James Stewart nella parte di George Bailey davanti ai risparmiatori preoccupati in un’inquadratura del film di Frank Capra “La vita è meravigliosa” (1946)

Ah, come soffre la mia banca

Stefano Cingolani
Quanto soffre la mia banca! Sì, proprio la mia, quella alla quale pago le rate del mutuo (spero le ultime), dove verso lo stipendio e dove ho domiciliato le bollette.

“La sofferenza è l’agonia di un istante, indulgere nella sofferenza è l’errore di una vita”
(Benjamin Disraeli)

 

Quanto soffre la mia banca! Sì, proprio la mia, quella alla quale pago le rate del mutuo (spero le ultime), dove verso lo stipendio e dove ho domiciliato le bollette. Soffre e, nonostante l’accordo raggiunto a Bruxelles tra Pier Carlo Padoan, ministro italiano dell’Economia, e la signora Margrethe Vestager, commissario olandese che proviene dalla sinistra radicale, ma segue una linea da destra ortodossa, le sue sofferenze la faranno soffrire ancora. Lo si vede dalle reazioni della Borsa di Milano. Forse gli azionisti dovranno aumentare il capitale, cambierà di nuovo, per l’ennesima volta, la proprietà, ci saranno altre ristrutturazioni, migliaia di bancari perderanno il posto e io che già non trovo più l’impiegato allo sportello, dovrò rivolgermi a un call center nello Sri Lanka al quale, dopo aver premuto una infinità di tasti, cercherò di far capire che qualcosa nel mio conto non funziona. Incubi ad aria condizionata? No, realtà già sperimentata.

 

Soffre la mia banca, dunque, e soffrirà ancora. L’ha fatta soffrire anche il mercato dei capitali. Si può dire che è in buona compagnia perché la Deutsche Bank ha perso il 40 per cento del suo valore dal luglio a oggi. L’insieme dei titoli bancari ha bruciato oltre 400 miliardi di euro, più del prodotto lordo della povera Grecia. Mal comune, però, non è affatto mezzo gaudio. E le banche italiane soffrono più delle altre. Il Monte dei Paschi di Siena ha perduto il 39 per cento dall’inizio di quest’anno, dunque in meno di un mese; Carige (Cassa di risparmio di Genova) il 38 per cento, Banco Popolare il 26 per cento, Ubi banca il 27 per cento, Unicredit il 22 per cento e via di questo passo. Ma perché tanti malanni e tale acuto dolore?

 

Sofferenza è la parola chiave di questa nuova crisi. Che cosa vuol dire? Quando un prestito non viene rimborsato si entra subito in un labirinto semantico: dal credito scaduto (da più di 90 giorni), al credito ristrutturato, all’incaglio, alla sofferenza, l’ultimo stadio di rischio. Un anno fa la commissione Ue ha omologato i diversi standard seguiti fino ad allora, anche per favorire la nuova vigilanza bancaria europea. Dunque le quattro precedenti categorie di esposizioni deteriorate (sofferenze, incagli, scadute e ristrutturate) diventano tre (sofferenze, inadempienze probabili e scadute o deteriorate), tutte insieme formano l’aggregato Npe (Non performing exposure, che può essere tradotto credito non performante). La nuova classifica introduce la definizione di “inadempienze probabili”, che è un vero capolavoro degno della dialettica post-hegeliana. In soldoni, anche se un debitore non è ancora concretamente inadempiente, la sua debolezza si trasforma in pericolo concreto. Sulla carta ciò è fatto per proteggere le banche, i clienti e i depositanti. Nella situazione concreta, e non solo italiana, vuol dire che bisogna già pensare a come coprire le perdite.

 

La Banca d’Italia calcola che i crediti deteriorati ammontino a 350 miliardi, di essi 200 miliardi possono essere considerati sofferenze. “Non sono tali da rendere le banche non in grado di sopravvivere”, ha spiegato il governatore Ignazio Visco, “ma pesano, perché alla fine le sofferenze diventano perdite, le perdite devono essere compensate con aumento di capitale e gli aumenti di capitale tendono a salire anche per motivi prudenziali”. A segnare le maggiori differenze è una formula inventata negli anni Ottanta dal banchiere canadese Gerard Cassidy: si chiama Texas ratio e dà valore cento al rapporto tra crediti lordi deteriorati e patrimonio tangibile (come gli immobili) più gli accantonamenti. Se una banca mantiene un indice inferiore, vuol dire che il rischio è sotto controllo. La Deutsche Bank ha applicato con perfidia questo criterio alle banche italiane e ne emerge un panorama allarmante. Anche se prendiamo le stime di Mediobanca, vediamo che Mps è a quota 286, Banco Popolare a 240, la Banca popolare dell’Emilia Romagna è a 139, Unicredit a 94 e Intesa a 89.

 

Molti banchieri mettono in discussione la validità delle nuove classificazioni. Carlo Messina, amministratore delegato della Banca Intesa, ritiene senza senso parlare di “sofferenze lorde”, perché in questi anni le banche hanno fatto parecchi accantonamenti per mettersi al coperto. E spiega: “Intesa ha 40 miliardi più o meno di sofferenze lorde, ma quelle nette sono pari a 14,5 miliardi, perché 26 miliardi li abbiamo già pesati a conto economico. I rischi legati alle sofferenze rimanenti sono coperti da 30 miliardi di valori collaterali rappresentati da immobili residenziali”. Dunque, garanzie reali; è vero che oggi il mercato immobiliare è ancora stagnante, quindi non è detto che sia possibile liquidare immediatamente il patrimonio, tuttavia quei crediti non sono caciocavalli appesi al nulla.

 

Non tutte le banche sono state abbastanza virtuose. Per Intesa i prestiti deteriorati netti sono il 10 per cento dell’attivo e le sofferenze il 4 per cento; per Mps siamo rispettivamente al 22 e all’8 per cento. E non tutte le sofferenze sono uguali, i dolori sono proporzionali alle loro cause. Cominciano dunque, con le sofferenze private. La vulgata dice: è colpa della crisi. In sette anni di vacche magre sono fallite centomila aziende, hanno chiuso piccole officine e botteghe, hanno appeso al chiodo i ferri del mestiere decine di migliaia di artigiani, contadini, negozianti. E’ vero, ma le cose sono molto più complicate e oscure. Se prendiamo, infatti, i prestiti concessi dalle banche vediamo che quelli dati a piccoli clienti hanno generato meno problemi. L’artigiano, il contadino, il bottegaio, il sciur Brambilla, tutti si sono dati da fare, hanno ridotto il proprio patrimonio, hanno venduto i gioielli di famiglia, per restituire i prestiti alle banche. Perché se un piccolo operatore economico va a chiedere un prestito deve sciorinare garanzie reali, collaterali come si dice, legati a un patrimonio sul quale la banca si possa rivalere. Anche se ci va un grande imprenditore deve mostrare i gioielli, ma allora entra in vigore la vecchia regola: se devi dare un milione alla banca sono cavoli tuoi, se devi restituirne cento sono cavoli della banca, un meccanismo che ha funzionato alla perfezione.

 

Secondo l’analisi del centro studi di Unimpresa, l’associazione delle piccole e medie imprese, basata su dati della Banca d’Italia aggiornati a novembre 2015, il 70,35 per cento delle sofferenze delle banche, cioè 141,4 miliardi su 201,1 complessivi, è relativo a finanziamenti superiori a 500.000 euro. Ad appena il 2,63 per cento dei clienti (32.608 soggetti, sia imprese sia famiglie, su un totale di un milione 240.410 clienti problematici) è riconducibile il 70,35 per cento delle sofferenze bancarie (141,4 miliardi). Nel dettaglio, 25,5 miliardi (12,72 per cento) sono legati a prestiti superiori a 25 milioni erogati a 579 clienti (0,05 per cento); 47,2 miliardi (23,48 per cento) si riferisce a finanziamenti da 5 a 25 milioni, concessi a 5.369 soggetti (0,43 per cento); 23,8 miliardi (11,84 per cento) sono relativi a crediti da 2,5 a 5 milioni, erogati a 7.386 clienti (0,60 per cento), e così via. Altro che regola dell’un per cento. Un pugno di clienti eccellenti ha provocato una valanga finanziaria. Si dirà che questa analisi è viziata dal livore dei piccoli contro i grandi, eppure i salvataggi a catena degli ultimi anni illustrano meglio di qualsiasi libro di testo che cosa vuol dire l’intreccio perverso tra banca e industria, una malattia che in Italia risale a un secolo fa e si è ripresentata puntuale nel momento in cui è caduta la legge che impediva questa “fratellanza siamese” come la chiamò Raffaele Mattioli, mitico capo della Banca Commerciale.

 

Nel 2013 viene firmato l’accordo per il salvataggio della Carlo Tassara dell’imprenditore franco-polacco Romain Zaleski, grande amico, alleato e socio di Giovanni Bazoli. Cinque anni prima la sua società aveva un patrimonio di 11 miliardi con 5,3 miliardi di debiti e in portafoglio il 5,9 per cento della Banca Intesa. Il crac delle Borse ha trascinato con sé il finanziere dai piedi d’argilla che ha accumulato debiti per 1,2 miliardi con Intesa, mezzo miliardo con Unicredit, 200 milioni con Mps e 150 con Ubi. Il salvataggio consiste nel trasformare una buona parte dei crediti (650 milioni) in quote della Tassara. Insomma le banche diventano azioniste di una società tecnicamente fallita sperando che si riprenda, ma immobilizzando così una parte delle proprie risorse che sarebbero potute servire per prestiti ad aziende senza un glorioso passato, ma con un probabile avvenire.

 

Si segue uno schema molto simile anche per salvare la Sorgenia, compagnia elettrica del gruppo Cir di Carlo De Benedetti. Qui è Montepaschi la banca più esposta con 600 milioni su due miliardi di debiti con 21 istituti di credito diversi. In questo caso c’è stato anche un aiutino del governo: circa 150 milioni per aiutare la nuova società, attingendo a un fondo introdotto nel 2003 dal governo Berlusconi per aiutare le società elettriche che si impegnavano ad aumentare la capacità produttiva. Oggi ce n’è troppa, le centrali chiudono e il fondo ha una dotazione di 700 milioni. Un decreto del ministero dello Sviluppo lo ha reso disponibile per la nuova Sorgenia. In ogni caso resta la questione di fondo: che c’azzeccano le banche con le centrali elettriche?

 

Ma l’elenco è lungo. Come vogliamo considerare i denari gettati nel pozzo dell’Alitalia? E non parliamo degli immobiliaristi con Zunino & C. Al gruppo di Salvatore Ligresti, Unicredit aveva dato mezzo miliardo di euro e Mediobanca un miliardo e centoventi milioni. Nel 2011 Unicredit cerca di salvare l’industriale siciliano di stanza permanente effettiva a Milano, diventando azionista con il 6,6 per cento. Un anno dopo Mediobanca chiama in soccorso la Unipol. Per consentire alle banche di recuperare almeno in parte la loro esposizione, si è fatto un aumento di capitale da 750 milioni, 500 dei quali li hanno messi i piccoli risparmiatori. Perché anche i debiti seguono la legge dei vasi comunicanti, se escono da una tasca debbono entrare in un’altra della stessa capienza.

 

Molte delle loro sofferenze, dunque, le banche se le sono inflitte da sole, un masochismo creditizio che solo in parte può essere spiegato con l’esigenza di “fare sistema”, di sostenere l’apparato industriale ed economico del paese. Ma c’è anche un dolore antico che viene dalla debolezza del mercato finanziario e in definitiva da quel “capitalismo senza capitale” che era diventato il refrain programmatico con il quale Enrico Cuccia spiegava le sue operazioni più spericolate a sostegno delle grandi famiglie del capitalismo italiano. Una fragilità endemica riemersa quando le banche, nei primi anni Novanta, sono state privatizzate e hanno trovato come azionisti stabili solo le fondazioni di origine bancaria. Durante la lunga recessione si sono svenate per sostenerle, poi sono entrati fondi di investimento, fondi sovrani, improbabili azionisti come gli sceicchi o i libici (in Unicredit, l’unica italiana tra le dieci valutate come sistemiche dalla Bce). E quando ci sarà bisogno di aumentare ancora il capitale, chi metterà i quattrini?

 

L’accordo raggiunto in sede europea è un passo avanti, ma non è la soluzione. Molto dipenderà dal livello della garanzia governativa (l’Italia voleva il 30 per cento, la Ue il 18), dai prezzi delle cartolarizzazioni. In sostanza, le banche faranno pacchetti dei crediti a rischio e li offriranno agli investitori istituzionali specializzati. Gli acquirenti potranno condividere in parte il rischio con il Tesoro e ciò dovrebbe spingere a spuntare sul mercato prezzi più alti di quelli che sarebbero stati applicati senza garanzie. Ma se le cose andassero male pagherebbero in parte i contribuenti e in parte le banche che dovrebbero mettere in bilancio nuove perdite.

 

E le pene non sono ancora finite. Ci sono anche i dolori provocati dai titoli di stato. Le aziende creditizie italiane ne hanno per un ammontare superiore ai 400 miliardi. Con i prestiti a tasso zero ottenuti dalla Banca centrale europea hanno comperato in questi anni (soprattutto dal 2012) una gran quantità di Btp, contribuendo così a sgonfiare la bolla dello spread con i Bund tedeschi. Ma i titoli di stato non sono più a rischio zero. La Bundesbank, la banca centrale tedesca, batte da tempo su questo tasto e giudica vulnerabili le banche italiane. L’ideale, secondo la dottrina teutonica, sarebbe che se ne liberassero, ma è chiaramente irrealistico. E dunque che fare?

 

[**Video_box_2**]La polemica, corretta sulla carta (dopo la crisi greca nessuno stato è immune dal pericolo di fallire), di fatto è per lo più strumentale perché il debito italiano è sostenibile, a differenza da quello greco. Per smontare l’argomentazione della Buba basterebbe andare a Basilea, alla banca delle banche centrali, la Bri, quella che calcola i ratios patrimoniali, e dare anche ai titoli di stato una ponderazione di rischio, sia pur bassa (il livello scaturisce da un negoziato). Non possono essere le agenzie di rating a decidere, sarebbe assurdo dare loro un tale potere tanto più dopo i clamorosi errori, per non dire peggio, commessi con la grande crisi finanziaria, quindi non sono le loro pagelle a stabilire quanto rischiosi sono i buoni del tesoro. Magari può essere scelto come parametro il rapporto tra debito e pil (criterio dubbio e discutibile, ma una convenzione ampiamente accettata). Ciò metterebbe a tacere le polemiche, ma non sarebbe una via d’uscita definitiva, perché in ogni caso le banche dovrebbero rafforzare la loro base patrimoniale. Infatti, se i titoli di stato sono senza rischio, il loro acquisto non comporta nessun consumo di capitale; se non è più così, la banca dovrà ricapitalizzarsi in proporzione ai buoni del tesoro in suo possesso.

 

Gira e rigira il sistema bancario italiano è sotto pressione. Non c’è nessun Grande Vecchio che tira le fila. Ma certo sono in agguato tanti concorrenti desiderosi di prendere una fetta della torta, in un mercato come quello italiano senza dubbio provato dalla crisi, ma dove i risparmi sono elevati e i depositi bancari sono addirittura aumentati in questi anni in cui la paura del futuro e la tristezza del presente hanno indotto la gente ad aumentare la liquidità e a ridurre gli investimenti. Insomma, non c’è fine alle nostre sofferenze? Se aveva ragione Disraeli, brillante scrittore nonché primo ministro della regina Vittoria, è meglio non indulgere, bisogna rimboccarsi le maniche e darci un taglio.

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