Il corpo dell'uomo
Da quando l’agender con i suoi volti dal sesso indistinguibile è entrato a far parte dell’universo lessicale della Treccani, ma strade e piazze si sono riempite di barbe folte che neanche Garibaldi a Teano, la rappresentazione del maschio si sta rivelando carica di insidie quanto e più della sessualizzazione selvaggia e della bieca mercificazione di cui sarebbe oggetto l’immagine della donna occidentale secondo alcuni media nazionali, insieme con la sua ostinata e inspiegabile volontà di non ribellarsi a questo servaggio ma a sfruttarlo. Per questo, è facilmente comprensibile che per l’edizione di Pitti Uomo in apertura martedì a Firenze, il team programmatico guidato da Lapo Cianchi e da Agostino Poletto si sia tenuto alla larga dalla proposizione del tema unico che ha caratterizzato ogni appuntamento fiorentino da vent’anni a questa parte, per scegliere invece un tema inclusivo, quasi pontificio: “Pitti generations”.
Evviva tutti: volpi grigie con le guance gonfie di filler all’acido ialuronico sui jeans a vita bassa, ventenni con la barba da patriarca vittoriano e il gilet di velluto arancio, discepoli entusiasti di ogni tendenza con lo chignon stretto sul capo e i sandali di pelliccia, modaioli di pretesa culturale pennellati nei completi neri, fieri assertori della mascolinità della gonna perché basta guardare i bassorilievi sumeri. Era infatti diventato impossibile dare una linea, esprimere in una sola tendenza l’inestricabile mescola di jeans stazzonati ad arte, di completi in cachemire da fighetta ambiziosa (nella definizione advertising oriented delle riviste specializzate e degli inserti dei quotidiani: “dandy contemporaneo”), di piumini tecnici di incredibile insipienza e di camicie in flanella da boscaiolo dei giardinetti sotto casa che figurano come il naturale completamento delle barbe e che affollano da tempo la Fortezza da Basso di Firenze. Come nella questione delle unioni civili, prendere una posizione netta avrebbe potuto rivelarsi pericoloso, anche perché c’è un business da difendere e possibilmente da sviluppare. Dunque, Pitti ha allargato ecumenicamente le braccia all’universo mondo e spostato l’asse semantico sulla moltiplicazione dei generi, delle età e delle preferenze: chi siamo noi per giudicare.
Espositori e compratori continueranno a fare serenamente quello che hanno sempre fatto, cioè a ordinare e vendere scarpe, piumini e maglioni secondo il loro gusto personale e l’abilità dei loro laboratori e da qualche tempo ne arrivano anche dall’Iran, di bouticcari interessati ai nostri manufatti di semi-artigianato e al nostro abbigliamento formale (si fatica a immaginare come possibile lo shopping a Teheran perché i media europei non raccontano quasi mai dei paesi dilaniati dalle guerre o dai conflitti etnico-religiosi fatti che esulino dal conflitto stesso, ma a Pitti si incontrano compratori anche dai paesi del centro Africa, in testa la Nigeria dove Boko Haram va costituendo un’ enclave, e sono fra i più eleganti). Giornalisti e cercatori di tendenze potranno invece almanaccare liberamente sul significato dei “trucchi da uomo” di Pampaloni, sui magici rapporti fra orlo dei pantaloni e seduzione della caviglia maschile secondo il calzaturiere Doucal’s ma anche sulle origini dei video di centinaia di occhi spalancati o ammiccanti installati da Pitti un po’ ovunque sul percorso fieristico per dare un senso a tutti quei capi disparati e una rilevanza iconica al tema multi-generazionale. Nel cinema, la moda ha infatti scoperto da poco di poter giocare un ruolo più significativo di quello del fornitore del reparto costumi, e video e mini-film sono il fenomeno mediatico del momento. Quelli di Pitti sono stati prodotti da Max Brun, nome storico della cinematografia pubblicitaria del largo consumo, che da qualche anno si è affacciato sul palcoscenico della moda portandovi registi di caratura mondiale, come Roman Polanski per Prada, e infatti taglio e montaggio dei filmati sono giocosi, luminosi, lontani da certe pose modaiole che, di questi tempi, paiono più asfittiche che innovative, ed evocano riferimenti condivisi e accessibili come Buñuel, Orwell, Toscani. Rappresentano, ancora, quel mix inclusivo e trasversale che Pitti ritiene necessario offrire nella Fortezza da Basso, riservando nomi e suggestioni di tendenza agli eventi, come per esempio lo stilista sudcoreano Juun. J, alfiere creativo del paese che, messa in mora la Cina e le sue fluttuazioni borsistiche, sembra quello di maggiore solidità economica e interesse ancora fresco nel mantra dell’artigianato italiano.
E poi, ognuno prenda quel che vuole, come peraltro già fa. La convinzione che la moda maschile interessi una percentuale maggioritaria della popolazione è ampiamente sopravvalutata: ogni rivoluzione vestimentaria maschile, perfino quelle entrate nella storia del costume come l’adozione dei pantaloni lunghi o delle casacche sui jeans a zampa di elefante, ha richiesto tempi di assimilazione epici e come nel caso degli hippie anni Sessanta ha interessato una percentuale minoritaria della popolazione occidentale, pur lasciando tracce indelebili nei comportamenti.
La realtà della moda maschile di oggi sembra poi sfuggire ad ogni classificazione almeno quanto i maschi stessi, tanto che, mentre Poletto tenta un difficile inquadramento sociopsicologico della questione (“questa è un’epoca in cui l’età si rivela sempre più uno stato mentale che anagrafico”), le sartorie maschili più attente hanno deviato la comunicazione delle nuove collezioni su temi lontani da quello dell’identità e del ruolo, entrambi sempre più fluidi e controversi, per concentrarla sulla fattura dei capi, i luoghi e le atmosfere in cui vengono prodotti. Dunque italianità, sartorialità, bellezze paesaggistiche, teste chinate e mani al lavoro, con una buona sceneggiatura ad allontanare lo spettro del filmato aziendale fantozziano.
Il taglio della docu-fiction è quello che va per la maggiore. Caruso ha ingaggiato Giancarlo Giannini per la seconda puntata della saga “The Good Italian”, rispolverando la storica Lancia Aurelia del “Sorpasso” di Dino Risi pernacchia esclusa e buone maniere incluse, mentre Isaia ha riservato il teatro della Triennale di Milano per presentare, durante la fashion week maschile, un mini-thriller che prova a smontare l’equivalenza fra Napoli e malaffare. Dirige Gianluca Migliarotti con Paola Verrazzo nel ruolo del commissario, sceneggia la pubblicitaria Paola Manfrin, che nelle pieghe dell’inchiesta infila lessico e segreti della sartoria napoletana e vi fa recitare anche buona parte della famiglia e dei dipendenti Isaia, di cui un paio si rivelano attori niente male: “Ci è parsa una modalità nuova per celebrare i venticinque anni dell’azienda all’estero dopo altrettanti trascorsi nell’affermazione nazionale”, dice Gianluca Isaia, anche lui conscio, come il proprietario di Caruso, Umberto Angeloni, che l’unico modo per tenere salda la rotta in anni turbolenti come questi, e non solo dal punto di vista economico, sia di non farsi incantare dalle sirene del cambiamento a ogni stagione.
[**Video_box_2**]Angeloni va a caccia di gentiluomini o aspiranti tali adeguando le proporzioni dei capi alla fisicità delle nuove generazioni e le funzioni del cappotto di cammello dei nostri nonni a esistenze meno stanziali e meno formali. Isaia rilegge i propri archivi, rielabora lo storico motivo della spina di pesce e concede un po’ di più alla “peacock revolution”, la rivoluzione dei pavoni che fra la fine degli anni Sessanta e i Settanta del Novecento riempì prima le vetrine di Carnaby Street e poi le strade di mezzo mondo di giacche di velluto, camicie di seta a fiori e di un pastiche stilistico afro-asiatico al profumo di cannabis. Fu la prima spallata all’immagine del maschio tutto d’un pezzo, anzi nel completo due pezzi grigio o blu, che dominava da oltre un secolo con poche varianti, i critici gridarono alla decadenza dei costumi, paventando i risultati dell’innesto fra l’immagine dei “capelloni” in camicia di seta a fiori e il primo movimento di liberazione gay. Fu, anche, la prima volta in cui l’immagine del maschio, la sua adeguatezza all’evoluzione della società venne messa in discussione e già nel 1972 lo psicologo John Money ipotizzò su Time la separazione fra identità di genere e sesso biologico, secondo le stesse logiche che, dopo gli Ottanta colorati e muscolari e i Novanta della scoperta etnica, sono esplose adesso, innestandosi però in una società occidentale che, attaccata da più parti, vive ancora più ambiguamente e con violenza le proprie contraddizioni e i propri pregiudizi. Scinderli e categorizzarli è quasi impossibile. Si va dai luoghi comuni sull’equiparazione fra bellezza e inconsistenza intellettiva (questo, bisogna riconoscerlo, distribuito equamente fra i sessi) passando per i dati deliranti diffusi su internet da presunte vittime di misandria in merito alla certezza della pena che attende il maschio uxoricida rispetto all’indulgenza riservata alle mogli che uccidono il compagno, fino alla banalità analitica sulla moda femminile che, essendo disegnata perlopiù da uomini, non terrebbe conto della sue forme naturali mirando invece a deformarle, come se le donne non avessero mai avuto la possibilità di scegliere a chi ordinare i propri abiti (almeno questo è stato loro concesso da sempre, mi pare) e stiliste come Alessandra Facchinetti non avessero invece tentato di rivedere il corpo femminile secondo il proprio ideale estetico riportando sia da Gucci sia da Valentino giudizi e dati di vendita a dir poco discutibili.
Ma se un paragone fra i pregiudizi che toccano entrambi i sessi mi sembrerebbe computistico e sebbene mi paia che gli argomenti agitati dall’Espresso della scorsa settimana sulla difficile “condizione femminile nel 2016”, e cioè “mercificazione, fanatismo, pregiudizi, carriera, guerra” siano largamente applicabili anche ai maschi e vi aggiungerei il macigno dell’identità, sono disposta ad ammettere che almeno in termini quantitativi le nefandezze praticate sul corpo delle donne siano di gran lunga maggiori rispetto a quelle che aspettano al varco i maschi nel mondo di oggi. Con un’eccezione che, per tornare al tema, è proprio quello della rappresentazione di sé attraverso la moda e le scelte nell’abbigliamento. Nessuno, per estremizzare, si sognerebbe ormai di mettere in discussione il diritto di una donna a portare i pantaloni o ne metterebbe per questo in dubbio le preferenze sessuali. Non accade più nemmeno in Iran dove infatti le ragazze ne indossano per strada di aderentissimi sotto gli impermeabili nemmeno troppo lunghi. Da giorni, invece, il web trabocca di articoli sulla scelta di Louis Vuitton che, peraltro buon ultimo nella compagine del colosso LVMH ma d’altronde è il marchio mainstream del gruppo e certe sperimentazioni già concesse a Givenchy non avrebbe potuto permettersele senza un possibile consenso diffuso, ha scelto il figlio diciassettenne di Will Smith e Jada Pinkett, Jaden, come protagonista della nuova campagna donna, fotografato da Bruce Weber insieme ad alcune modelle. Il ragazzo, slanciato e flessuoso e quasi indistinguibile dalle colleghe, indossa naturalmente la gonna. Ma non per l’occasione: lo fa abitualmente, quando gli gira, quando “he feels like it”, e senza nemmeno cercare lo scandalo come faceva George Sand quando si infilava in un paio di pantaloni quasi duecento anni fa. E’ fidanzato con una modella più grande e almeno fino a oggi più famosa di lui, Sarah Snyder, e difende la sua libertà di indossare ciò che vuole, senza che questo determini il suo orientamento sessuale. Non è il solo, visto che, escludendo gli adepti al kilt scozzese come Sean Connery, indossano gonne un campione di mascolinità esibita come Vin Diesel o interpreti dell’ambiguità da spettacolo come David Bowie, e nessuno di loro sembra voler emulare le donne.
In una società libera dai pregiudizi come si chiede per le donne, un uomo con la gonna non dovrebbe fare notizia o valere una riga di dibattito. E invece, eccoci qui tutti a discettare per pagine e pagine, “orientandoci con la moda che passa, rifacendoci alla cultura di massa, avendo sempre un’opinione, sottoscrivendo la protesta e spiegando la situazione”, che era quanto scrivevano Ennio Flaiano e Federico Fellini nel 1958, e finendo comunque per assomigliare, anche nel 2016, a quei conformisti che, sotto sotto, continuiamo tutti a voler essere.
Il Foglio sportivo - in corpore sano