Il Papa con la kippah
Sono sempre stato immune alla vulgata che lascia intendere cose straordinarie di Bergoglio e gli ebrei”. Sergio Yitzhak Minerbi, il maggiore vaticanista israeliano e fra i maggiori studiosi dei rapporti ebraico-cattolici, mette subito le mani avanti, alla vigilia della visita che Papa Francesco compirà alla grande sinagoga di Roma. Nel 2013, il Collegio dei cardinali elesse Papa un uomo da sempre impegnato nei rapporti ebraico-cattolici, il cardinale Jorge Mario Bergoglio. Come arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio ha celebrato Rosh Hashanah e Hanukkah nelle sinagoghe, ha espresso solidarietà alle vittime ebree del terrorismo iraniano in Argentina e scritto un libro con un rabbino, Avraham Skorka. Ha partecipato alla commemorazione della Notte dei Cristalli, l’ondata di attacchi nazisti contro gli ebrei nel novembre 1938. Ma a ridosso della visita alla sinagoga di Roma, a che punto sono i rapporti fra il Papa e l’ebraismo?
Quarant’anni fa, Bergoglio fece visita in Israele. Era l’inizio di ottobre del 1973, durante la guerra dello Yom Kippur e, a causa dei combattimenti, Bergoglio trascorse sei giorni confinato in un hotel, assistendo all’assedio di Israele e alla sua lotta per sopravvivere. E proprio la relazione con lo stato ebraico costituisce oggi il punto più dolente dei rapporti fra il Papa e l’ebraismo. Due anni fa Bergoglio è tornato in Israele, ma stavolta da Pontefice, e fu la foto di un Papa sofferente di fronte all’ultima linea dei kamikaze, la barriera antiterrorismo costruita da Israele, a essere ricordata come il momento decisivo della visita in Terra Santa. La fatale inversione dei ruoli. La vittima che si fa carnefice. Poi il Papa ha celebrato la messa a Betlemme davanti a un telone affrescato in cui sono raffigurati Paolo VI, Benedetto XVI e Giovanni Paolo II che prestano omaggio, come i tre re magi, a un piccolo Gesù avvolto in una kefiah, il “Gesù Palestinese” luogo comune anche fra i jihadisti (Gesù era ebreo). “Siamo come Maria e Giuseppe, che accolgono Gesù e se ne prendono cura con amore materno e paterno? O siamo come Erode, che vuole eliminarlo?”, chiese Papa Francesco nella sua omelia a Betlemme.
Da allora, ci sono stati molti altri mugugni da parte israeliana per la politica filopalestinese della chiesa di Bergoglio. Fra gli esempi, l’espressione “angelo della pace” che Papa Francesco ha usato per salutare il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen, considerato il grande istigatore di questa “Terza Intifada”, e il rapido riconoscimento dello “Stato di Palestina” da parte della diplomazia vaticana. Oggi c’è il gelo fra il Vaticano e Gerusalemme.
Ne parliamo con Sergio Yitzhak Minerbi, diplomatico e studioso che, nato ottant’anni fa in Italia, emigrò nel 1947 in Palestina per andare a occupare incarichi di responsabilità nella diplomazia (è stato ambasciatore anche a Bruxelles) e nell’università del suo nuovo paese (è stato docente di Relazioni internazionali all’Università di Gerusalemme). Minerbi è considerato il massimo esperto vivente delle relazioni fra Israele e il Vaticano, fin da quando nel 1989 ha pubblicato il libro, in Italia da Bompiani e tradotto in tante altre lingue, “Il Vaticano, la Terra Santa e il sionismo”. Un testo imprescindibile per studiare i rapporti ebraico-cattolici.
“La visita al Tempio di Roma è importante perché il Papa è il capo della cristianità contemporanea e gli ebrei sono una minuscola minoranza nel mondo e quindi devono fare i conti tutti i giorni con questa situazione. Benissimo che a Papa Francesco piaccia dialogare con gli ebrei, ma deve affrontare la radice del problema: la lettura di Gesù fatta da Benedetto XVI e i rapporti della chiesa con Israele e il sionismo. Per me resta l’esempio, insuperabile, di Papa Ratzinger. Che sarà pure stato antipatico, e sono io stesso testimone diretto di una non spiccata affabilità, ma ha lasciato davvero il segno. Anche nella sua poderosa storia della vita di Gesù in tre volumi, dove ha smontato con chiarezza i veleni e le ricostruzioni fallaci che sono state proprie per secoli dell’antisemitismo cattolico. Se facciamo il paragone fra Francesco e Benedetto, il precedente Pontefice lo batte senz’altro sugli ebrei, perché nel secondo volume della trilogia ha scritto su Gesù: ‘Come potevano cento, duecento persone compiere un atto di questo genere?’. Per me è molto importante e non posso fare a meno di ricordarlo. E’ vero che da parte cattolica non si è fatto cenno a questa citazione papale di Benedetto, ma esiste”. Minerbi dice che Francesco è partito male: “Bergoglio ha avuto un inizio infelice, in quanto nella Pasqua dopo la sua elezione, ha citato quel brano del Vangelo antisemita, ha ripetuto l’esercizio l’anno seguente a Pasqua, e di tutto il Vangelo cita i brani antisemiti. Ripercorrendo i tempi di Gesù, il Papa evoca la classe dirigente ebraica di allora che a suo dire ‘si era allontanata dal popolo, lo aveva abbandonato, incapace di altro se non di seguire la propria ideologia e di scivolare verso la corruzione. Questa gente era peccatrice? Sì, sì. Tutti siamo peccatori. Tutti. Ma questi erano più che peccatori: il cuore di questa gente, di questo gruppetto, con il tempo si era indurito tanto, tanto che era impossibile ascoltare la voce del Signore. E da peccatori sono scivolati, sono diventati corrotti. E passo dopo passo, finiscono per convincersi che dovevano uccidere Gesù, e uno di loro ha detto: ‘E’ meglio che un uomo muoia per il popolo’”. Per non parlare dei continui riferimenti negativi di Francesco ai “farisei”, quelli “che chiedono a Gesù se sia lecito guarire i malati di sabato”.
Continua Minerbi: “Spero che questa moda sia passata e che possiamo trattarci da uguali con quello che ne deriva. Ci sono due fattori oggi in gioco fra Bergoglio e gli ebrei: c’è quello evangelico, perché già nei Vangeli ci sono i semi dell’antisemitismo ed era quasi normale all’epoca per creare qualcosa di nuovo; poi ci sono i fattori contemporanei”. Lo stato ebraico.
L’altro grande tema è infatti la questione dei rapporti della chiesa cattolica con Israele: “Vediamo gli abbracci con Abu Mazen”, continua Minerbi al Foglio. “E nelle sei ore di visita all’Autorità palestinese, il Papa venne condotto al muro di separazione nei pressi di Betlemme. Nessuno gli ha spiegato che senza quel muro gli israeliani avrebbero subito ancora più vittime. I palestinesi meritano secondo il Vaticano tutta la stima e la comprensione dei terzi, invece Israele è il forte, e merita di essere se non altro guardato con riserva. E’ vero anche che dopo più di un secolo, Papa Francesco è andato a deporre una corona di fiori sulla tomba di Herzl: è un fatto importante e va sottolineato. Ma la chiesa ha molta strada da fare per rivedere la sua posizione su Israele e gli ebrei. Quando lo farà io sarò il primo a omaggiarli. Non ho idiosincrasie, ma devono riconoscere che Israele è legittimo, che esiste e che deve essere rispettato. Mi pare una richiesta molto modesta. Se poi ci sarà di più tanto meglio. La chiesa di Francesco o il Vaticano tratta Israele su un gradino più basso, di inferiorità morale, come se avesse lo stigma di quello che è successo duemila anni fa e non riesce a liberarsene. Ci sono movimenti in questa direzione, ma non bastano. E’ abbastanza normale che il Vaticano sia, se non ostile, riservato nei riguardi di Israele. E’ una politica acquisita. Sopravviveremo anche con l’ostilità del Vaticano. A questa aperta ostilità vaticana ci ho fatto il callo. Ma cosa ci guadagnano loro? Credo che una equidistanza sarebbe una legittima richiesta da parte di Israele”.
Dal 1965, l’anno della promulgazione dell’enciclica Nostra Aetate, a oggi, fra chiesa e mondo ebraico è successo tanto. “In ebraico si direbbe nella lingua di Dante, ‘onoralo e sospettalo’. E’ questo il rapporto che c’è oggi fra cattolici ed ebrei. Così definirei i rapporti. Un rapporto di cordiale ostilità, in Vaticano fanno una cosa e il contrario al tempo stesso. Non c’è totale rispetto. Se il Vaticano fossero gli Stati Uniti sarebbe gravissimo, ma dato che le possibilità vaticane sono limitate, direi che possiamo accettarlo”.
[**Video_box_2**]Durante questi tre mesi di attentati quotidiani in Israele, con trenta morti e trecento feriti da parte del terrorismo palestinese, il Vaticano non ha mai espresso una ferma condanna o una parola di pietà per i morti israeliani. “Non c’è mai da aspettarsi una condanna da parte loro del terrorismo palestinese” ci dice Minerbi. “Sarebbe il caso di chiedere una revisione totale della politica vaticana nei confronti di Israele che non è arrivata. Se la posizione di Benedetto XVI fosse quella della chiesa, oggi saremmo un passo avanti anche nella questione di Israele. Ho conosciuto solo il futuro Benedetto, ne ebbi una pessima impressione, e mi sono ricreduto quando è stato eletto. La sua descrizione della morte di Gesù è una svolta epocale e non è stato seguito da nessuno, di certo non dal Papa seguente. Non possiamo aspettarci dalla chiesa una revisione totale del Vangelo. Non avverrà mai. Benedetto XVI però ha mostrato la strada. Se verrà seguita in futuro, ci sarà una comprensione reciproca. Ratzinger venne ignorato per questa sua posizione originale e unica nella storia della chiesa. Un conto è se gli ebrei sono gli assassini di Gesù e un conto è se sono stati vittime di quanto accadde come tutti gli altri”.
Possibile che perfino i cattolici che vivono in Israele non riconoscano di vivere nell’unico paradiso per la libertà religiosa del medio oriente? “Se capissero questo già saremmo un passo avanti. Ma non ci siamo ancora. Quando c’è stata la crisi della Basilica della Natività a Betlemme, tutti i rimproveri cattolici furono contro Israele e non contro i terroristi in armi che avevano dissacrato la chiesa. Il Vaticano se ne fregò. Da allora, sembra normale sputare contro Israele. Vorrei che questa non fosse più la normalità della chiesa cattolica”.
Iniziando magari, quando si tratta di condannare gli attentati, pronunciando quella parolina lì, anziché esorcizzarla: Israele.
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