Maurizio Sarri, tuta & computer
La gavetta e gli anni ingannano: c’è del metodo in Sarri. E il Napoli con lui in panchina è diventato un laboratorio del calcio moderno, la personificazione di una scuola di pensiero calcistico che mette al centro il gioco. Non è una questione di essere migliori o peggiori, è che i cicli del calcio sono fatti di allenatori comunicatori e di allenatori allenatori. E intanto è campione d'inverno.
Maurizio Sarri adesso. Da celebre, forse di più: da esempio. Perché funziona così: si parte con lo scetticismo, perché indossa la tuta, perché è arrivato al calcio dei grandi a 56 anni, perché non si sa se ha lo spessore per gestire Napoli o qualche altra città del genere, perché non ha mai guidato finora una squadra che lottava per vincere il campionato (a eccezione di quello di B). Si arriva alla mitologia, ovvero al renderlo grande esattamente per gli stessi motivi: perché indossa la tuta, perché è arrivato al calcio dei grandi a 56 anni, perché non si sa se ha lo spessore per gestire Napoli o qualche altra città del genere, perché non ha mai guidato finora una squadra che lottava per vincere il campionato.
Il calcio oscilla senza grandi scossoni tra incertezze e certezze, sempre molto assolute. Boccia, promuove. Quindi Sarri era Sarri che dalla provincia rischiava di bruciarsi. Quindi Sarri è Sarri che dalla provincia ha dimostrato che non ci si brucia. Esempio, appunto. Invece Sarri è Sarri perché il Napoli gioca bene a calcio. Primo in campionato con quarantuno punti, due in più delle seconde (Inter e Juventus); miglior attacco, la seconda miglior difesa, il capocannoniere della A in squadra. A metà stagione ha la possibilità di vincere il campionato, di vincere la Coppa Italia, di vincere l’Europa League. Numeri e fatti. Ovvero sostanza: ciò che la tuta che indossa rende fenomeno di costume esportabile nel mondo delle leggende diventa vero, reale, tangibile. Perché quello è lui, cioè Sarri. Uno che si tocca, che si sente, che si vede. Uno che parla: “Sono contrario a questi sette giorni di riposo. Non c’è uno sportivo che sta fermo per sette giorni. Mi sembrerebbe giusto dare spettacolo ai tifosi, che in questo periodo hanno più tempo. Avrei preferito non fermarmi, come in Inghilterra e come ho fatto in serie B”. Sembra poco, è molto. E’ più di quanto solitamente si dica in un dopopartita. E’ un momento nel quale l’allenatore del Napoli dà molto. Parla dei singoli, parla delle giocate, parla delle cose che funzionano e di quelle che non vanno. L’età, o forse l’età non c’entra ed è qualcosa che ha a che fare con il carattere, gli ha tolto i fronzoli da luogo comune. Si presenta in zona mista per dire qualcosa. Oggi il suo intervento in diretta è atteso, lo senti dal numero di volte che viene annunciato: “Tra poco sarà con noi Maurizio Sarri”. Quindi aspettate, non andate via. Il che è strategia di mercato, visto il numero dei napoletani davanti alla tv, ma è anche attesa di una parola, di un’idea, di una lettura, di un’interpretazione.
Sarri è oggi il rappresentante del campo. Cioè: la personificazione di una scuola di pensiero calcistico che mette al centro il gioco. Non è una questione di essere migliori o peggiori, è che i cicli del calcio e della sua evoluzione mediatica inevitabilmente sono fatti di allenatori comunicatori e di allenatori allenatori. Sarri sta qui ed è perfettamente calato nella realtà del pallone di oggi. Quindici anni fa sarebbe tutta la retorica della tuta, della provincia, della gavetta, l’avrebbe messo nel catalogo del pallone un po’ nostalgico. Com’è che era quella storia? Ah, sì: pane e salame. Sinonimo di genuino, di sincero, di facile. Ovvero il contrario degli scienziati, dei ricercati, di quelli che usavano tecnologia, staff, scienza, metodo. Il calcio contempoeaneo ha aggiornato i suoi cliché, non è stato ancora in grado di cancellarli, ma quantomeno ha accantonato l’equazione provincia uguale semplicità. Sarri è il risultato. E’ la scienza, è il campo, è il metodo, è lo staff, è la tecnologia. Quindi tutto. Ovvero la preparazione. E’ la sintesi possibile di ciò che fino a poco tempo fa veniva vissuto come distante. Napoli è stata l’incubatrice di una novità che non è per niente nuova, ma che aveva bisogno di rinascere per essere considerata degna. Perché è inevitabile, questo. Lo sa anche Sarri: arrivare in una grande città e in una grande del calcio significa per forza ricominciare quasi da zero. Troverai le stesse storie e domande alle quali pensavi di aver già risposto in abbondanza: quindi quella dell’ex bancario che una volta si divideva tra l’ufficio e gli allenamenti. Si occupava per il Montepaschi di transazioni fra grandi istituti, sono passati quasi 15 anni da quando ha smesso. Ha lavorato a Londra, in Germania, Svizzera e Lussemburgo. “Poi ho scelto come unico mestiere quello che avrei fatto gratis”, dice spesso. “Ho giocato, alleno da una vita, non sono qui per caso. Mi chiamano ancora l’ex impiegato. Come fosse una colpa aver fatto altro”. La realtà è che non ce la faceva più, perché provate voi insomma. E soprattutto aveva capito che col calcio poteva campare. Aveva 40 anni e allenava in C. A Paolo Tomaselli del Corriere della Sera un po’ di tempo fa ha detto: “Il passo non è stato facile, ma la famiglia era d’accordo. La serie A adesso la vedo come un completamento e non mi fa molto effetto: il mio obiettivo vero era quello di fare della mia passione un lavoro e ci ero già riuscito. Di certo il calcio non è tutto uguale, ma non è detto che le emozioni e le soddisfazioni interiori siano più grandi se si sale di categoria”.
A Napoli comunque ha capito la differenza. Perché non è Empoli. Perché se vai dove si può vincere ma non si vince da una vita, riuscirci ti può far sentire come mai prima. Cambia anche il campo. E qui c’è tutto, probabilmente. Qui c’è la chiave. Qui c’è il Sarri di adesso oltre l’esempio. Perché ha cambiato. Perché ha fatto ciò che molti non si aspettavano e ciò che molti allenatori non fanno. Succede sempre: appena trovi un tecnico con un carattere al di sopra della media, che risponde alle domande senza ammiccare, che non dà ragione all’interlocutore solo perché è più facile e si fa prima, si pensa che sia un dogmatico. E’ l’effetto Zeman che ha tradito molti allenatori e pure molti giornalisti, certi che la convinzione nelle idee e nelle capacità di un tecnico si misuri sulla sua testardaggine nel non cambiare uomini, modulo e scelte. Così Valdifiori avrebbe dovuto essere il totem intoccabile del sarrismo. Il centrocampista attorno a cui ruotava tutto il gioco dell’Empoli e che Sarri aveva chiesto di portare a Napoli. Ha provato a metterlo al centro del suo sistema anche quest’anno. L’ha provato. Non funzionava come aveva immaginato. Poi ha dovuto scegliere: tenerlo dentro per non venire meno alle convinzioni teoriche o cambiarlo modificando in parte il modo di giocare del Napoli. E’ andato sulla seconda. Perché il campo viene prima della teoria e soprattutto prima del tenere il punto nei confronti della critica.
Gli effetti del cambio, di cui Valdifiori è l’aspetto più visibile, li ha spiegati bene Alfredo Giacobbe: “ Sarri era un fautore del 4-2-3-1, prima di ottenere i successi di Empoli con la formula del rombo di centrocampo. La rinuncia al 4-3-1-2 in favore del 4-3-3, coincisa con l’inizio di una serie positiva lunga 16 partite con soli quattro gol incassati, ha permesso a Sarri di schierare i suoi uomini migliori, come Insigne e Callejón, in posizioni di campo a loro più congeniali. Nulla di più, perché i principi tattici cari all’allenatore toscano non sono cambiati. Il rombo è scomparso sulla carta, ma non nel gioco: sia che si sviluppi l’azione sulle fasce o in zona centrale, il Napoli cerca sempre di portare quattro uomini in zona palla. Un lavoro faticoso per gli interpreti, ma fruttuoso per la generazione di quella superiorità numerica che permette di avere la meglio nel palleggio. Un terzino prova sempre ad accompagnare la manovra offensiva, solo quando l’azione si sviluppa troppo velocemente l’ampiezza è data dal movimento ad allargarsi dell’interno di centrocampo. In entrambi i casi al difensore resta l’onere della scelta: stringere in mezzo per seguire il contromovimento dell’ala o restare largo sull’interno? Il Napoli è una squadra contro la quale è complesso difendere, perché attacca contemporaneamente in profondità e in ampiezza. Giocare col 4-3-3 e sviluppare il possesso in fascia ha provocato un effetto collaterale importante, ovvero quello di riuscire a isolare la propria ala e il terzino avversario sul lato debole, in un pericoloso uno contro uno attivato da un cambio di gioco, una delle situazioni per le quali Jorginho si è fatto preferire a Valdifiori a inizio stagione”.
Sembra tutto molto complicato, ma è tutto decisamene semplice. Perché l’alfa del ragionamento non sono le scelte tattiche, né il sistema di gioco, ma la disponibilità al cambiamento. E’ la modernità di Sarri, questa. La dimostrazione empirico-reale di quanto l’immagine che ha e il calcio che rappresenta non siano immediatamente sovrapponibili se usiamo schemi e interpretazioni del passato. E’ un calcio ultramoderno, il suo. Soprattutto è un approccio ultramoderno. E’ futuro, non passato. E’ anti-nostalgia. E’ cultura di un lavoro che passa sul campo, nei taccuini, nel computer. Quando gli chiedono che cosa faccia dopo gli allenamenti, Sarri risponde così: “Leggo, poi lavoro al computer, fino a tardi”. Studia video e dati. Prepara ogni giorno della settimana in maniera diversa. E’ l’argomento della tesi con cui è diventato allenatore al supercorso per la licenza Uefa da allenatore di prima fascia. L’avevamo citato l’anno scorso e vale la pena ricordarlo. Perché comincia così: “Quasi tutti gli allenatori prima o poi hanno parlato del loro modulo preferito o delle loro idee dal punto di vista tattico, ma molto raramente mi è capitato di leggere come vanno a preparare la partita: sia materialmente sul campo sia fuori dal campo. Io ritengo che in un calcio sempre più preparato dal punto di vista tattico e fisico sia di fondamentale importanza andare a predisporre tutte le singole partite nei minimi dettagli. Nei capitoli successivi che rappresentano le mie giornate lavorative, vado ad esporre la mia settimana di lavoro, iniziando dal come cerco di fare ‘l’analisi della partita’ appena giocata, passando poi al come studio i prossimi avversari e finendo sul come vado a preparare la prossima partita materialmente sul campo. Visto che la mia curiosità sul conoscere come le partite sono preparate dai vari allenatori non è quasi mai stata soddisfatta, ho scelto di mettere la mia piccola esperienza a disposizione di coloro che sono mossi dal mio stesso interesse su questo argomento”.
Quando lavori in una piccola società sembra che l’organizzazione sia una mania. Quando lavori in una grande per qualcuno è una difesa dalla personalità dei giocatori. Doppio errore. Perché è necessità in entrambi i casi. E’ metodo, è analisi delle caratteristiche proprie di ciascun giocatore, è una dieta personalizzata per ognuno a seconda del ruolo e dei compiti, è allenamento ad personam oltre che di squadra. Sarri dice quello che altri non riescono a dire: “Higuain è il giocatore più forte che abbia mai allenato”. Facile? Il contrario. Dice anche altro: “Ho la squadra più leggera del campionato, spesso soffriamo la fisicità degli altri. Quando giocavo a Figline ho avuto la fortuna di essere allenato da Kurt Hamrin. Troppo buono per fare questo mestiere. Uccellino lo chiamavano. Ma quando tirava le punizioni dal limite ci faceva vergognare, le infilava tutte nel sette. La velocità, soprattutto mentale, oggi è più elevata. Ma non esageriamo con la forza. C'è da giocare a calcio, avrebbe detto mio nonno, mica da scaricare un camion”.
Altro ancora? Arriva: “Dico la verità, non vedo una grande relazione tra le qualità tecniche e gli stipendi: ci sono calciatori che guadagnano più di quanto meritano e non mi riferisco a quelli del Napoli. Differenze tra i giocatori? Questi sono ragazzi di 25 anni a Napoli, come a Empoli, come nelle squadre di serie B. Cambiano i contorni e le risonanze, restano ragazzi di 25 anni tuttavia. Io sono in grado di parlare con chiunque, la paura non fa più parte delle mie sensazioni. Poi ci vuole intelligenza nei discorsi e nelle situazioni". Intelligenza per lui è dare un peso diverso a quello che può accadere. Per esempio, quando una sera ha tolto Insigne e lui uscendo dal campo s’è lamentato della sostituzione, Sarri non ha detto né “mi ha mancato di rispetto”, né “scusate non ho visto”. A domanda ha risposto: “Chiederà scusa ai suoi compagni, è con loro che ha sbagliato. A me non importa il resto”.
Spiazza, Sarri. Le convinzioni e le convenzioni. Compresa la possibilità di farla facile sul suo tifo da bambino per il Napoli. Tutti, all’inizio di campionato, volevano fargli dire la cosa più scontata: che da nato sotto al Vesuvio e tifoso del Napoli non poteva che sentirsi figlio di quella città nella quale il destino l’aveva portato ad allenare. “Non mi sento toscano, lo sono. Quella passione per la squadra ho continuato ad averla dentro; per la città è stato diverso perché ho vissuto altrove”.
Lascia fuori dalla porta le certezze degli altri. Cioè: se ti presenti da lui convinto della tua idea di Sarri lui ti sorprende. Nel modulo, negli uomini, negli schemi, nel gioco e con le parole. Per questo è il caso. Per questo lo aspetti alla fine delle partite. Per questo è un alieno, come l’ha definito Michele Dalai prendendo in prestito la definizione che Sandro Modeo fece di Mourinho. Chi è il miglior calciatore in Europa? “Troppo facile dire Messi o Ronaldo. Ne dico uno bruttino da vedere: Thomas Müller”. Higuain non c’è. Non significa che non ci sia. Anzi.