L'uomo di Davos
Si chiama Hubo robot e, almeno nel nome, vuole evocare il mitico Ufo robot. Arriva anche lui dall’estremo oriente anche se dalla Corea del sud e non dal Giappone. E’ un umanoide che sa fare molte cose: cammina, riconosce la voce, muove i due occhi indipendentemente l’uno dall’altro, ha una visione sofisticata e facoltà di sintesi. Per questo l’hanno nominato campione di Davos 2016. Sembra una trovata pubblicitaria e in parte lo è, perché serve a reclamizzare il libro di Klaus Schwab, l’ingegnere tedesco, docente all’Università di Ginevra, che nel 1971 ha fondato il World Economic Forum e organizza i seminari invernali nel cantone dei Grigioni. Il pamphlet intitolato La quarta rivoluzione industriale (soggetto non inedito, ma sempre di sicuro effetto) è dedicato proprio alle macchine che sostituiscono l’uomo, polverizzando posti di lavoro.
Niente di nuovo sotto il sole, in fondo anche l’operaio Ned Ludd ce l’aveva con i telai meccanici e i suoi seguaci ne distrussero un bel po’ durante la rivolta del 1812 che infiammò l’Inghilterra, finendo in massa sulla forca. Ma Schwab è troppo colto per non saperlo. E’ che adesso le cose stanno andando troppo avanti, rischiano di sfuggire di mano. I robot non si rivoltano come nei romanzi di fantascienza, al contrario, eseguono ubbidienti e sono pericolosi proprio per questo. Così, anche l’Uomo di Davos solitamente ottimista, al punto che mentre stava scoppiando la grande crisi del 2008 quasi rifiutava di crederci, è diventato un profeta di sventura? Certo è che sulla montagna incantata di Thomas Mann quest’anno regna il disincanto e qua e là serpeggia la paura. Lo dimostrano i quattro temi all’ordine del giorno: uomini e macchine, appunto, la Cina in frenata, la disillusione dei mercati emergenti, e Brexit, la rottura dell’Europa per mano britannica.
Per certi versi non c’è da preoccuparsi, l’Uomo di Davos non è un maestro di profezie, raramente ha azzeccato qualche previsione, o perché non sa leggere le carte della fortuna o perché le mescola tanto che finisce per non raccapezzarsi. La sua attenuante è che oggi troppe bolle galleggiano nell’aria, ma sono ancora di più le balle che piovono sulla terra. Il seminario è stato lanciato da una fosca previsione pubblicata dai giornali: entro quattro anni, cioè dopodomani, “i robot ruberanno cinque milioni di posti di lavoro” (Corriere della Sera). Una catastrofe. Se andiamo a fare una ricerca, però, troviamo uno studio pubblicato un anno fa a Londra secondo il quale di qui al 2020 questi strumenti antropomorfi con annessi e connessi (dalla progettazione alla messa in opera fino alla manutenzione) creano tra otto e dieci milioni di posti di lavoro. Dunque, il saldo sarebbe in ogni caso positivo. Il rapporto, intitolato “Automazione e robotica”, non si basa solo su proiezioni statistiche, ma anche su quel che è avvenuto finora nei principali paesi industriali nei diversi continenti, prendendo a campione per esempio per l’Europa la Germania. E arriva a concludere che, al contrario di quel che si pensa, la disoccupazione è aumentata quando si è ridotta l’introduzione di robot, a causa della lunga recessione. Schwab racconta balle? Un momento. L’analisi proviene da Metra Martech, seria società di consulenza, che però ha lavorato per conto della International Federation of Robotics, cioè l’organizzazione degli industriali del settore, la quale da trent’anni ormai tasta il polso del mercato. Dunque, gatta ci cova.
Chi ha ragione e chi ha torto? Forse anziché ai futurologi apocalittici o agli imprenditori in conflitto d’interesse, dovremmo rivolgerci agli economisti classici. Oggi come oggi le condizioni del mercato sono sfavorevoli ai lavoratori, i disoccupati sono così tanti e i salari talmente bassi che conviene assumere uomini. Le macchine costano troppo e soprattutto ci vuole molto per ammortizzarle, un nuovo impulso verrà solo a mano a mano che ci si avvicina alla piena occupazione e il costo della manodopera diventerà troppo alto. Succedeva nella prima rivoluzione industriale, è accaduto nella seconda e nella terza, c’è da aspettarsi che il ciclo si riproporrà anche nella quarta.
Se cerchiamo le bolle e le balle che dalle Alpi svizzere s’irradiano tra gli opinionisti e i decision maker di tutto il mondo, la Cina è il luogo giusto. I mercati “affondano” (la parola più usata sui giornali italiani, e più abusata soprattutto quando si riferisce a riduzioni di pochi punti percentuali che nulla hanno a che fare con il vero collasso, quello del 2008). Anzi c’è chi parla di “panico globale”. Non siamo certo al 2008, non ancora, però il petrolio, il cui prezzo continua a scendere, allarma gli scambisti (di titoli e valute), e soprattutto preoccupa il rallentamento economico dell’Impero di mezzo che a sua volta ha una influenza importante sulla domanda di greggio.
L’Uomo di Davos dà voce a chi vende azioni e obbligazioni. I mass media mettono l’amplificatore. La Stampa, quotidiano serio e autorevole che fa capo a un gruppo ormai multinazionale come Fiat-Chrysler titola: “Cina, il pil peggiore da 25 anni”. In realtà voleva dire il peggior aumento del pil, perché oggi il prodotto lordo cinese è quindici volte più grande rispetto a quello del 1990 quando crebbe del 3,8 per cento anche in conseguenza delle sanzioni seguite alla sanguinosa repressione di piazza Tienanmen. Dunque, la produzione, i consumi, i risparmi della gente sono molto, molto maggiori. Non c’è più lo sviluppo a due cifre, ormai da tempo. La crescita cinese è diminuita costantemente nel corso degli ultimi cinque anni, con il Partito comunista che cerca di prendere le distanze da un modello logoro basato su investimenti e commercio, per indirizzarsi verso una crescita autosostenuta, trainata dai consumi e i servizi interni. Lo scorso anno si è chiuso a più 6,9 anziché più 7 come previsto dal governo. Per il 2016 si prevede più 6,3. Modesto rispetto al passato e anche alle speranze politiche del presidente Xi Jinping, ma comunque è cinque volte superiore alla media europea e due volte e mezzo quella americana.
In realtà, bisognerebbe rallegrarsi perché si sta sgonfiando una delle bolle cinesi, quella immobiliare sostenuta dall’eccesso di credito. La natura della congiuntura cinese, del resto, dovrebbe far parlare non tanto di crisi in senso tradizionale, ma di trasformazione (in mandarino si usa lo stesso ideogramma, wei ji, che esprime pericolo e opportunità). In altre parole, stiamo ormai in presenza di un paese pienamente industriale in cui il settore dei servizi si avvia a rappresentare la metà del pil (quindi è cominciata la terziarizzazione tipica delle società mature), la forza lavoro invecchia, la curva demografica rallenta, l’esercito industriale di riserva, nelle campagne o nelle periferie delle città, si riduce, i salari salgono. Insomma, sempre per ricorrere agli economisti classici, la fase dell’accumulazione primitiva è finita, ora anche l’accumulazione in sé e per sé s’appiattisce, emerge l’esigenza di usare le risorse per dare pensioni, assistenza sanitaria, servizi, banche che funzionino davvero, trasporti pubblici, infrastrutture diffuse e non solo faraoniche espressioni di enfatica potenza, come quelle costruite durante le olimpiadi del 2008.
Attenti a cadere dal catastrofismo nel panglossismo: la frenata cinese è “un elemento di rischio per l’economia globale”, scrive il Fondo monetario internazionale. La Banca centrale cinese si dichiara pronta a stampare altra moneta per 600 miliardi di yuan, pari a circa 91 miliardi di dollari, attraverso prestiti a medio termine con l’obiettivo di garantire al sistema bancario livelli di liquidità “soddisfacenti” e “ampi”. E Xi, sull’onda del maestro Deng, cerca ispirazione da Ronald Reagan e da Margaret Thatcher, come scrive il Financial Times, il che in Italia manda in brodo di giuggiole i pochi liberisti e inquieta i tanti protezionisti vecchi e nuovi. Per favorire la transizione interna, il Partito comunista vuole ridurre le tasse e introdurre riforme dal lato dell’offerta, una supply-side economics anche se laccata come l’anatra pechinese perché per il momento non ritiene di privatizzare i mastodonti industriali e finanziari posseduti dallo stato. Quanto alle compagnie zombie, cresciute a dismisura nel periodo della crescita a tutti i costi e ormai inefficienti, anzi spesso cadenti, la soluzione non sarebbe farle fallire secondo i dettami liberisti, ma fonderle con altre. In ogni caso si tratta di mettere in moto una colossale ristrutturazione che avrà anche conseguenze sociali.
Non è una lettura populista, anzi pauperistica, che può far capire quel che sta accadendo in Cina. “Ai nostri consumatori non manca potere d’acquisto – spiega Cao Heping, economista dell’Università di Pechino – è che non hanno i prodotti e servizi dei quali hanno bisogno, a cominciare da quelli che migliorano la qualità della vita”. Non è affatto scontato che la riconversione tra la vecchia fabbrica mondiale e la nuova economia dei servizi riesca, la resistenza al cambiamento è forte alla base e al vertice, alla fine lo stesso partito può scegliere il tirare a campare. Ma di questo si tratta, non degli improbabili collassi che si leggono sui giornali.
[**Video_box_2**]L’Uomo di Davos fa bene a preoccuparsi, sia chiaro, ancor più a proposito di quel che accade nei paesi in via di sviluppo. Ma dovrebbe per onestà ammettere che quella dei Brics è stata una pericolosa illusione, anzi un vero e proprio errore concettuale. L’acronimo non è stato inventato da Schwab, ma da Jim O’Neill di Goldman Sachs nel 2001, tuttavia ce lo hanno sciorinato a ogni tavola rotonda. E a chi, facendo appello al buon senso e sfidando il senso comune, obiettava che non si può mettere insieme Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, veniva risposto con Tom Friedman che “il mondo è diventato piatto”. Invece, dopo la fine della Guerra fredda abbiamo assistito al ritorno della storia e della geopolitica, alla differenziazione degli interessi particolari, una volta caduti quelli più generali (olocausto nucleare, comunismo contro capitalismo, regime totalitario contro democrazia liberale). Un decennio di guerre ha insanguinato i Balcani, ma l’Uomo di Davos non ha visto e se ha visto non ha capito. Eppure, mai come allora la Vecchia Europa ha vacillato. Altro che Brexit: se la Gran Bretagna esce non lo fa con i carri armati.
L’Unione può finire perché Londra alza il ponte levatoio, non c’è che dire; ma può finire anche (anzi forse soprattutto) perché non riesce a produrre risposte piene di senso ai suoi cittadini “invasi” dal mondo che sta fuori. Si evoca un nuovo esodo, milioni di rifugiati in fuga dalle guerre e si invoca il diritto di asilo che ogni paese gestisce a modo suo. Si parla di migrazioni per ragioni economiche e allora il dibattito è tra chi vuole importare manodopera fresca, giovane e affamata, e chi teme di essere licenziato. Eppure tutti sanno che il vulnus non riguarda l’asilo o il mercato del lavoro, ma l’Islam politicizzato e radicale, il fondamentalismo religioso che si scontra con i valori del mondo liberal-democratico. E’ questo che l’Europa non può integrare perché non vuole farsi integrare. Invece l’ipocrisia politicamente corretta continua a girare attorno al totem come in una ebbra danza macabra.
Persino sul petrolio c’è una corsa a sfuggire alla sostanza usando parole vuote. I prezzi crollano? Certo, se si pensa che nell’estate del 2014 il greggio costava 100 dollari al barile e oggi viaggia verso i 25. Ma attenzione, è rimasto molto basso per oltre un decennio senza per questo provocare sfracelli tra gli sceicchi e nel 1998 era a otto dollari. Dunque è una caduta rispetto a una innaturale ascesa. Se oggi l’Arabia Saudita vacilla, il Venezuela è praticamente in default, gli emirati del Golfo Persico s’inquietano e via di questo passo, è perché hanno gestito malissimo il loro oro nero. E’ evidente, eppure non lo si dice per non turbare la common opinion che vuole mettere alla gogna gli speculatori, i petrolieri, i bankster.
Ciò vale, sia pure in modo diverso e a livelli ben più sofisticati, per la Russia che ha pensato di usare gli euro tedeschi e italiani, pagati in cambio del gas, per togliere la ruggine dagli arsenali dell’Armata rossa e rilanciare la corsa agli armamenti. Dietro la caduta dei prezzi, del resto, oggi più che mai c’è un conflitto geopolitico, come sottolinea Daniel Yergin, uno dei maggiori analisti e storici del petrolio, che ragiona con categorie trasversali in grado di tenere insieme il gioco dello scambio, come lo chiamava Fernand Braudel, e quello della potenza pura. I protagonisti principali sono gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e la Russia, mentre l’Unione europea ha una posizione di rilievo non come produttore, ma come consumatore. Un quartetto dissonante, anzi in aperto contrasto. Gli americani sulla via dell’autosufficienza grazie alle nuove scoperte e alle tecniche del fracking, la frattura delle rocce bituminose, importano meno e per la prima volta cominciano a esportare (il Congresso ha fatto cadere il veto pluridecennale); i sauditi non riducono la produzione perché vogliono difendere la loro quota di mercato insidiata dalla nuova strategia americana; gli europei cercano di sganciarsi dalle grinfie dell’orso russo il quale cerca sbocco in Asia. A tutto ciò s’aggiunge la frenata cinese che, di conseguenza, è solo uno degli elementi, per quanto importante, di questo eccesso di offerta rispetto alla domanda.
L’Uomo di Davos tutto questo lo sa, sia chiaro, ma pensa ancora che possa essere risolto seguendo il paradigma consolidato, quello che dopo sette anni di vacche magre non è più in grado di distinguere le vacche grasse. Di qui la reazione istintiva, l’incertezza, la paura, la voglia di mettersi al riparo. Perché queste scintille non accendano un nuovo fuoco infernale, bisognerebbe ragionare in modo trasversale, tra economia e politica. Non si dovrebbe evocare l’eterno spettro del mitico Ludd (che forse non è mai esistito), né fare gli interessi dei gufi della City o dei lupi di Wall Street; e sarebbe meglio smetterla di lanciare sempre gli stessi messaggi: prima l’euforia, poi il panico. Ci vorrebbe la libertà di pensare, come Marc Bloch, che i fenomeni economici e soprattutto monetari sono a un tempo barometri di movimenti profondi e cause di non meno formidabili conversioni delle masse. E a questi movimenti profondi volgere uno sguardo lungo. Già. Potrebbe essere il programma di Davos 2017, dedicato alla storia e non all’economia. Una modesta proposta, un consiglio non richiesto. Un po’ per celia un po’ per non morir.
Il Foglio sportivo - in corpore sano