#serinasco, Volo
#serinasco, Volo. Fabio Volo. Promemoria per avulsi: FV ha quarantatré anni, scrittore, conduttore radio e tivù, attore, produttore, più donne che capelli in testa fino a quasi ieri, ora monogamo con una compagna islandese, due figli piccoli, varie case, un sacco di progetti, è stato ingaggiato da Fabio Fazio al sabato sera per “Che tempo che fa”, è appena rientrato nelle “Iene” con Geppi Cucciari e Miriam Leone (causa maternità di Illary), ha un film in uscita a marzo con la Leone e Silvio Orlando, e un romanzo, l’ottavo, “E’ tutta vita” (Mondadori), primo in classifica con oltre 400 mila copie in circolazione fino all’uscita recentissima del libro di Bergoglio.
Questa intervista non volevo farla, per snobismo penso. E’ nata così, distrattamente. Colpa di Annalena, era lei la predestinata: è perfetto per te, un romanzo su un padre esordiente. Lo sai chi è, Fabio Volo, vero? Impegno preso prima delle vacanze di fine anno, trascorse con il libro di Volo in valigia: è rimasto lì, duecentotrentaquattro pagine mute e sospette fino al ritorno a Roma. Però bella davvero la copertina, con quel triciclo rosso fotografato dall’autore, sembra uscito da una fabbrica del nord Europa e invece è italiano. Basta tirarsela con la storia del lettore di massa che si è fermato al Satyricon di Petronio: leggilo, non hai scelta. A pagina cento ho proclamato che non avrei mai letto altro, se non Fabio Volo. Scherzavo, ma serio, commosso perfino. Il libro è bellissimo perché non lascerà tracce imperiture, non è concepito per questo: è una storia elementare, una storia di paternità, un papà alle prime armi che somiglia all’autore ma lui dirà no, non troppo. Una vicenda d’amour fou, flou e bugiardo, sesso libero ma entro un certo margine come cantava Rino Gaetano, e che finisce in gloria, la gloria di un figlio, un trasloco, una possibilità di vita insieme esplorata con esitazioni e ripensamenti, una crisi di coppia inevitabile come da monito nei libri per padri e madri, quelli scritti dalle addette ai lavori anglosassoni, con pretese scientifiche salvo poi scoprire che l’autrice è morta zitella a quarant’anni. Insomma un romanzo sulla normale follia dell’essere genitori da zero a dieci, cento, mille. Grigio-luce-buio fitto che s’infittisce sempre più, quindi il lieto (?) fine che è un altro inizio. Senza certezze.
Lo incontro a Milano, Fabio Volo, redazione del Foglio, so che vorrà giocare e saprà farlo, ha il talento dell’empatia ed è imbattibile, lui, a intervistare la gente. Farà domande, battute, andrà dove vuole, mi porterà a spasso. Grande passeggiata. Con questa storia del papà che annusa il profumo del piccolo Leo, “droga naturale”, e ha paura di sbagliare e si chiede “dove ci siamo persi?” pensando a Sofia, te la giochi nientemeno che con Bergoglio. “Mi sa che questo podio con lui l’ho perso. Ma poi risalgo”.
Volo è quello che i Corvi avrebbero chiamato “ragazzo di strada”, e da panettiere bresciano è diventato una stella dalle uova d’oro. Però sa litigare, s’incazza sui social quando gli danno di renziano perché ha fatto l’inviato di Fazio alla Leopolda. “Ti dà sempre fastidio quando leggi una cosa che non è vera. Ma accade anche alle scuole medie quando dicono che hai baciato quella là e non è vero. Quando non vieni giudicato per ciò che fai ma per ciò che non hai fatto”. I social sono la cloaca dei sentimenti, perciò non se ne può fare a meno. “Quando mancano nomi e facce, alcuni fanno come quelli che quando eri ragazzino e facevi le risse venivano a dare i calci ai caduti per terra. Poi scappavano. Come le cicale, più son lontane più fanno rumore, poi se ti avvicini alla pianta stanno zitte. Siccome alla pianta non ti puoi avvicinare perché gli fai un favore, allora subisci. Come ho detto già, è come nella boxe, la nobile arte. Se pesiamo entrambi ottanta chili possiamo fare a pugni. Piaccia o no, io sono un peso massimo, loro piuma. Se rispondo con un pugno e li stendo non faccio bella figura. Loro non mi buttano giù, mi danno i pugni alla pancia, dà un po’ fastidio ma fa parte del gioco”. Umberto Eco non userebbe queste metafore. Chi è nato nel centro storico non ce l’ha questi automatismi, tipo se mi avvicino poi stai zitto e scappi. Sei l’amico di Fabio Fazio, quello che piace al mondo che piace, ma conosci le logiche di branco, dei muretti… “Quel che mi ha spinto a iniziare il mio lavoro, la vita che faccio, non era il fuoco sacro. Mai avuto. Non sono come l’artista che dice dove devi andare, che ti racconta il contesto sociale con una certa illuminazione. La cosa che mi ha spinto era il riscatto sociale. Ero destinato a una vita assegnata, ero di quella casta, con quel titolo di studio, venivo da quella famiglia… meno della borghesia diciamo. E tutte le volte che ho alzato la testa qualcuno mi faceva notare che dovevo stare zitto. Io a questo mi sono ribellato, e ho vinto. Punto. Il mio orgoglio non è essere candidato allo Strega, ma vedere che mio padre era stato umiliato dalle banche e alla fine è morto in una casa di proprietà. Gli ho ridato una dignità. Io sono già a posto. Il mio nemico non sono i social network o gli intellettuali. Il mio nemico sono io con la pancia piena”. Non per buttarla sulla letteratura, ma si dice che gli scrittori migliori sono quelli che scrivono per mangiare, per mangiare meglio o per sfamare qualcun altro. “Se a me non fosse andata bene, non sarei tornato indietro. Vengo dalla provincia, e quando tu dalla provincia vai nella città grande in cerca di fortuna puoi solo tornare vincitore. Perché andando via stai dicendo che sei migliore di quelli che restano. Se torni che non hai vinto, ti dicono ‘che cazzo ti eri messo in testa?’, non vedono l’ora che torni sporco di polvere, dopo aver perso anche quel poco che avevi”. Il panettiere. “Se mi chiedi qual è il mio talento ti dico che intanto ho delle grandi ore di lavoro alle spalle, e poi la fame e un senso di giustizia. Senza metterla sul Rocky Balboa, ma insomma un po’ quella cosa lì. Che ho ancora. Io puzzo ancora di quella cosa lì anche se sono il libro più venduto. So già che sono pronti gli articoli per quando il prossimo libro non venderà… o il film non andrà bene”. Hai messo da parte soldi? “Sì, ma non me ne servono tanti. Non ho il sogno delle case con la piscina. Non so se ti ricordi il film ‘Io La conoscevo bene’, dove Tognazzi deve imitare il rumore del treno coi piedi sul tavolo. Lui, attore, è a cena con impresari, gente ricca, intellettuali; loro gli dicono: fa’ il treno, dai, e lui comincia a saltellare, ciuff ciuff… ancora ancora… e lui continua perché vuole quel posto di lavoro… e alla fine muore d’infarto. Ecco, io mi ci rivedo, perché il treno devo farlo sempre”. Fare il treno significa anche avere paura di sembrare troppo serio? Volo è popolare perché fa un po’ il cazzone low profile, non vuole passare per uno colto, uno che si prende sul serio. “Se dico una cosa seria, poi devo subito dire una cazzata. Sempre. Ho la sensazione che il giorno che mi prendo sul serio sparisco come una nuvola, per una serie di combinazioni alchemiche. O forse per pudore”. Non hai mai firmato un appello di intellettuali, tipo per la Costituzione più bella del mondo. Non ti ha mai telefonato Zagrebelsky… (Ride) “A me? In quanto intellettuale? Nooo. Cene di beneficenza o cose elettorali, quelle sì. Dovessi ricevere una telefonata del genere la prenderei per lo scherzo di una trasmissione radio. Anche se dalla Gruber ho detto che sono il nuovo Umberto Eco”. Veniamo al libro, il primo che leggo ma non credo l’ultimo. “Se ti è piaciuto tanto, fermati qui e mantieni una buona opinione di me. Comunque li puoi leggere, i miei libri, pure se preferisci Dostoevskij, anche perché a un certo punto Dostoevskij è morto e ha smesso di scrivere”. A me m’ha fregato Baricco. “Ci sono i mostri sacri, e uno si chiede che senso ha Philip Roth dopo Dostoevskij, eppure Philip Roth c’è. A un certo punto uno dice adesso la linea la traccio io. Magari è Baricco, oppure Volo”. Il tuo libro è un trionfo di sentimenti elementari, estetica zero, grande capacità di capovolgimento, ritmo, tempestività, tutto sembra opportuno. C’è esperienza. Sembri più bravo di come scrivi. “Mo’ che ti rispondo?”. Vuoi un caffè? “No grazie”.
“I miei amici che hanno i figli dicono che il romanzo è autobiografico. Io credo di non avere raccontato la mia vita. Ho preso uno spunto, un raggio di conoscenza, nel mio modo che non ha sovrastrutture, ma nemmeno strutture. Magari il mio primo libro era quasi tutto istinto, questo è l’ottavo e c’è mestiere. Lo scrivo per il mio amico, mai pensando ‘adesso ti spiego una mia esperienza per insegnarti qualcosa’”. Non sei pedagogico. “Ma io cosa posso insegnare? Sai chi è Nick Drake?”. No. “Ecco, lui è il mio cantante preferito. Morto nel ’74. Però se tu non lo conosci non penso che sei un ignorante. Magari quel pomeriggio, quando io ho scoperto Nick Drake, tu scoprivi Cechov. La mia conoscenza non fa di me un uomo speciale”. Quante cose rubi quando scrivi? “Rubo soprattutto dai miei amici. Poi esaspero le situazioni, e quando inizio a scrivere è la scrittura che suggerisce il resto”. Se dovessi rinunciare a qualcosa tra radio cinema tivù letteratura ecc? “La televisione. E’ la cosa che mi ha conquistato meno negli anni, poi il cinema. Metterei radio e scrittura al primo posto: vengono percepite come due mondi lontani tra loro, invece sono la stessa cosa. Io la mattina prendo le telefonate da ascoltatori di cui non so nulla, a parte nome e città. Faccio domande, cerco qualcosa di divertente, magari intimo, è una grande scuola. Quando scrivo, mi rileggo e se quella pagina lì radiofonicamente non funziona io tolgo, tolgo continuamente. L’orecchio, il suono, la velocità d’immaginare chi è dall’altra parte: è una grande palestra”.
Il tuo protagonista, Nicola, rimorchia e un po’ tradisce. Tu, dacché sei monogamo e padre, non rimorchi più? Non tradisci più? “Non ho mai tradito perché non sono mai stato fidanzato nella mia vita, dai ventun anni a quando ho conosciuto la mia compagna a New York. Ho avuto una vita meravigliosa da single, mai storie reali. Con Johanna è stato tutto un imparare mentre lo facevo e mi sono scoperto serio. Per come ragionavo prima, ero anche spaventato dalla monogamia, dalla famiglia, pur essendone fortemente attratto. Puoi essere una persona diversa da ciò che pensi. Eppoi io riesco a giocare a metà. Se usciamo per andare a bere io sono uno di quelli che si ubriaca e vomita. Non sono da mezza misura. Se flirtassi sarei come un ex cocainomane serio che si fa una riga. Sono molto contadino, vado a stagioni. La mia stagione da single l’ho fatta, non posso dirti cosa mi aspetta, però adesso c’è la famiglia”. In fondo tutte le cazzate che dovevi fare le hai fatte. “Mi sono sempre detto: non vorrei mai essere uno di quelli che arrivano a cinquant’anni con la coda e vanno in discoteca a fare i cretini con le venticinquenni. Mai avuto fretta di essere adulto, non mi sono mai venduto un futuro nel presente. Ho fatto di tutto, a 43 anni basta così, se no ci resto sotto. Ho viaggiato da solo e dormito per terra quando la schiena me lo permetteva. Certo, non è tutto così pettinabile, non posso escludere di uscire da qui e incontrare lo sguardo di una donna irresistibile, però non lo sto cercando”. L’importante è questo. “Tu hai una bambina di due mesi e lo sai, io ne ho uno di due anni e uno di cinque mesi, è anche molto faticoso fisicamente. Quindi mi voglio prendere il bello e il brutto di questa situazione”. Hai messo in conto che possa essere lei a lasciarti? “E’ anche dieci anni più giovane, nella vita si mette in conto tutto”.
Perché rilasci un’intervista al Foglio? Lo conosci? Lo leggi? Io con Nick Drake sono stato sincero, tocca a te. “Non compro nessun giornale in edicola, leggo cose online o i quotidiani che sono nella mazzetta la mattina in radio, i soliti: Corriere, Repubblica, Stampa, a volte il Giornale. Parlo con il Foglio perché c’era Pierluigi Diaco”. Vabbè, la porta è quella. “Mai stato amico di Diaco!”. Scherzo! Il Foglio è un po’ snob. “Infatti sei fin troppo gentile, da te mi aspettavo cose tipo ‘ma che cazzo ti sei messo a scrivere!’. Ero venuto di petto a prenderle”. Raramente ci occupiamo di scrittori viventi. (Volo fa sgratt sgratt). “La verità è che nessuno compra più i giornali, però il Foglio va forte sul treno Milano-Roma, come il Sole 24 Ore”.
La musica. Per uno come te che fa la radio e scrive, è importante. “La uso anche quando scrivo, mi porta sempre da qualche parte. Quando mi fermo, l’ascolto perché è portatrice di immagini. L’orecchio musicale mi aiuta molto nella scrittura, mi avverte se una cosa è ripetitiva, cacofonica”. Su Sebastian hai scritto un libro, anche se il romanzo è dedicato a Johanna. Per il secondogenito? “La biciclettina che sta in copertina è di Sebastian, ma guarda che ‘E’ tutta vita’ non è un libro sulla mia famiglia. Quella indecisione che ha Nicola nel romanzo, vado o torno indietro eccetera, io non ce l’ho. Io sono resistente al cambiamento, come lui, quando devo cambiare una casa penso sempre a tutte le cose peggiori che possono accadere. Dopodiché, se decido e cambio, non torno più indietro. Invece Nicola si mette con lei, fa un figlio ma ci ripensa… ecco io no, anzi per come sono fatto mi verrebbe da dirgli ‘hai rotto il cazzo’. E glielo faccio dire dal suo amico Mauro. Poi la mia compagna non somiglia a Sofia. Quando poi scriverò il libro della mia vita…”. Come te lo immagini? “Avevo questo titolo: Nella vita ho fatto tutto tranne quello che volevo”.
[**Video_box_2**]Quanti tatuaggi hai? “In questo momento quattro, tra un mese cinque”. Ne hai fatti per i figli, come i calciatori? “No”. Quello al polso sembra una esse, pensavo fosse per Sebastian. “No. Questo è il secondo, l’ho fatto a 25 anni. A Riccione. Era settembre, aspettavo una commessa conosciuta durante l’estate, sono andato in spiaggia, pioveva, non sapevo che fare prima che uscisse dal negozio, in quello accanto c’era un tatuatore, lei usciva alle sei, erano le tre e mezza e mi son detto: sai che c’è, mi faccio un tatuaggio. Non so cosa significhi, ogni volta mi invento una storia diversa”. Ai tuoi figli glieli lascerai fare? “Cercherò di dargli il meglio che posso. Qualche danno è sicuro, poi a 18 anni faranno quello che gli pare. Spero non fumino e che non vogliano andare troppo a scuola”. Niente droghe. “Qualcosina…” leggera e depenalizzata. “Per provare”. Sei a favore del matrimonio omosessuale? “Da etero sì, fossi omosessuale no: hanno ’sta fortuna… noi abbiamo sempre una donna che a un certo punto ci dice: dai sposiamoci. Loro possono dirsi: amore, è illegale… Al di là della battuta, certo che sì, ci mancherebbe”. Nel libro descrivi il progressivo abbrutimento della coppia con bambino davanti a una serie televisiva… “Quaranta minuti giusti, poi te ne vai a letto, ti piazzi lì, ognuno dei due guarda solo davanti… è anche un momento figo, di descanso, come dicono gli spagnoli. Se i bambini non si svegliano dopo cena, è perfetto. Certo, si legge molto meno di un tempo”. Il mio studio ora è la stanza della bambina, una bomboniera. “E mo’ dove scrivi?”. In redazione, oppure col pc a letto, gambe incrociate. “Non puoi più scrivere in casa”. In casa colleziono bavette sui maglioni. “Anch’io, strano che oggi non ne ho. A casa non si può più scrivere. Scrivere non è come segare un’asse, che se poi arriva lei e ti dice: tieni il bambino un po’, tu interrompi e poi ricominci. Basta una domanda a fregarti: ti perdi, cerchi di inseguire un sentimento che ti è volato via. E questo se lei ti fa una domanda gentile. Se invece non hai fatto una cosa, e lei sottolinea: te l’avevo già detto! Lì proprio… Questo libro l’ho scritto un po’ a NY, ma lì avevo un altro appartamento dove andavo a scrivere… un po’ in Islanda, e lì c’era una casetta appena più grande di un ripostiglio porta attrezzi con una finestrella, riscaldata, sono stato da dio. Devi isolarti. Se scrivi a casa poi ti guardano sempre come fossi uno che non lavora… forse perché scrivere non è un lavoro”. Lei non lavora? “Allatta, e poi fino ai tre anni vorremmo assicurare una presenza maggiore. Per il grande ora c’è l’inserimento all’asilo, ma poi non è scontato che si resti qui a lungo… Ho un contratto per fare ancora un libro, poi vediamo, ho scritto una serie televisiva di cui sarò anche produttore, ambientata tra Roma e NY, sto cercando di fare il mio lavoro ma investo su ciò che è flessibile nello spazio-tempo. Scrittura al primo posto, perché decidi tu quando e dove. La radio pure: è più leggera, la faccio anche dall’armadio di casa a NY. Il cinema sono due mesi di lavoro… Sulla televisione investo meno perché richiede una presenza fisica. Non ho deciso di andare via dall’Italia, ma se poi la vita lo richiede…”. Islanda? “Ci piace andarci in vacanza, ma viverci è impegnativo anche per gli islandesi: ogni anno si rallegrano di essere sopravvissuti. Però è un posto fantastico. NY piuttosto, è ancora Europa ma è all’opposto di quando torno: nel mio ambiente c’è sempre uno che ti dice ‘non so se si può fare’, là se vuoi fare i bicchieri di carta quadrati ti dicono ‘dai proviamoci!’”. Studi da regista? “E’ un lavoro complesso, due cose devi saperle. Magari mi verrà voglia”. Basta che non ti fai chiamare maestro. “‘Non disturbate il maestro che ha un romanzo nuovo in uscita’… E la tua compagna che fa?”. Valeria è giornalista a Sky. “Tu come giornalista dovresti andare a Bruxelles, ci vanno tutti, ma poi ti tiri una fucilata. Meglio Parigi… Londra… Berlino”. Pietroburgo, anche un paio d’anni. “Con la Russia ci vai pesante, ma se vuoi andare in Islanda, io c’ho casa… Gli Stati Uniti sono troppo fasci per te?”. Ma figurati. “Mai stato a NY?”. Sono un provinciale di Roma. Conosco benino la Bulgaria e l’Albania. In America andrei al Parco di Yellowstone a studiare i lupi. “Ma questo senso di colpa da espiare da dove ti viene?”. Mi fai la dedica sul romanzo? “Certo: ‘Vale, grazie a te per l’incontro di oggi. Fabio Volo’. Si è smazzata lei vostra figlia, oggi”.
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