude”. Ammettendo di avere poca fantasia, ci chiediamo cosa ci sia ancora da inventare per far crescere Instagram. Innanzitutto il social ha ancora molti margini di crescita “organica”: 400 milioni di utenti al mese sono tanti, ma possono aumentare. “E’ un prodotto mainstream ormai, dato che tutti hanno uno smartphone, ed è al passo con un trend tuttora in crescita. E poiché la qualità della foto e il suo contenuto aiutano a far crescere l’engagement, se tu rendi più semplice il lavoro gli utenti la useranno di più”.
Qualche giorno fa sul sito del Nieman Lab, Laura E. Davis, editor del team che si occupa della parte mobile di BuzzFeed, nelle sue previsioni sul giornalismo del 2016 consigliava: “Perché utilizzare 800 parole per raccontare una storia quando ne bastano 300 e una foto di Instagram?”. Per questo il pranzo romano con il milanese Colombo non può non finire con una domanda sul mondo dell’informazione. Instagram può aiutare giornalisti ed editori a dare notizie? “Certamente i fotoreporter”, dice. Poi fa vedere il suo smartphone, scorre la timeline, costruita in modo tale da mostrare sempre e solo una foto per volta: “In questo modo chi guarda non viene distratto da altro, e l’immagine cattura l’attenzione”. La missione di Instagram è raccontare l’istante nel momento in cui accade, non importa chi sia a farlo. Chi scrive si trovava qualche anno fa tra le prime file di piazza San Pietro durante l’ultima udienza di Papa Benedetto XVI. Quando la papamobile passò lì accanto, fotografò il Pontefice e postò l’immagine sul social network. Quella foto fu utilizzata dall’account ufficiale di Instagram per dare la notizia dell’addio di Benedetto XVI. Aneddotica a parte, Colombo consiglia Facebook per far crescere visibilità e lettori di un quotidiano, innanzitutto con Instant articles, la piattaforma che da qualche mese permette ai siti di informazione partner dell’azienda di Menlo Park di far leggere i propri articoli direttamente su Facebook. Per chi ha un brand da valorizzare, invece, Instagram è lo strumento ideale. Pochi giorni fa Prima Comunicazione riportava alcuni dati significativi raccolti da GlobalWebIndex: il 70 per cento degli utenti di Instagram ha meno di 35 anni, il 60 per cento vi accede quotidianamente, con un alto livello di partecipazione. La cosa più interessante – a livello di business – è che più della metà degli utenti segue i profili dei propri brand preferiti, e quasi la metà lo usa per scoprire nuovi prodotti. Naturale che Colombo parli con orgoglio del fatto che da settembre 2015 anche in Italia – e prima rispetto ad altre nazioni – ci sia l’opportunità di fare pubblicità su Instagram. Nulla di troppo invasivo: nella timeline compaiono post di account che pubblicizzano i loro prodotti (Netflix è stato tra i primi qui da noi) e che possono essere nascosti con due clic. Qui l’integrazione con Facebook è totale, e le campagne vengono fatte grazie all’analisi dei dati degli utenti: si crea un contenuto, si decide il target a cui far arrivare il messaggio e si pianifica la campagna sui due social network, in modo da arrivare agli utenti il cui comportamento lascia intendere un potenziale interesse per il prodotto. Come può notare chiunque abbia un account Instagram, uno dei settori che più utilizzano questo strumento per comunicare è quello della moda: “Alle sfilate tutti riprendono con lo smartphone e poi postano su Instagram”, dice Colombo, che aggiunge come anche il mondo dell’automotive e delle compagnie aeree siano presenti: “Chiunque utilizzi le immagini per comunicare contenuti ha in Instagram la piattaforma ideale”. E la tv, che sui social ha trovato una nuova giovinezza con i commenti in tempo reale? “Ai broadcaster spieghiamo che il loro prodotto ha una durata limitata nel tempo. Puoi essere bravo a creare notorietà prima della messa in onda, magari anche a farne parlare dopo, ma la trasmissione ha un inizio e una fine. Piattaforme come la nostra permettono di allungare il tempo e allargare lo spazio nei quali il prodotto vive e fa parlare di sé. Oggi però i produttori televisivi stanno cogliendo ancora troppo poco questa opportunità”.
Il nostro tempo è finito, ma salutandoci è quasi inevitabile tornare all’inizio della chiacchierata, e parlare dei figli. Se per gli analisti di Facebook è difficile predire il futuro, e tutt’al più sanno interpretare il presente per provare a indirizzarlo, con i figli l’esperienza è analoga, ma ancora più incerta. Che ne sarà di loro tra qualche anno? Non c’è data scientist che possa rispondere a questa domanda.
Il Foglio sportivo - in corpore sano