Marcello Mastroianni e Sophia Loren in “Una giornata particolare” (1977), il film più intimo e nostalgico di Ettore Scola. Il regista è morto martedì scorso all’età di 84 anni

Una bellissima giornata

Manuela Maddamma
Le donne erano tutte pallide. Gli oggetti erano poveri. Era un’epoca grigia e triste. Questo il ventennio fascista secondo Ettore Scola, che, aveva quasi sette anni quando si svolse la storica festa nazionale del 6 maggio 1938, visita della “sorella Germania” all’alleato, con lo stato maggiore nazista accolto a Roma dal re e dal duce.

Le donne erano tutte pallide. Gli oggetti erano poveri. Era un’epoca grigia e triste. Questo il ventennio fascista secondo Ettore Scola, che, nato nel 1931, aveva quasi sette anni quando si svolse la storica festa nazionale del 6 maggio 1938, visita della “sorella Germania” all’alleato, con lo stato maggiore nazista accolto a Roma dal re e dal duce. E’ la data in cui si svolge “Una giornata particolare”, del 1977, il film più intimo e nostalgico di Scola, quello che più rispecchia il suo temperamento schivo. Il tempo ricordato diventa soluzione coloristica: “Già in partenza tutto quello che riguardava l’ambientazione e tutti i capi di vestiario erano stati decolorati. Poi girammo con un filtro speciale, e quindi decolorammo ancora in stampa. E questo non fu soltanto per fare assomigliare maggiormente la fotografia ai pezzi di documentario con cui avevo aperto il film, ma perché i ricordi miei, della casa in cui abitavo a piazza Vittorio a quell’epoca, sono in quella tonalità. Il colore della Roma di quei tempi nel mio ricordo è un non colore neanche tanto grigio ma un po’ chiuso, un po’ spesso, come quello di una nebbia dentro le stanze, che poi al film è servito come lieve simbolo di chiusura, di prigione; anche lì di esclusione”.

 

La vicenda è rievocata dagli occhi raramente sorridenti, più spesso grigi e tristi anch’essi, di Antonietta e Gabriele (Sophia Loren e Marcello Mastroianni). Lei madre di sei figli, moglie di un piccolo uomo, modesto impiegato fascista, “capufficio del servizio uscieri”, che la “comanda di giorno e di notte”, e col quale spera di avere il settimo figlio per ottenere il premio riservato alle famiglie numerose. Lui è un giornalista omosessuale di mezz’età, cacciato dall’Eiar, l’ente radiofonico di stato (che poi diverrà la Rai), per le sue “tendenze sovversive e depravate”, anche se la sua prima versione è che la sua voce mancava del timbro di “romana virilità”. Sono i soli del caseggiato popolare di viale XXI Aprile (ma gli interni furono girati negli studi De Paolis, e la famosa scena in terrazza, poiché quelle dei palazzi Federici erano abitate, venne girata sul tetto dell’ospedale odontoiatrico Eastman) a essere rimasti a casa: lei perché deve badare alla casa e preparare la cena al ritorno della famiglia, lui perché deve fare i bagagli e attendere l’arrivo degli uomini che lo porteranno al confino a Carbonia. Sono persone profondamente diverse, ma entrambe infelici per il dissidio tra la loro natura e i ruoli imposti dal regime. Antonietta ha ipocritamente abbracciato la retorica fascista della donna angelo del focolare, cui se non è preclusa l’attività intellettuale, tuttavia le è impossibile raggiungere la “genialità”, propria del maschio. Gabriele anche ha tentato l’integrazione, inventandosi una fidanzata, prendendo la tessera del partito fascista, ma la sua simulazione è fallita più per debolezza che per temerità di sfidare il potere. La sua è una figura di omosessuale insolito nel cinema. Non è né fortemente caratterizzato, né un uomo qualunque, come se ne tratteggiano di questi tempi, per timore di scadere nella macchietta. Al contrario, Gabriele ha alcuni atteggiamenti che, in quanto omosessuale, oggi sarebbero considerati macchiettistici: la scena in cui insegna ad Antonietta a ballare la rumba, i movimenti della mano, a un dito della quale sfoggia un vistoso anello con pietra preziosa, o quando si mette a scorrazzare sul monopattino di legno di uno dei figli di lei. Al confronto con l’ideale contemporaneo dell’omosessualità come caratteristica neutra, impersonale, che non deve portare con sé nessuna determinata qualità sulla personalità e sul comportamento non sessuale, Gabriele risulta infinitamente più umano e, pur nella persecuzione sociale e civile, è del tutto conciliato con la sua natura. In una delle scene più drammatiche, quando Antonietta lo rimprovera di “non averglielo detto prima”, che lui “era così”, Gabriele perde la calma per la prima volta, gridando per la tromba della scale che lui non è come i veri maschi che prendono le donne con desiderio animalesco. Ma la sua rivendicazione gridata – perché anche la pettegola portinaia senta bene – di essere “frocio” non ha il valore di un “coming-out” (in effetti, nessuno può sentirlo, è un grido di sfogo per sé, non in pubblico) ma una protesta contro chi, come Antonietta, non ha il coraggio di accettare la verità e vive in un mondo di motti, di albi fotografici che ritraggono le eroiche gesta del duce. La sua ribellione non può e non vuole assumere significato sociale, eco universale, ma come ogni momento di questo film è vissuta intimamente, in un rapporto personale, prima col suo amante, Marco, al telefono, poi con Antonietta. “Fin da ragazzo, isolato o solo, non fa differenza, eppure oggi è una giornata particolare, è come un sogno, si ha voglia di raccontare”. Il loro franco aprirsi, il rivelarsi l’uno all’altra, avviene sul continuo bordone della radiocronaca originale dell’adunata del ’38 dalla radio della portinaia, simbolo insieme dell’evento storico e del lavaggio del cervello della propaganda sulle menti più deboli.

 

Di sera, alla fine di quella giornata particolare, col ritorno degli inquilini dalla parata, per Gabriele e Antonietta è inevitabile tornare alle vite decise per loro dallo stato, è la loro interiorità a essersi modificata e arricchita, non le condizioni materiali.

 

Questo cambiamento morale, del resto, è più arduo e importante di qualunque altro sconvolgimento. Antonietta per quasi metà del film si mostra incantata dal carisma del duce, che ha anche avuto occasione di vedere a Villa Borghese mentre marciava a cavallo – lui le lanciò un’occhiata e lei avvampò, e svenne. La scena ricorda quella di Hegel che vede sfilare a cavallo nel 1806 Napoleone, “l’anima del mondo”, a Jena. Salvo che Hegel si entusiasmò altrettanto ma non svenne, anche perché il deliquio, come poi rivela Antonietta a Gabriele, era dovuto a una ennesima gravidanza. Ma l’incontro non con un duce, o un capofamiglia tirannico e violento, ma con un uomo affascinante, che nel grigiore dell’abitato osa indossare un gilet bordeaux, che legge I tre moschettieri, la spinge a riscoprire una femminilità tale da farle dire “mi importa solo di me stessa”, cioè di esaudire il desiderio, incurante della omosessualità di lui. Femminilità che si svela a poco a poco: prima si nasconde le calze smagliate, poi, di nascosto in bagno, tenta di mettersi un po’ di rossetto ma sarebbe troppo vistoso, si pizzica le guance, infine si arricciola un tirabaci, che ovviamente Gabriele noterà subito al suo rientrare in salone, e lei: “Ah sì, se ne scende sempre”.
Per una volta, sia pure fugace e irripetibile, Antonietta è autonoma, padrona di se stessa e della sua immagine: non la storia del tempo, con i suoi slogan, ma lei stessa scrive le battute che pronuncia a Gabriele. Lui, che sul finale si avvia mesto, scortato, al suo confino, porta con sé la speranza che gli uomini e le donne non si lasciano determinare da un regime, che hanno un’inesauribile scintilla di libero arbitrio che va insieme con l’amore, più forte di qualunque retorica o icona del potere.

 

I loro incontri, quattro come gli atti di un dramma, cominciano con una circostanza in parte casuale, in parte voluta. Il merlo indiano, che lei chiama “pappagalletto” per la sua abilità di riprodurre il parlato, sfugge dall’appartamento di Antonietta e svolazza sul davanzale accosto a quello di Gabriele, che abita dirimpetto. Gabriele nel frattempo stava scrivendo delle lettere, il cui contenuto non viene mai rivelato, potrebbero essere d’addio, o di denuncia, e subito dopo viene inquadrata la pistola con la quale ha intenzione di suicidarsi. Ma poi ha un ripensamento e con un gesto rabbioso spazza la scrivania: “Del resto, la vita vale sempre la pena di essere vissuta, non si dice sempre così?”, dirà più tardi al suo amante Marco, al telefono, rassegnato a vivere con lo stigma dell’omosessualità. In quel momento di sconforto, suona il campanello di casa. Gabriele per un istante pensa che siano venuti a prenderlo prima del tempo. Invece è Antonietta, ancora vestita come quando seguiva le pietanze sul fuoco nella sua modesta ma ordinata cucina, con ciabatte bucate e calze smagliate. Pallida, senza un filo di trucco, sembra coperta da una leggera polvere, che però non può nascondere l’emozione di quell’incontro dai suoi grandi occhi verdi. E’ imbarazzata, ma chiede il favore di poter entrare nell’appartamento per recuperare Rosmunda, il “pappagalletto”. Ancora frastornato dai suoi pensieri di morte, Gabriele la fa entrare, e, mettendo del mangime su una scopa di saggina, riesce a farle recuperare l’uccellino fuori dalla finestra del suo studio. Antonietta si profonde di nuovo in scuse ma Gabriele le dice che non è il caso, anzi, che il suo intervento, proprio in quella giornata particolare, è stato quanto mai provvidenziale. E quando lei gli chiede cosa siano quei passi tracciati a gesso bianco sul pavimento, lui mette sul grammofono il disco della rumba. Per tutta risposta, la portinaia alza il volume della parata su via dell’Impero. “Questo è meno ballabile”, commenta Gabriele.

 

D’ora in avanti il loro incontro oscilla tra il gioco, la cortesia cerimoniosa, la confessione, lo sfogo, il rimprovero: tutte modalità in conflitto con la retorica tonitruante dei costumi fascisti, e della radiocronaca. Ogni volta che si profila una rottura, è per l’intervento malizioso della portinaia, meschina portavoce del conformismo del palazzo. Antonietta sta per cedere, per mandare via una volta per tutte Gabriele, che replica: “Siamo sempre noi a adattarci alla volontà degli altri”. Colpita nel vivo, lei lo trattiene, e insieme compiono quel gesto esemplare del loro peculiare modo di ribellarsi: prendono un caffè, incuranti dei pettegolezzi. Vivono momenti che somigliano a una vera intimità coniugale: lui le aggiusta il paralume, anch’esso “che se ne scende sempre”, dividono una frittata (l’uovo era il cibo preferito di Scola, e anche di Sonego, lo sceneggiatore di Sordi).

 

[**Video_box_2**]L’essenza di quella giornata è però condensata non in quelle scene d’interni, ma sulla terrazza, tra le lenzuola svolazzanti sotto un cielo livido, quando Antonietta sale per ritirare i panni. E’ lì che lei finalmente dichiarerà se stessa, “è da stamattina che ti guardo!”, prenderà le mani di Gabriele e le coprirà di baci, supplicandolo: “Vattene! Vattene!”, e, stanco di dissimulazioni, di menzogne, Gabriele le confesserà di essere omosessuale. Quando infine si ameranno, in quel modo irregolare, imprevedibile, inconcepibile per l’Italia dell’epoca, sconfessando il determinismo dei ruoli e delle identità al cuore dell’antropologia fascista – e di ogni antropologia rigidamente classificatoria, come ve ne sono ancora oggi – si saranno spinti tanto oltre da accettare, poi, che il sogno di un amore clandestino, accennato da Antonietta, che vorrebbe rivedere Gabriele tutte le volte che il marito si assenta per i suoi impegni col partito, svanisca quando lo vede portato via. Lei, aveva anche provato a leggere i suoi Tre moschettieri, ma perché è un filo che la riconduce a lui, della lettura non le importa niente, non ha nessun ruolo la cultura nella sua vita, per lei la cultura è quanto recepisce come manipolazione ideologica. Dopo l’uscita di scena di Gabriele, anche il libro tornerà a essere riposto, in quella casa sguarnita di libri, nella credenza tra piatti e bicchieri. Antonietta, nella tenebra sempre più fitta, si avvia in camera da letto, si spoglia, si infila nel letto coniugale e nell’ultima sequenza spegne il lume.

 

Si è detto di “Una giornata particolare” che è un film politico, civile, che anticipa il tema della diversità sessuale e delle sue persecuzioni, ma è più un film sulla normalità, che sulla diversità. La diversità, in realtà, è tutto il grossolano e assordante apparato fascista, il suo eccesso, le sue iperboli. La grandezza del film sta nel ritrarre due individualità che non devono essere peculiari, eccezionali per stagliarsi, per imporsi come personaggi palpitanti. La loro felicità non è mai inseguita in fini generali, in progetti collettivi, ma solo in comportamenti quotidiani, in possibilità di convivenza, di coesistenza che non si fondano sulla politica, ma sul cuore. Verrebbe la tentazione di dire che il film è apolitico, cioè è incentrato su quei rapporti elementari, su quel primario bisogno di riconoscersi nell’altro, di trovare in lui un simile, che stanno ancor prima della politica. Antonietta è estranea in casa sua, quella di suo marito e dei suoi figli biologici, per i quali ha gesti affettuosi, ma meccanici. “Una giornata particolare” è un film sulla naturalezza dei gesti, sui comportamenti sinceri e non indotti, sulla verità opposta all’autocensura dell’adattarsi alla volontà altrui, come dice Gabriele. E’ certamente anche un film d’amore, anche se l’amore, come sempre, per lui è diverso da quello vissuto da lei, e se fosse proseguito sicuramente sarebbe stato infelice, indipendentemente dal contesto che lo condanna. Ma è questa, forse, la “morale”: nella distanza delle loro inclinazioni, della loro cultura, e nella condanna degli altri, avrebbero dovuto essere liberi di vivere il loro amore.