Bernie Sanders, 75 anni, senatore del Vermont, partecipa alle primarie del Partito democratico per la scelta del candidato alla Casa Bianca

L'antinarratore

Bernie Sanders, il socialista sempre spettinato che ignora le tecniche di comunicazione ma raccoglie milioni e scalda i cuori dei millennial, nonostante ripeta sempre un messaggio non proprio innovativo, nello stesso modo, con le stesse parole, lo stesso tono, gli stessi vestiti.

Nella dolce dittatura della narrazione e dello storytelling politico ad affermarsi è stata la figura del candidato multiforme, capace di muoversi con agio fra diversi registri e tonalità, di essere convincente in cravatta e in maniche di camicia, di adeguare il vocabolario e il sistema di riferimento all’utenza, accuratamente profilata, che si trova di fronte. Il candidato roccioso, il monolite ideologico è venuto a noia una vita fa, sorpassato dalla liquidità di un’epoca che richiede candidati in grado di parlare dallo Studio Ovale e di creare connessioni emotive con l’elettorato con una gestione accurata dei social; bisogna esporre la politica economica nei dibattiti televisivi e convincere i potenziali finanziatori a pagare cinquemila dollari per una cena in cui ne verranno chiesti almeno altri cinquemila, ballare nel salotto di Ellen DeGeneres, bere birre con i contadini dell’Iowa, calcare il palco come una rockstar e scrivere tweet più arguti degli avversari. Tutto con identica disinvoltura. Serve una preparazione in stile Motown, dove agli artisti veniva insegnato non solo a cantare, ballare e suonare ma anche a stare elegantemente sul palco, a sorridere nel modo giusto, a firmare autografi con autorevolezza, e a memorizzare precisamente ogni singolo passo, tanto che pure Stevie Wonder era a proprio agio.

 

La corsa alla Casa Bianca, si sa, è uno sforzo collettivo, alla costruzione della narrazione partecipano mogli, mariti, figli, amici d’infanzia, perfino cani e gatti, oltre a tutto l’apparato, in parte nascosto e in parte visibile, di consiglieri, spin doctor, consulenti d’immagine, stregoni digitali e maestri del fundraising. Barack Obama è stato la luminosa personificazione di questa strategia, ma l’idea del candidato che racconta una storia, la sua, e raccontandola tenta di indurre un processo di immedesimazione, un ben congegnato sussulto di empatia, lo precede. Quello di Obama è stato un faraonico affinamento, non un cambio di paradigma. Sta di fatto che l’avvento della più imponente macchina elettorale americana sembrava aver segnato un punto di non ritorno nella strategia di comunicazione politica, tutto coolness, empatia e narrazione. L’evocare aveva soppiantato lo spiegare, il racconto aveva fatto svanire l’argomentazione e le pubbliche relazioni si erano trasformate in un plot organico.

 

La cavalcata solitaria di Bernie Sanders mostra che la notizia del trionfo della narrazione politica è fortemente esagerata. Il socialista del Vermont è un antinarratore. Non solo ripete sempre, invariabilmente un messaggio non proprio innovativo (“I ricchi ci stanno fottendo”, secondo la sintesi efficace di Bloomberg Businessweek), ma lo dice sempre nello stesso modo, con le stesse parole, lo stesso tono, gli stessi vestiti, gli stessi capelli spettinati. Notare: non fanno “l’effetto spettinato”, sono proprio spettinati. A Washington, in Iowa o nella sua Burlington i comizi sono sempre identici – peraltro sono troppo lunghi per un pubblico che ha capacità di attenzione tarate su YouTube – e paiono eseguiti da un replicante sopravvissuto alla disfatta delle ideologie più che da un candidato attrezzato per una campagna del 21esimo secolo. Bernie è una figurina controculturale, sia in senso stretto, essendo parte di quella vicenda storica, sia nel senso che non è sincronizzato con il ritmo della cultura dominante, se ne infischia delle tecniche di comunicazione e dei linguaggi, non scruta big data per capire come vestirsi o chi portare sul palco per massimizzare la capacità di penetrazione. Mette l’abito d’ordinanza (fuori moda) con la camicia botton down e va là fuori a prendere a bastonate i ricchi. C’era già stato prima di lui un altro candidato di intonazione socialisteggiante che veniva dal Vermont e che per una stagione era sembrato in grado di insidiare l’establishment democratico – in quel momento rappresentato da John Kerry – Howard Dean, traghettatore della campagna elettorale nell’epoca digitale. Ma Dean era la quintessenza del candidato cool, tutto il suo tentativo, articolato da quel piccolo genio della comunicazione politica di nome Joe Trippi, era di accattivare e persuadere, modellando il proprio messaggio sui desiderata di un elettorato che ai comizi di Kerry chissà perché non si scaldava. Si può discutere del merito delle idee e pure della performance, Dean era un narratore, Sanders uno che ha un messaggio così breve che lo si può scrivere su un post-it (altra intuizione felice del settimanale di Bloomberg) senza alcuna velleità di racconto.

 

Ora che le casse della campagna sono piene e il vecchio Bernie è davanti alla vecchia Hillary nei sondaggi in Iowa e New Hampshire, dove comincia la lotta delle primarie, il candidato della sinistra antisistema sta smussando un po’ i suoi angoli più acuti. Significa che ogni tanto gli spot elettorali sono giocati anche sull’uso della sua immagine. All’inizio della disfida delle immagini, Hillary abbracciava sorridente degli “everyday american”, Ted Cruz arringava la folla con un cappello da cowboy, Donald Trump urlava cose irreali e scorrette; Sanders esponeva grafici sulla disuguaglianza economica. Ognuno si affidava all’apparato iconografico che meglio lo rappresentava. Significa anche che la moglie di Bernie, la sua prima consigliera, è entrata nella parte visibile della campagna, dando quel tocco gentile che mancava al marito, oppure mettendo in forma ironica ciò che appare un po’ ridicolo se preso sul serio. I due ora scherzano sul viaggio in Unione sovietica fatto subito dopo il matrimonio, lo chiamano per celia “luna di miele”, quand’era in realtà – dicono – una visita di lavoro alla città gemellata con Burlington, fanno sapere che l’anno successivo hanno fatto una vera luna di miele ai Caraibi, come le persone normali. Infine sta anche aumentando il calibro dei colpi che spara contro Hillary. L’ultimo spot pubblicato parla di “due visioni democratiche su Wall Street”, una che si rende complice della signoria dei banchieri con salvataggi e prestiti, l’altra che delle grandi banche d’affari farebbe uno spezzatino. La seconda è la sua visione, la prima non è difficile capire a chi appartiene.

 

Questi piccoli aggiustamenti del plot verso il mainstream non cambiano la sostanza comunicativa. Bernie è l’opposto dello storytelling, e di questo suo tratto non fa né vanto né motivo di vergogna. E’ un fatto. La sua foto che sempre Businessweek ha messo in copertina lo scorso numero spiega tutto. Uno scatto volutamente scialbo, l’opposto concettuale dei filtri di Instagram e della composizione evocativa, un contrasto che più netto non si può con i canoni di questo tempo, specialmente dopo sette anni in cui l’America ha avuto continuamente negli occhi la storia della presidenza Obama vista attraverso l’obiettivo del sapiente Pete Souza. Perfino il collage delle foto in bianco e nero degli anni d’oro, quando il rivoluzionario di Brooklyn con i riccioli si batteva per la giustizia sociale, hanno poco di eroico e molto di provinciale. Tutto questo fornisce una rappresentazione veridica di Sanders, politico che non ama le polemiche sterili di giornata, non si diletta su Twitter, non fa fundraising, se potesse si asterrebbe completamente dai selfie con il pubblico e darebbe solo strette di mano, parla poco della sua vita privata perché non c’è molto da dire. Anche i conoscenti più stretti dicono che parla soltanto di politica, e non solo delle grandi visioni e degli scontri di civiltà, ma dei commi contenuti negli emendamenti alla legge di bilancio, roba da far sbadigliare anche il “sandernisti” più nostalgico. A rigore, tutto questa discontinuità con il codice narrativo prevalente dovrebbe produrre ben poche emozioni. Invece Bernie è un candidato che fa cose senza precedenti, e non è un modo di dire. Nessuno nella storia elettorale americana ha coinvolto un tale numero di finanziatori. In termini di presenze ai comizi batte chiunque, anche Donald Trump. Nei sondaggi nazionali è ampiamente dietro a Hillary, ma se si tara la capacità persuasiva soltanto sui millennial, il gruppo più conteso, non c’è dubbio su chi muova di più il cuore e lo stomaco in subbuglio di una generazione. Più che della tenuta sulla lunga distanza, il team Hillary ora è preoccupato dell’“enthusiasm gap” rispetto a Sanders, ché lei nemmeno con frotte di miliardari e un apparato di celebrities che soffia sul fuoco della campagna riesce a far ardere i cuori quanto quel signore spettinato che sembra appena uscito da un b-movie.

 

[**Video_box_2**]Nel corso dell’anno Sanders ha raccolto l’impressionante cifra di 73 milioni di dollari, impresa che sfiora l’assurdo se si pensa che Sanders non ha nemmeno una persona nella campagna interamente dedicata al fundraising. Non fa cene per finanziatori facoltosi. Non fa telefonate alla ricerca di soldi, eppure i soldi arrivano, donazione dopo donazione. Facile potere del messaggio populista? Naturalmente. Ma anche un messaggio biliare ha bisogno di un packaging che attrae. La campagna di Trump, al confronto, è una studiatissima operazione comunicativa, la sua volgarità è pensata e strategicamente distribuita, ordinata secondo slogan e tormentoni. Bernie ha il suo nome proprio e le idee chiare, poco altro. Il socialista ha investito talmente poco nella narrazione che la maggior parte delle operazioni in questo senso sono appaltate a un’agenzia di nome Revolution Messaging, che si occupa perfino dell’aspetto finanziario. Bernie finora ha pagato l’agenzia poco meno di quattro milioni di dollari, un guadagno netto rispetto all’investimento che nemmeno il più avido dei capitalisti oserebbe sperare. Si dirà che anche questa rappresentazione scarnificata e neorealista è essa stessa una narrazione, e va bene, ma come tipologia di racconto siamo lontani anni luce dai “Dreams from my Father” su cui Obama ha costruito la sua epica a un tempo personale e politica, figurarsi dall’epopea di Camelot con cui i Kennedy hanno tenuto in vita la propria leggenda. Bernie non può organizzare una Leopolda per raccontare il suo mondo alla famosa gente, sarebbe uno spettacolo terribile, con pessimo senso del ritmo, estetica dubbia, conterrebbe pochissimi personaggi, probabilmente uno soltanto, e non perché sia un megalomane accentratore, ma perché come tutti gli antieroi Bernie ha la vocazione del solitario. Non potrebbe organizzarla soprattutto perché non gli verrebbe mai in mente. Il paradosso è che Sanders ha ottenuto e sta consolidando lo stesso tipo di consenso dei suoi colleghi narratori: attaccamento viscerale, quasi religioso, quello che convince la famiglia che fa i conti a fine mese a donare venti dollari perché la causa è buona e il suo testimonial affidabile. Diversi linguaggi, stesso risultato. Come si spiega? Una chiave riguarda la parola più detta, discussa, scavata e abusata da una generazione: autenticità. Bernie funziona perché è vero, si dice. Questo potrebbe essere anche il motivo per cui, fatto salvo per l’attacco indiretto sulle “due visioni democratiche di Wall Street”, Bernie è stato signorilmente avaro di attacchi nei confronti di Hillary: è più interessato a passare il suo messaggio che a contrastare quello dell’avversario, specialmente se per contrastarlo deve mettere a repentaglio la sua purezza ideologica. Businessweek l’ha sintetizzato così: “Perché Bernie non vuole il tuo voto”. E’ tratto da un espediente retorico che usa spesso, ammettere che se facesse parte di questa o quella categoria di persone – banchieri, trader di Wall Street ecc. – non si voterebbe mai. E’ un modo per riaffermare la propria identità, suggerendo che non c’è colpo di scena, abilità retorica, espediente narrativo o strategia comunicativa che può colmare certe distanze. Strano a dirsi, ma la generazione che nella narrazione ci è cresciuta ora apprezza questo minimalismo ultraideologico e spersonalizzato.

 

Quello che era cool ora sa di una truffaldina vendita di fumo: che sia il lascito di sette anni di governo del Supremo Narratore? Lo ha detto bene Mindy Finn, stratega della comunicazione politica ed ex consigliera di George W. Bush e Mitt Romney: “Penso che molto dell’appeal di Bernie Sanders e il vero motivo per cui sta andando così bene è perché è visto come autentico e con i piedi per terra. E’ la sua politica, certo, ma quella parte del suo brand è particolarmente intrigante, e penso soprattutto a quei giovani elettori che vedono la politica come un sacco di B.S”. Forse quegli stessi giovani vedono anche il romanzo del personaggio politico come un sacco di B.S., di bullshit, di stronzate. Meglio affidarsi a un autentico ferro vecchio dell’ideologia.