Girolamo Romani, detto il Romanino (Brescia, 1484-1566), “Miracolo della fornace” (particolare), affresco nella chiesa di Sant’Antonio a Breno (Brescia)

Profondo giallo tra Brescia e Marcheno

Cianuro e altoforno, si risveglia la valle dei misteri

Michele Masneri

Mario Bozzoli, padrone della fonderia con il fratello, è scomparso l’8 ottobre (indagati i due nipoti). Il 18 è stato trovato morto, con tracce di veleno in corpo, l’operaio Giuseppe Ghirardini. Che cosa è successo in Val Trompia?

A Brescia esci dall’autostrada e c’è la nebbia, e tra le spire di umidità gassosa la torre dell’inceneritore, è lì e sovrasta tutto, camino enorme e elegantissimo, muta colore a seconda della prospettiva, sembra una Torre Gemella rimasta su, brucia ottocentomila tonnellate di rifiuti l’anno, e fuma, fuma, in continuazione, nell’Italia delle polveri sottili e dei metalli pesanti.
Inceneritore più grande d’Europa, maestosa opera d’architettura del rifiuto, pare dunque coerente venire qui sulle tracce di un mistero che riguarda proprio una ciminiera. “E’ sparito un uomo”, sarebbe un titolo da De Sica padre, ma siamo a Brescia e dunque è un imprenditore a sparire, un “piccolo”, campione delle narrazioni della fabbrichetta. Giovedì 8 ottobre Mario Bozzoli, titolare col fratello della Bozzoli srl, scompare nella sua fonderia di Marcheno, Val Trompia, deep provincia bresciana. Non è stato più ritrovato, non è mai ritornato a casa, la tesi più probabile è che sia stato inglobato nel suo stesso forno dove si fondevano metalli di vario tipo per ricavarne “pani” di ottone da usare poi per lampadari, rubinetti, per il vasto uso che la lega gialla ha in commercio.

 

La magistratura ha indagato (ma non arrestato) due nipoti del Bozzoli, Alex e Giacomo, che lavoravano con lui, e due operai, Akwasi Abogye, per tutti Abu, e Oscar Maggi. Sono stati tutti interrogati e poi rilasciati. Non è indagato nessuno invece per induzione al suicidio, per la seconda tranche ancora più misteriosa del mistero bresciano: la morte dell’operaio Giuseppe Ghirardini, che del forno Bozzoli era l’addetto: ritrovato il 18 ottobre su nella montagna bresciana, a Ponte di Legno. Con tracce di cianuro in corpo. “Non hanno in mano niente” è il commento più diffuso a Brescia. Polvere alla polvere, probabilmente Bozzoli è lassù in cielo tra le polveri sottili e pesanti sul cielo di Marcheno.

 

“Il cielo di Lombardia, così bello quando è bello”, scriveva Manzoni. Il cielo di Marcheno, 4.500 abitanti al centro della Val Trompia, un tempo tra i distretti più industrializzati d’Italia, è ancora più scuro. “La Val Trompia è luogo sacro ai bresciani” dice al Foglio Aldo Bonomi, grande imprenditore, già vicepresidente di Confindustria, ras dei rubinetti e delle valvole, fondatore di una delle dinastie del luogo. “In Val Trompia c’è il fiume, il Mella, e c’è il ferro, e qui si fanno le spade fin dalla notte dei tempi”. “E poi si fanno le posate, le pentole, i rubinetti”. Guardatevi in casa, controllate in cucina e in bagno: ogni posata o rubinetto o pentola – o fucile, o pistola – è fabbricato qui. “Il boom della Valtrompia corrisponde con il boom dell’industria bresciana”, continua Bonomi; inizia negli anni Sessanta e finisce verso la fine degli anni Ottanta”; nascono famiglie note e meno note; i “Ghidini, i Saleri, i Bonomi, i Leali; alcuni assumono un profilo nazionale: i Lucchini; i Gnutti”. Tutti vengono dalla Val Trompia.

 

La Val Trompia è l’inconscio bresciano. Arrivarci non è divertente. Saliti sulla statale 345, ci sono McDrive dove puoi mangiare in macchina, le tante rotonde offerte dagli armigeri locali, un palazzone a forma di castello della Inoxriv (posate), e poi si arriva a Gardone, città stato costruita attorno a quella che è la più antica azienda del mondo, la Beretta. Anno di fondazione 1526, mai cambiato né ragione sociale né famiglia di controllo: segni di possesso feudale (un’isola privata, l’unica, nel lago di Iseo), urbanistica da città-stato: ecco una palestra Iris Beretta, una rotonda sponsorizzata da “Beretta e dal consorzio armaioli italiani”, un termometrone Beretta che indica la temperatura (3 gradi, più caldo degli altri Natali) e poi la fabbrica storica Beretta, con un ponte in cui tu automobilista passi praticamente dentro la fabbrica.

 

Di questa Val Trompia (“di dove sei, della Val Trompia?” si dice a Brescia, e non è un complimento), Marcheno è un centro minore, e anche questo mistero è minore. A rebours. “Qui già dai tempi dei romani si lavorava il ferro” dice al Foglio Roberto Gitti, insegnante, ex sindaco per vari mandati, una vaga parentela coi Gitti più illustri, oligarchia bresciana che per anni ha seduto in consiglio comunale e in Parlamento, un Gregorio Gitti ha sposato la figlia prediletta di Nanni Bazoli, ma qui siamo in Val Trompia, è tutto minore, anche i cognomi.

 

L’ex sindaco, ora assessore ai Lavori pubblici, ci riceve nel moderno edificio comunale sullo stradone, appoggiato sulla valle, sembra una stazione di funivie, ma qui non si scia. Siamo a quattrocento metri, non è più pianura e non è ancora montagna. E’ la Twin Peaks bresciana. “Nello stemma del comune di Marcheno”, mi indica il sindaco, oltre alla stella e al fiume c’è una specie di grilletto. “E’ l’acciarino”, o cane, è quello che permette l’esplosione nell’arma da fuoco e dunque l’emissione della pallottola. “Invenzione introdotta dai bresciani nel Cinquecento, divenne standard in tutta Europa nel secolo successivo”.

 


Giacomo Ceruti (Milano 1698-1767), attivo per diversi anni a Brescia dove fu soprannominato il Pitocchetto, “Gli spillatori di vino” (collezione privata)


 

Di fronte al municipio, nella parte sinistra del paese, sorge una “Cascina Gallinazza, qui si fermò Leonardo da Vinci – mi dice ancora l’ex sindaco – in un viaggio documentato del 1508, per venire a studiare come si faceva la fusione del ferro e i forni fusori”. Qui a Marcheno oggi non c’è crisi, certo le armerie hanno risentito un po’ dell’embargo alla Russia, ma non c’è disoccupazione. L’unica disoccupazione che c’è è quella di chi non ha voglia di lavorare”. I valtrumplini ostentano una differenza antropologica. “Taiat so col podet”, tagliati giù col podetto cioè con la roncola, si dice, per dire di un carattere assai schivo. Lavorano, e basta.

 

Ricostruzione romanzesca del delitto: Mario Bozzoli, uomo-forno, ha visto delle cose che non doveva vedere. “Che sì dre a fa” (cosa state facendo), dice l’uomo-forno agli operai presenti quella sera, Oscar Maggi e il senegalese Akwasi Abogye, per tutti Abu. E Ghirardini. “Me l’ha dit i to niucc”, me l’han detto di farlo i tuoi nipoti. Screzio. Più o meno violento e virulento. Lo zio Mario finisce nel forno.

 

Non si sa se prima percosso o addirittura ucciso. A quel punto si ha la fumata anomala, fumata bianca tipo habemus papam. Papa Montini era nato a Concesio, paese di imbocco della Val Trompia. Nell’immaginario di questa storia la fumata anomala è centrale, ma la ciminiera è deludente, è una piccola ciminiera di acciaio inox.

 

“Me l’ha dit to niut” sarebbe cioè un ordine di fondere qualcosa che non andava fuso; anche questa è una teoria. “In realtà il business della fusione dei materiali ferrosi è enorme e soprattutto consente di evadere totalmente l’Iva, nessuno controlla la quantità di metallo che arriva coi camion”, dice al Foglio un ex poliziotto che conosce la zona. “Ma proprio perché il commercio e la trasformazione di ferraglia è diffusissimo e considerato normale, è difficile pensare che lo zio Mario si sarebbe potuto indignare e/o opporre”. Ancora meno credibile è che a finire nel forno e a far incazzare lo zio siano stati materiali pericolosi; “la gestione dei rifiuti radioattivi e speciali è enorme ma non gira da queste parti, è più una cosa della Bassa”, dice sempre l’ex poliziotto. L’idea più realistica è che lo zio Mario si fosse accorto che i nipoti, d’accordo con gli operai, rubassero lingotti già finiti, i famosi pani di ottone pronti da vendere (l’ottone è ovunque, non necessariamente è giallo, tutti i rubinetti sono d’ottone, anche se vengono poi cromati). Oppure pani di rame, altrettanto prezioso, derivati da altre fusioni. Bresciaoggi, altro quotidiano locale, ha scritto lunedì 28 dicembre che “quei furti, quelle sparizioni di barre di prodotto lavorato” per Mario erano diventati con ogni probabilità una sorta d’ossessione. “E in qualche modo ne avrebbe avuto anche la prova”. Secondo l’articolo a firma Mario Pari, un vicino ha testimoniato che il Mario Bozzoli per certificare i furti avrebbe ideato un timbro, “un timbrino di piccole dimensioni” che avrebbe apposto sui pani di rame, talmente piccolo da essere visibile solo a chi ne fosse a conoscenza, ma che avrebbe tracciato tutta la filiera delle ruberie, dei nipoti o di chi per loro. Secondo le voci che girano, erano anni che i dissidi erano insostenibili. “Prima o poi lo ammazziamo, lo zio”, è la frase che nessuno ha mai pronunciato ma che viene da tutti attribuita ai nipoti terribili.

 

Il Ghirardini, uomo-ombra del polverizzato Bozzoli, ha fatto con lui il militare. Hanno la stessa età, sono amici. Sono tipo il conte e il valletto di “Downton Abbey”: la vita li ha messi su piani diversi, uno padrone e l’altro operaio, son stati in guerra. Ma qui rispetto all’Inghilterra dei primi del Novecento le differenze di classe sono minori; e poi anche il Ghirardini è “di una famiglia di qua, storica, per bene”, dice un marchenese. Ghirardini è stato sfortunato nella vita, ha perso una sorella, una nipote si è suicidata. Aveva una moglie brasiliana che se n’è andata. Alla ex moglie brasiliana ha fatto molte telefonate prima di scomparire ed essere ritrovato suicidato. La ex moglie è poi giunta a Brescia, interrogata, in questi giorni. Il rapporto con la fabbrica è stretto: alla ex gli alimenti vengono pagati direttamente dalla Bozzoli srl (cosa piuttosto insolita, l’assegno è stato deciso direttamente dalla fabbrica, non dal magistrato). Ghirardini sta per rivedere il figlio di ritorno dal Brasile, se fosse suicidio il tempismo è davvero sospetto. “Era l’anello più debole, quello che ha visto tutto, sarà stato minacciato, non ha retto psicologicamente”, dice un marchenese, ma qui è chiaro che siamo nel romanzo criminale.

 

“Salve, ridente e placido / del lieto verde in seno / dei tuoi declivi fertili / salve, ospital Marcheno!”, scrive in un poema d’occasione un certo Menin nel 1913. Ridente e placido pare un po’ uno scherzo, anche all’epoca. L’etimologia del posto pare derivare da Marchesium, che significa palude, stagno. “Questa ipotesi appare la meno peregrina perché non sembra fuori luogo pensare che il fondovalle fosse un tempo un luogo acquitrinoso per il livello del fiume Mella”, si legge in un librone di storia locale. Se la Val Trompia è sacra, il Mella è il fiume sacro ai bresciani e in particolare a questa valle: ha alimentato le fabbriche locali per millenni, ha ricevuto i loro scarti (“ora è molto inquinato” dice l’ex sindaco).

 

Al cinema Sociale di Brescia in questi giorni danno “Irrational man”, l’ultimo film di Woody Allen dove un protagonista molto depresso decide di sbarazzarsi di un ostacolo umano col cianuro, ma poi un delitto se va in porto apre la strada ad altri, ed ecco un altro tentativo di delitto con spintone nel vuoto di un ascensore (sembra il plot del “Vedovo” di Dino Risi, e sembra un po’ la storia di Marcheno al contrario, anche in Allen c’è il cianuro, anche in Allen bisogna eliminare qualcuno che ha scoperto tutto; nel film con Alberto Sordi invece si uccide per un’eredità, ma lì il nipote è in combutta con uno zio. Sono alleati).

 

Che poi verrebbe da chiedersi perché la differenziazione e la successione aziendale si sia risolta nel presunto incenerimento dello zio-fratello-socio. Ci son fior di cattedre e professori che insegnano come cedere, scambiare, alienare quote, come nominare manager, come istruire rampolli. Era necessario il ricorso al forno? E’ l’anima nera della Valle? L’inconscio della fabbrichetta, che inghiottisce il suo imprenditore?

 

La fabbrica che ha inghiottito il suo imprenditore è facile da vedere: basta percorrere lo stradone principale, e sulla destra nella zona industriale ecco questa Bozzoli srl, classica costruzione lombarda, capannone riluttante che poi si trasforma in abitazione “signorile”, trentamila metri quadri giallini-beige e la fatidica ciminiera da cui l’8 ottobre sarebbe evaporato il padrone. I fatti son noti: serve un po’ di albero genealogico: la Bozzoli, 500 mila euro di capitale sociale, appartiene in quote identiche a due fratelli, Mario, lo scomparso-polverizzato, e Adelio Bozzoli. Il primo è riservato e schivo, è un maschio alfa valtrumplino secondo la ricostruzione di chi lo conosce. Niente passioni, si occupa della fusione. L’altro fratello, Adelio, è più estroverso. Anche lui è un omone dall’accento gutturale. Adelio tiene i contatti coi clienti e coi fornitori, è amico un po’ di tutti in paese, e in questi giorni si vede passare, continua ad andare a cena alla pizzeria “Le rondinelle” davanti allo stadio del Brescia (le rondinelle sono “i pulcini” della squadra locale). Ostenta sicurezza. “Se l’è stat lü, l’è pö brao de De Niro”, dice una signora nel centro del paese, in valtrumplino nel testo. Ma lui non è nemmeno indagato.

 

Sono indagati invece i suoi figli, perché in questa vicenda di polveri sottili e pesanti ci sono soprattutto dei figli, e delicate successioni. Secondo alcuni la fabbrica va bene, quaranta milioni di fatturato (“ma in realtà saranno almeno il doppio”, dice un conoscitore della materia, “da queste parti i bilanci sono una variabile indipendente, è il trionfo del nero”). Secondo altri, è destinata a fallire. Di sicuro non c’è comunione di intenti tra le due famiglie: Adelio vuole ingrandirsi, anzi si è già ingrandito: ha aperto una nuova sede a Bedizzole, altro frangente un po’ più soleggiato dell’agro bresciano, verso il lago di Garda, insieme ai suoi figli che – indagati – appaiono subito come valtrumplini primordiali, su di loro si concentra l’attenzione dei media. Alex vive proprio nella fabbrica, in una parte di capannone che inopinatamente si alza sulla destra e diventa casa a torre e castello. Gli uffici si ingentiliscono di balconate, e poi a un tratto si trasforma in torretta, casa a torre, abitazione del padrone. Terrazzini leggiadri, torretta con bifore, dei dondoli. Sui portoni i sigilli della procura di Brescia, e sotto, una Tipo dei Carabinieri e il fuoristrada. Nella puntata di “Chi l’ha visto?”, il programma che assolve funzioni di investigazione e naturalmente è stato qui, si vede Alex che traffica con dei fogli di carta e li strappa negli uffici. (“E’ tutto nero”, dice sempre un locale riferendosi alla fatturazione facile di queste latitudini). Il cielo invece è plumbeo, qui non ci saranno le polveri sottili ma c’è una nebbia scura e il cielo è pesante. Di fronte alla Bozzoli un cartello un po’ consunto che sembra uno scherzo: “United Colors of Benetton”.

 

Sotto il castello con la ciminiera, il fuoristrada di Alex. Sulle auto, volendo, si potrebbe fare un piccolo trattato di questa storia minore. Alex, il castellano della fabbrica, ha una moglie dell’est e una Mercedes Serie G lunga, un fuoristrada di derivazione militare, molto costoso, da appassionato, è quella che usava anche il Papa prima di cedere al pauperismo automobilistico, e usano i servizi segreti israeliani. Il fratello Giacomo ha invece una Porsche Cayenne bianca. Giacomo sembra una piccola evoluzione del ceppo Bozzoli: Giacomo “è più metrosexual”, dice un locale, è palestrato, abita a Soiano, posto middle class sul lago di Garda, anche lì villetta monofamiliare beige, ha una fidanzata, Antonella, che possiede una galleria d’arte in piazza Bruno Boni, a Brescia. Decodificando: il primo è rimasto l’uomo-fabbrica, il secondo forse tenta ibridazioni posh (piazza Bruno Boni, intitolata a uno storico sindaco di Brescia, è una corte sul corso Zanardelli, teatro dello struscio cittadino). Per singolare, macabra coincidenza, la galleria d’arte che si chiama Colossi, espone in vetrina due opere iperrealiste d’ottone, una grande ciliegia tipo Ferrero Rocher e un lucchetto. Tutto d’ottone: siamo tutti fatti della stessa sostanza dello zio Mario?

 


Giovanni Gerolamo Savoldo (Brescia 1480-1548), “Tentazione di san Girolamo” (particolare), conservato al Museo Pusˇkin di Mosca


 

Mario e l’Adelio non andavano d’accordo ma stavano (almeno un tempo) vicini vicini. Abitano infatti in un due ville attaccate, proprio comunicanti. Siamo in una rive gauche del fiume Mella, zona diciamo un po’ residenziale, dove abitano un po’ i maggiorenti, e soprattutto è comodo perché si vedono le fabbriche giù in basso. Una piccola Parioli valtrumplina con la solita incertezza edificatoria: cancelli elettrici, qualcuno con iniziali bronzee giganti (e però sempre il cognome prima del nome); tettoie un po’ tirolesi, nessuno si fa mancare la facciatina o il dettaglio di pietra a vista; i più poveri il portalino d’alluminio anodizzato, tra Val Gardena e Val Padana. Fa impressione perché ogni casa sul retro ha una specie di garage fuori scala, enorme, forse è una fabbrica in più, forse un garage capace d’ospitare tir.

 

La casa dei due fratelli-coltelli, sobria ma enorme, è un villone a due piani beige con vaste cancellate di ferro battuto, leziosi lampioncini; un neoclassico padano molto in voga da queste parti. A sinistra la parte del Mario, a destra quella del vivo, l’Adelio. Erba tagliata di fresco, e nessuna continuità tra le due navate; a sinistra lo scomparso o ammazzato, nell’ala destra Bozzoli Adelio. Finestre a mezz’asta. Dalla parte dello scomparso, un volpino che abbaia.

 

[**Video_box_2**]Nel 2009, qualche problema, qualche altra fumata strana: il cielo di Marcheno si ricopre di polvere dorata, è l’ottone. Goldfinger in provincia di Brescia. Oggi, di fronte alla fonderia, una palazzina di tre piani con orto, queste melanzane e questi pomodori son cresciuti con le polveri Bozzoli. “Ha bisogno?”, chiede la proprietaria su un monovolume, andandosene poi.

 

Il litigio con spartizione d’altoforno doveva essere nell’albero genealogico: “I Bozzoli non sono originari di Marcheno” – dice un conoscente – “bensì di Lodrino”, altro paesotto sulla stessa direttrice, armi, fiume, cielo bigio: “Il papà di Mario e Adelio si era stabilito a Marcheno tanti anni fa dopo una lite col suo fratello”, impiantando, o meglio replicando qui, come partenogenesi, la sua fonderia. I triumplini si spostano con la fonderia incorporata. Anche il villone dei fratelli, qui su, guarda la fabbrica e ha come un bubbone sul retro: altri capannoni. L’unico tratto peculiare del Mario era “el mal de la preda”, come mi dice uno del posto. “El mal de la preda”, “il male della pietra”, è l’ossessione dei capitalisti triumplini per la diversificazione e l’investimento immobiliare. Non solo il villino o villone, e la palazzina signorile anche se poi si dorme magari nel seminterrato, da queste parti vige ancora la scissione immobiliare. “Un appartamento di rappresentanza, coi parquet e i marmi e magari la cucina a induzione, e il divano di pelle incellophanato, perché poi si vive giù in taverna con la vecchia cucina economica alimentata a legna o gas”, dice un conoscitore dei luoghi.

 

Ma il Mario voleva differenziare veramente, e nello specifico puntare sui suoi figli che parevano più evoluti di quelli del fratello. Voleva acquistare uno studio dentistico, forse addirittura una clinica per il figlio Claudio, che si sta laureando, a Montichiari, vicino al lago di Garda. Anche il Mario era andato a stare al lago, a Soiano (è forse un caso ma tutte le tendenze evolutive dei Bozzoli guardano al lago, in contrapposizione a questa valle di nebbie). Sul villone di sinistra un citofono tenta di differenziarsi anche antropologicamente: “Bozzoli dott. Claudio”. L’altro fratello dei Bozzoli-bene studia, e la laurea da queste parti è un bene rifugio assai esotico. Forse a Bozzoli Mario non è stato perdonato il dirazzamento, l’imborghesimento.

 

Anche nella mancata spettacolarizzazione del giallo c’è la differenza antropologica. “Carlo Alberto Romano, criminologo bresciano, ha scritto che Brescia potrebbe diventare come Avetrana”, dice sempre l’ex sindaco Gitti, che conosce l’anima dei luoghi. “Ma qui la mentalità è diversa”. “In paese se ne parla poco. Il parroco don Maurizio quando è saltato fuori il caso ha fatto una strana omelia e ha aperto un ombrello, rosso, sull’altare, invocando l’aiuto divino contro le nuvole che si stanno addensando su Marcheno. Poi ha rifiutato ogni contatto coi giornalisti, si esprime coi comunicati-stampa”. Tutti molto sorvegliati, anche il riverbero sulla città, Brescia, del caso, è attutito, quasi felpato: i risvolti pittoreschi non vengono sfruttati: l’operaio Maggi, ex cantante di night, aria ruspante, non parla però con nessuno, non dà interviste. I magistrati sperano che qualcuno crolli, magari intercettato. Finora sono rimasti delusi.

 

Anche l’anatomopatologa più di moda, Cristina Cattaneo, non viene intercettata dai media. La dottoressa Cattaneo sta esaminando i trecento sacchi di rimasugli della fusione, cercando qualche traccia che riconduca al povero Bozzoli. “La Cattaneo non troverà nulla”, dice al Foglio una fonte investigativa, e da una parte fa impressione immaginare questa signora inginocchiata con un setaccio in cerca di qualche pepita di capitale umano. In questo Klondike bresciano, dove in altri tempi si cercava non l’oro ma il ferro. Per i setacciamenti, la fabbrica è stata sequestrata per tre mesi. Dovrebbe riaprire la settimana prossima, finalmente. Anche i sindacati hanno protestato: la ciminiera deve tornare a fumare (ma i Bozzoli han pagato le tredicesime, la cogestione valtrumplina va avanti).

 

“Il corpo è composto all’85 per cento di acqua” mi spiega un esperto, a parte queste ci sarebbero le ossa che potrebbero resistere agli 800 gradi del forno della Bozzoli (tarati per far sciogliere il rame e ricavare l’ottone); ma in questa fusione primordiale c’è un secondo stadio: i resti, come i grumi della polenta che da queste parti si mangia con lo spiedo, non vengono schiacciati con un cucchiaio, bensì messi in un macinatore, che ne fa poltiglia. Dunque se ossa vi sono, sono polverizzate, e trattasi di 7-8 chili di ossa, che possono stare in un sacchetto, e che potrebbero esser state sparse ovunque, nei campi, nel dio Mella, nel lago d’Iseo, in un cassonetto. Per quanto riguarda poi le scorie di ferro della fibbia della cintura, le avrebbero trovate sul fondo del crogiolo.

 

C’è poi il titanio, la protesi, la famosa protesi dentaria di titanio, bene rifugio che il Bozzoli aveva in bocca. “Dovrebbe essere venuta in superficie in quanto il titanio è più leggero degli altri metalli, dunque sarà stata frullata e macinata insieme agli altri resti”. “Se anche si trovassero tracce di calcio (ossa) tra quei sacchi – dice il cronista – sarebbe molto difficile ricollegarle a un profilo genetico”. Di qui la prudenza degli inquirenti, che guidati dal procuratore Tommaso Buonanno e dal sostituto Alberto Rossi non hanno arrestato nessuno: solo avvisi di garanzia, e interrogatori nemmeno per i quattro indagati. Naturalmente nella speranza che qualcuno si tradisca. Ma finora pare difficile. “Chiunque sia stato deve avere un pelo sullo stomaco così”, dice la signora Teresa, titolare dell’albergo Marcheno, unico hotel della Val Trompia, frequentato abitualmente dal Bozzoli Adelio, “ma non più, da qualche settimana”. L’hotel Marcheno, sullo stradone, a pranzo offre parcheggio ai soliti suv e casonsei, lo spiedo solo su ordinazione. Un giornale locale con ironia greve ha detto che Ghirardini, l’operaio suicidato col veleno, “aveva i casonsei al cianuro nello stomaco”, per via di queste esche simili in effetti a dei ravioli.

 

L’ex sindaco Gitti mi mostra, accanto alla fabbrica Bozzoli, una piccola centrale idroelettrica di proprietà della Beretta, che serve a rifornire gli stabilimenti della più antica fabbrica del mondo. Ma qui le armi sono il core business: accanto alla villa dei Bozzoli ecco un gran cartello “Rizzini B., fabbrica d’armi”; e in un antico volume emerge che i Rizzini, gli antichi Resini, sono dinastia almeno medievale, insieme ai Fausti e ad altre fabbriche-tribù qui fin dalla notte dei tempi. “Guarda – mi dice Gitti – un signore valtrumplino ugualmente spiritoso dice: qui, quello che si chiedono tutti è perché non si sia tirato una fucilata”. Qui, suicidarsi con una pasticca di cianuro, seppur esca da caccia, pare più che altro una provocazione, nella terra con più fucili dell’America di Obama.

 

Adelio in questa America bresciana si fa vedere in giro, Adelio ostenta sicurezza. “Ghét vést, som propes noàlter”, ha telefonato a un conoscente dopo l’accaduto. “Hai visto, siamo proprio noi!”, annunciando stralunato ciò che in paese ovviamente si era già saputo. E poi “col cuore in mano” usa come intercalare, “col cuore in mano”, “glielo giuro” dice alle telecamere di “Chi l’ha visto?”. Adelio, che della Bozzoli è un po’ un pr ed è solito mandare a maggiorenti e istituzioni bottiglie di champagne a Natale (quest’anno, non pervenute). “Mi secca anche un po’”, dice l’ex sindaco Gitti, colto power broker della valle, “perché ci aveva promesso ventinovemila euro per riparare la santella di fronte al santuario della Madonnina”, mentre ci porta in giro a vedere questa santella e ne narra la storia. “Questo santuario – dice Gitti – fu eretto dopo che un parroco nel 1608 volle accorciare il percorso della processione, perché pioveva, e la popolazione non gradì, dunque il parroco si prese un paio di archibugiate”. Nel luogo dell’avvertimento fu eretto questo sacro luogo: un saggio di psicologia valtrumplina. Adesso chissà se Bozzoli terrà fede al suo impegno con la comunità (lo spirito di comunità qui è forte, c’è un gruppo Alpini, non c’è bisogno di scrivere cartelli a proposito di radici cristiane come nella vicina Pontoglio perché qui oltre alle tre chiese ci sono più presepi che cassonetti. La sera della vigilia, di fronte alla chiesa principale, in un avallo che scende verso il dio Mella, dopo la messa il parroco deposita il Bambinello nella culla sull’argine del fiume come in un rito pagano, restituendo l’umanità al Fiume e al suo ferro e ai suoi detriti.

 

Ci sono le teorie escapiste, la negazione. “Sarà una banda di moldavi o rumeni, quelli sono diversi da noi”, dice un signore verso la zona industriale. Qui ogni giorno c’erano camion targati Romania o Napoli che andavano e venivano”, dice un locale, e anche mentre si scrive, vigilia di Natale, di fronte a casa Bozzoli c’è un camion targato Romania, e un vecchio pullman con targa tedesca, ma chissà cosa vorrà dire. Romania o Napoli, come esotismo criminale sono lo stesso, da queste parti. Però il fatto è che la Val Trompia, che infiniti pani di ottone e infiniti fucili produsse ai bresciani, ha la sua bella anima nera. “Criminalmente effervescente da sempre” mi dice un investigatore. “Con una caratura criminale sempre sottovalutata”. “Essendoci stati sempre soldi, la valle è sempre stato un crocevia di criminalità: prima qualche cosca calabrese installatasi felicemente nella valle, poi le bande di albanesi. Ma anche figure come Beppe Strambini, il boss dei boss valtrumplini, specializzato nei colpi ai bancomat e capo delle famiglie valtrumpline. O Gianfranco Ferrari detto Franchino, ufficialmente demolitore di auto a Ponte Zanano, Val Trompia, in realtà boss del traffico di auto rubate, riparato in Sudamerica. A Santo Domingo i boss valtrumplini avevano messo su un hotel Brescia in onore della patria lontana”.

 

“La Val Trompia ha due caratteristiche”, dice al Foglio Paolo Corsini, senatore del Pd, autore di una “Storia di Brescia” per Laterza. “La laboriosità, che però quando diventa religione del lavoro e poi si secolarizza diventa competizione senza freni”. Tutte le grandi aziende bresciane sono nate qui in questa valle. Sono storie di piccoli imprenditori che escono dal laboratorio e poi mettono su la fabbrica. Certo il rischio è che a fronte di tanto sacrificio e tanta laboriosità “l’amore per la roba diventi sviscerato. C’è uno spirito appropriativo molto forte”.

 

[**Video_box_2**]Il centro di tutto, dice Corsini, è la famiglia, “non solo come luogo degli affetti ma anche come luogo degli scambi. C’è una dinastizzazione delle famiglie della Val Trompia”, che paiono riprodursi per partenogenesi (i Gnutti per esempio sono tantissimi, ci sono per esempio i Gnutti detti “peste”, i Gnutti “fretadì”, frittatina, con soprannomi che diventano quasi predicati nobiliari a seconda del business e del carattere di questo capialismo tribale. Man mano che l’impresa si ingrandisce però si tende ad abbandonare la Valle sacra. “Si assiste a una pianurizzazione della fabbrica”, dice sempre Corsini. “E’ un fenomeno strutturale: da una parte si va dove si può avere l’accesso al credito, alle banche”. Dall’altra si va dove ci sono strade e autostrade, e non la strada delle tre valli perennemente intasata. Poi c’è la crisi del modello Val Trompia, perché negli anni non si è fatta innovazione di processo, ma solo di prodotto. Così per esempio il mondo della posateria è in crisi, basta che un cinese ti copi un modello ai suoi costi e tu sei fuori dal mercato”.

 

Anche l’imprenditore Aldo Bonomi ha aperto a Gussago, più giù, verso la città, la nuova fabbrica (il premier Matteo Renzi è andato a inaugurare il nuovo stabilimento). I nipoti Bozzoli forse si volevano pianurizzare anche loro. La nuova fabbrica, enorme, è sulla tangenziale che va verso il lago di Garda, doppia corsia, autovelox con tutor. Lasciandosela alle spalle, pochi minuti dopo si vede la mole colossale dell’inceneritore, vanto bresciano architettonico, che continua a fumare le sue polveri. La sua bellezza si paga, Brescia è città con tanta diossina e tanti veleni nei suoi cieli, l’inceneritore più chic d’Italia assorbe ottocentomila scorie ma ne produce 179 mila, e le polveri sottili o pesanti attanagliano la Leonessa d’Italia che però non produce romanzi né storytelling sui suoi mali, non siamo mica a Taranto, qui i panni si lavano in famiglia, anche se i panni fuori è meglio non metterli, perché diventano grigi. State in casa, se potete. Non piove da due mesi, e il sindaco ha vietato le euro3 diesel, ha fatto abbassare i riscaldamenti, forse metterà le targhe alterne. Perché non si respira, e le particelle velenose si disperdono in una nebbia che non si ricordava da anni. Accanto alla Bozzoli ecco un’altra ciminiera, quella dell’Alfa Acciai, che recita a caratteri cubitali un cartello rassicurante: “Vapore acqueo”.

 

“Un déjà vu industriale”, mi dice un vecchio cronista davanti a un Pirlo, la versione bresciana dello Spritz, ricordando come la morte per altoforno fosse stata protagonista di un altro delitto bresciano, non un cold case ma anzi un caso caldissimo: il 16 dicembre del 1992 infatti a Caionvico, non valle ma Bassa pianurizzata, l’imprenditore Claudio Cominelli gettò nell’altoforno il fratello Walter. Fu scoperto, arrestato, condannato, scappò, non venne più preso. Lì infatti rimasero tracce biologiche – un pezzo di scatola cranica attaccato a un soffitto. Lì, infatti, si era avuta almeno la buona creanza di sparargli, prima.