Porpore alla corte di Francia
Due cardinali capaci di ogni cosa, anche di governare
“In un secolo debole e corrotto, avrà più difficoltà un uomo onesto, virtuoso e forte, di uno cattivo e vizioso”
(Richelieu, “Massime di stato”)
“Copri i vizi altrui, o scusali. Nascondi quello che senti, o mostra tutto il contrario”
(Mazzarino, “Breviario dei politici”)
Ha senso rileggere oggi un testo concepito quasi quattro secoli fa, in un’epoca su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro? Ha senso, soprattutto se il suo autore si chiama Armand-Jean du Plessis de Richelieu. Si dice che per meglio capire il presente e scrutare il futuro bisogna salire sulle spalle dei giganti del passato. Il cardinale francese è stato innegabilmente un gigante del suo tempo, tra gli artefici del passaggio dallo stato rinascimentale allo stato assoluto. E il suo tempo in qualche misura allude al nostro, dove un neonazionalismo arrembante si contrappone a ogni idea di Europa come “comunità di destino”. E’ dunque plausibile soffermare di nuovo lo sguardo sul “Testamento politico” di Richelieu, da poco in libreria (Aragno, a cura di Alessandro Piazzi, 306 pp., 22 euro). Se Voltaire dubitava della sua autenticità, per Montesquieu era “pieno di fuoco, di vita; pieno d’una certa veemenza nelle frasi, d’una certa genialità naturale, d’una grande precisione. […] Vi si vede piuttosto l’uomo che lo scrittore, e son persuaso che coloro i quali hanno redatto l’opera vi hanno contribuito piuttosto con l’ordinamento che col contenuto” (“Riflessioni e pensieri inediti”).
Il cinico doppiogiochista ritratto da Alexandre Dumas nei “Tre moschettieri” (1844) nasce a Parigi il 9 settembre 1585, terzogenito di Suzanne de La Porte e di François du Plessis. Dopo la scomparsa del padre (1590), la madre, con l’aiuto di suo fratello Amador, un giurista con discrete possibilità finanziarie, avvia il figlio agli studi presso il prestigioso collegio di Navarra. Poi, in ossequio alle consuetudini delle famiglie con un quarto di nobiltà, per Armand-Jean si aprono le porte dell’accademia militare diretta da Pluvinel, dove si formavano i futuri gentiluomini. La decisione del fratello maggiore Alphonse, assalito da un improvviso furore mistico, di farsi monaco certosino lo costringe a indossare gli abiti religiosi. Solo così, infatti, avrebbe potuto conservare il vescovado di Luçon, ricevuto dai suoi avi per i servizi resi alla Corona. Terminati gli studi teologici alla Sorbona, Armand-Jean si reca a Roma per chiedere una dispensa papale che gli permetta la nomina a vescovo prima dell’età canonica (23 anni e mezzo). Paolo V è subito colpito dal giovane prete, che sfoggia una formidabile capacità dialettica. Il 17 aprile 1607, appena ventiduenne, viene consacrato vescovo. L’abate Bremond lo descriverà così: “Teme l’inferno, ama la teologia, non difetta completamente di curiosità per le cose di Dio; ma in ultima analisi il suo regno è di questo mondo”.
Negli Stati generali convocati nel 1614, Richelieu viene eletto deputato e portavoce dell’assemblea. Entra nelle grazie del “partito dei devoti” (cattolico e filospagnolo) e di Maria de’ Medici (madre dell’ancora minorenne Luigi XIII), di cui diviene consigliere privato. Nel novembre del 1616, su proposta di Concino Concini, il favorito della sua protettrice, viene nominato ministro degli “Affaires étrangères et de la guerre”. Il 24 aprile 1617 l’assassinio di Concini, istigato dal sovrano per liberarsi dalla tutela materna, interrompe bruscamente la sua esperienza di governo. Segue un periodo di isolamento ad Avignone, dove si dedica agli studi teologici. Richiamato a Parigi con l’incarico di comporre il dissidio tra la regina madre e il figlio, riconquista la stima di Luigi XIII mettendo in campo tutte le sue doti di abilissimo negoziatore (Trattato di Angers, agosto 1620). Il 5 settembre 1622 viene compensato con la berretta cardinalizia. Da allora la sua ascesa ai vertici del potere diventa inarrestabile, e viene suggellata dall’ingresso nel Consiglio del re (aprile 1624).
Richelieu deve subito affrontare una questione spinosa: il controllo della Valtellina, da cui dipendevano i rifornimenti e le comunicazioni tra i territori dell’Impero e la Spagna. Anteponendo con spregiudicatezza la ragion di stato a quella della fede, il neoporporato appoggia i principi luterani in rivolta contro l’imperatore Ferdinando II, con lo scopo di indebolire gli Asburgo nell’Italia settentrionale. La sua scelta provoca la vivace protesta della fazione cattolica più intransigente, guidata da Maria de’ Medici e da Anna d’Austria e Gastone d’Orléans, rispettivamente sposa e fratello germano di Luigi XIII. La reazione di Richelieu è spietata. Tra il 1626 e il 1627 vengono giustiziati alcuni tra i nomi più altisonanti dell’aristocrazia transalpina, per aver ordito complotti contro il re o per aver violato le leggi dello stato. L’anno successivo è quello della resa dei conti con gli ugonotti, asserragliati nella fortezza di La Rochelle: dopo un lungo assedio condotto personalmente da Richelieu, sono costretti a una resa incondizionata. Nominato “principal ministre d’Etat”, il cardinale gode ormai della piena fiducia del sovrano. Nella “journée des Dupes” (la “giornata degli ingannati”, 10 novembre 1630) gli oppositori interni vengono sgominati: il guardasigilli Michel de Marillac è arrestato e condotto al castello di Châteadun, il maresciallo Bassompierre imprigionato alla Bastiglia, Maria de’ Medici esiliata a Compiègne, mentre Gastone d’Orléans si rifugia nel ducato di Lorena. Questa operazione permette a Richelieu di rilanciare il suo progetto di accentramento statale, di allearsi con Gustavo Adolfo di Svezia e di aprire formalmente le ostilità contro la Spagna (1635). Da scontro confessionale, la Guerra dei trent’anni (1618-1648) si trasforma in lotta dichiarata per l’egemonia continentale. Il 4 dicembre 1642, divorato da una cancrena al braccio e prostrato dalla tubercolosi polmonare, Richelieu muore. Cinque mesi dopo, a sud del piccolo centro di Rocroi avviene lo scontro decisivo tra l’esercito spagnolo di Filippo IV e le truppe francesi comandate dal giovane duca d’Enghien. La vittoria del figlio del principe di Condé, e nipote acquisito del cardinale, è schiacciante. I terribili “tercios” (fanti armati di archibugi) vengono annientati. La potenza militare di Madrid è distrutta. Ma il vero vincitore della battaglia è proprio Richelieu, contro la cui volontà si infrange il sogno di dominio europeo degli Asburgo.
Nella lettera a Luigi XIII allegata al “Testamento”, confessa che “è più soddisfacente essere protagonisti e fornire materia alla storia, piuttosto che darle forma”. Preferisce cioè fare la storia e non raccontarla. E quando diventa storico di se stesso, è mosso dall’assillo di non vedere disperso quello che considerava il risultato più prezioso di diciotto anni di governo: il consolidamento del primato regio, garante di una sintesi tra gli interessi divergenti e le spinte centrifughe che scuotevano ciclicamente la società francese. Se Jean Bodin (1529-1596) e Jean de Silhon (1596-1667) avevano preparato la strada sul piano della teoria giuridica, Richelieu l’aveva percorsa fino in fondo sul piano effettuale. Solo più tardi si accenderà una serrata e mai conclusa disputa sulla legittimità dello stato “legibus solutus”. Come osserva Piazzi, è comunque dalle riforme di Richelieu, in primis dall’unificazione del sistema fiscale, che germoglieranno i semi di una inedita mobilità sociale, dove conteranno ancora ma sempre meno gli Ordini, le corporazioni, i parlamenti; e di una vera e propria burocrazia pubblica, alla quale si accederà non più solo in base all’appartenenza a un ceto.
Nella seconda parte della sua narrazione, l’onnipotente ministro non nasconde le difficoltà e le resistenze incontrate: intrighi, congiure, tradimenti, tentativi di “coup d’Etat”. Del resto, anche prima del suo insediamento al potere la Francia ne era stata infestata. Enrico III di Valois (1551-1589) era stato ferito mortalmente dal coltello avvelenato del frate predicatore Jacques Clément. Enrico IV di Navarra (1553-1610), capo indiscusso degli ugonotti, dopo la sua abiura era stato ucciso da Ravaillac, un fanatico converso (incaricato degli affari economici) dei Cistercensi. Nella notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572), i calvinisti erano stati massacrati. Enrico di Guisa (1550-1588), esponente di punta della Lega cattolica e tra i promotori di quell’eccidio, era stato trucidato su ordine dello stesso Enrico III. Ecco perché, rivolgendosi direttamente al suo riverito Sire nella premessa del “Testamento” (“Succinta narrazione”) Richelieu afferma: “Quando Vostra Maestà decise di concedermi l’ingresso nel suo Consiglio e la fiducia per la conduzione degli affari, gli ugonotti dividevano lo stato con Ella, i Grandi si comportavano come se non fossero stati sudditi e i più potenti governatori delle province agivano come sovrani nelle loro cariche. Il cattivo esempio degli uni e degli altri era così dannoso per questo Regno che le compagnie più regolate venivano influenzate e, in alcuni casi, riducevano, per quanto potevano, la Vostra legittima autorità. […] Le alleanze con paesi stranieri erano trascurate, gli interessi privati preferiti a quelli pubblici”. Il suo monito è chiaro: se il re non si mostrerà risoluto nell’amministrazione della Francia, essa ricadrà nel caos civile e religioso; se la monarchia non saprà difendere con fermezza le proprie prerogative, l’unità del paese – ancora fragile e contestata – andrà in frantumi. Non sarà così.
Il giorno dopo la morte di Richelieu, Luigi XIII annuncia la promozione del cardinale Giulio Raimondo Mazzarino al “Conseil du roi”. Nessun “cambio di regime”, dunque, come molti cortigiani si aspettavano. L’erede designato del “tiranno” era il delegato della Santa Sede che un decennio prima si era distinto per il suo dinamismo diplomatico, in particolare in uno dei teatri cruciali del conflitto franco-ispanico. Attraverso la sua mediazione, Richelieu aveva ottenuto senza colpo ferire l’allontanamento degli spagnoli dal Monferrato. Da quel momento inizia un sodalizio cementato dalle missioni di Mazzarino come nunzio del Papa presso la corte borbonica, dove si fa apprezzare per la sua prodigalità e il suo charme, diventando intimo di madame de Combalet, la nipote prediletta di Richelieu, e del frate cappuccino François Leclerc du Tramblay, l’eminenza grigia del ministro. Nel 1639 Mazzarino si trasferisce a Parigi. Due anni dopo, su proposta di Luigi XIII, Urbano VIII gli concede il cardinalato. Titolo che gli consente di partecipare al governo in una posizione di rilievo, nonostante le sue origini non altolocate. Partorito da Ortensia Bufalini il 14 luglio del 1602 a Pescina de’ Marsi, suo padre Pietro era infatti un semplice famiglio dei Colonna. “La sua nascita era bassa e la sua infanzia vergognosa”, dirà un suo acerrimo nemico, Jean-François de Gondi. Un parvenu e un furfante fin da piccolo, insomma. In realtà, Giulio era il rampollo di una rispettabile famiglia borghese, in grado di assicurargli un buon livello di istruzione presso il Collegio Romano dei gesuiti e l’università di Alcalá de Henares, dove soggiornerà circa tre anni al seguito di Girolamo Colonna. La sua cultura politica si forma però essenzialmente nella Roma del barocco trionfante, delle accademie e dei circoli dei Barberini, della precettistica della Compagnia di Gesù, che verrà rielaborata da Baltasar Gracián nel suo “Oráculo manual y arte de prudencia” (1647).
Pierre Mignard, “Il cardinale Mazzarino”, 1661 (Chantilly, Musée Condé)
In una splendida monografia (“Mazzarino”, Salerno Editrice, 361 pp., 19,90 euro), Stefano Tabacchi smonta tutti i cliché denigratori del suo profilo biografico tramandati dalla memorialistica seicentesca. In “Vent’anni dopo” (1844), Alexandre Dumas li assortisce sapientemente: il paragone impietoso con Richelieu, l’irresolutezza mostrata nei confronti della Fronda e nella pace di Westfalia (1648), l’arricchimento personale, il rapporto ambiguo con Anna d’Austria, il machiavellismo. Più avanti Jules Michelet, nella “Histoire de France au XVII siècle. Richelieu et la Fronde” (1858), descriverà Mazzarino come un avventuriero da commedia, come una sorta di germe patogeno che aveva inoculato nel corpo del paese il morbo della doppiezza italiana. Non fortuitamente i politici francesi contemporanei non desiderano essere accostati alla sua figura. A tal proposito, Tabacchi cita un gustoso episodio che forse in pochi ricordano. Nell’estate del 1995 apparvero sul giornale economico Les Echos ventiquattro “Lettres de mon château”. Lettere immaginarie, inviate – tra gli altri – a François Mitterrand, Edouard Balladour, Bill Clinton. Piene di giudizi taglienti sulla politica dell’Eliseo, erano attribuite a un fantomatico “homme de l’ombre et de pouvoir comme l’était Mazarin”. Nel 2004 il Monde rivelò la sua identità: era Nicolas Sarkozy, che Jacques Chirac aveva estromesso dal governo Juppé dopo essere stato eletto presidente della Repubblica. In Italia, invece, il machiavellismo attribuito al cardinale è stato talora esaltato addirittura come un manuale esemplare. Lo dimostra la fortuna dell’apocrifo “Breviario dei politici”, pubblicato per la prima volta nel 1684. Si tratta di una raccolta di codici di comportamento – nella sfera privata e in quella pubblica – e di massime sulla virtù della prudenza e sulla convenienza della dissimulazione prive di originalità, che riecheggiano il suo apprendistato nella diplomazia pontificia. Da noi è stato largamente citato sia nelle campagne giornalistiche contro i vizi della “casta”, sia – al contrario – per proporre in chiave qualunquistica un’idea della politica come arte di mantenere il potere. Giulio Andreotti, che ha molto giocato sulle sue presunte affinità con la “leggenda nera” del cardinale, ha definito come “massime eterne” quelle contenute nel “Breviario”.
[**Video_box_2**]Per Tabacchi, tutto ciò conferma che la personalità di Mazzarino rimane sfuggente, e che si presta a una pluralità di interpretazioni le quali si sovrappongono al suo reale ruolo storico. Cronologicamente, il cardinale è stato l’ultimo dei “principali ministri”. Per circa un ventennio forzerà fino ai suoi limiti estremi l’istituto del ministériat – ossia la funzione di alter ego del re – inaugurato dal suo predecessore, cumulando insieme le cariche di primo ministro, capo del Consiglio di reggenza e padrino di Luigi XIV. E, sempre sulla scia del suo predecessore, forzerà fino ai suoi limiti estremi il modello assolutistico, respingendo la pretesa delle giurisdizioni superiori di esaminare le leggi emanate dal re e la più generale rivendicazione di una “monarchia temperata”. Esse erano state alla base della Fronda (fionda), termine utilizzato per designare il variegato schieramento di opposizione al “ministeriat” di Mazzarino. La rivolta scatta nell’aprile 1648, quando il governo annuncia l’intenzione di abolire la “paulette”, il diritto annuale versato dai magistrati alla Corona in cambio dell’ereditarietà degli uffici. E’ la miccia di un’aspra guerra civile che insanguinerà la Francia per un quinquennio, e in cui il cardinale subirà l’onta dell’esilio e un vero e proprio linciaggio morale. Migliaia di opuscoli, libelli, pamphlet vennero stampati per divulgare le “mazarinades”, ovvero le turpitudini del “mostro italiano”: avidità, mancanza di etica dell’onore, ateismo, sodomia. Nella letteratura polemica, la sua depravazione sessuale evocava tanto una personale perversione quanto il pervertimento del regno di cui era responsabile. In questo clima sovreccitato, Mazzarino era additato come un astuto corruttore del figlioccio Luigi XIV, allevato imbelle in un ambiente licenzioso, e di Anna d’Austria, che gli si era prostituita.
Il cardinale uscì vincitore da questa durissima prova. La forza del lealismo monarchico, le divisioni interne ai ribelli, la fedeltà dell’esercito, il sostegno dei grandi banchieri, la diffusa coscienza patriottica delle élite urbane, consentirono il miracolo di sconfiggere i frondisti. Il 3 febbraio 1653, Mazzarino rientrava nella capitale tra ali di folla festante. Poco dopo, il suo ritorno veniva celebrato nel “Ballet de la nuit”, nel quale per la prima volta Luigi XIV – affiancato da ventidue dignitari – apparve vestito con l’aspetto del sole. Gli anni immediatamente successivi saranno quelli del “perdono”, che mirava a recuperare i leader frondisti, a eccezione del cardinale di Retz e del principe di Condé. I loro partiti vengono decapitati, mentre nelle province le turbolenti clientele dei clan aristocratici saranno sottoposte all’occhiuta sorveglianza degli intendenti governativi. Mazzarino era ormai virtualmente il padrone del regno. La sua fama era salita alle stelle, mentre la satira delle “mazarinades” cedeva il passo all’adulazione più sfacciata. La sua “grandeur” poggiava inoltre su un patrimonio ingentissimo, frutto di molteplici cariche e benefici ecclesiastici. Il suo munifico mecenatismo artistico spaziava dall’architettura alla pittura, dalla lirica al collezionismo di oggetti decorativi di pregio, memore dei fasti della Roma dei Barberini, di Pietro da Cortona, di Bernini.
Il ritorno al potere del cardinale coincise con una fase delicata nella vita della chiesa francese. Nonostante i colpi inferti da Richelieu al nascente giansenismo, la spinta al rinnovamento cattolico aveva prodotto nuove forme di aggregazione come le Compagnie del Santissimo Sacramento, associazioni segrete con finalità caritatevoli e assistenziali a cui aderivano molti esponenti dell’élite politica e religiosa. Il cardinale aveva inizialmente ostentato la più assoluta indifferenza nei confronti del fenomeno. Non poteva però rimanere inerte di fronte al crescente conflitto tra i giansenisti e i gesuiti della facoltà di Teologia della Sorbona, i quali avevano condannato “Augustinus”, lo scritto postumo di Giansenio (1640) che riproponeva l’antica controversia sulla grazia e sulla predestinazione, riaffermando il primato della fede sulle opere. Nel 1653, dopo la bolla di Innocenzo X “Cum occasione”, Mazzarino si schiera apertamente contro la dottrina eretica del vescovo olandese. Ma solo alla fine del 1660 deciderà di imporre al clero la firma del formulario antigiansenista di Alessandro VII (1559-1667), avviando la soppressione delle comunità eretiche che sarà completata dal Re Sole .
Affidata la gestione delle finanze statali a Nicolas Fouquet, la priorità della sua politica internazionale è quella di sempre: realizzare una pace stabile con la Spagna. L’obiettivo sarà centrato, ma al prezzo di lunghe ed estenuanti trattative con il primo ministro spagnolo Luis de Haro. Con il Trattato dei Pirenei (7 novembre 1659) la catena montuosa segna la nuova frontiera tra le due potenze. Inoltre, il patto dinastico tra i Borboni e gli Asburgo prevedeva il matrimonio tra Luigi XIV e l’infanta Maria Teresa, simbolo della ritrovata concordia tra le monarchie cattoliche nel quadro di un’Europa pacificata. All’indomani del trattato il parlamento di Parigi tributò al cardinale, elevato al grado di duca e pari di Francia, un solenne omaggio. Si sparse addirittura la voce di una sua possibile candidatura al soglio di Pietro. Un’ipotesi fantasiosa, che comunque testimoniava la sua immensa popolarità. Ma Mazzarino era già molto malato. Gli anni della Fronda e della ricostruzione del regno avevano spossato il suo fisico. Dal 1658 erano peggiorati i disturbi cronici di cui soffriva, i calcoli e la gotta. Non era più in grado di scrivere con le sue mani. Durante il 1660, gli ambasciatori avevano notato l’infittirsi dei colloqui tra il re e il cardinale. Luigi XIV andava a visitarlo più volte al giorno, e da lui veniva messo al corrente dei segreti e dei problemi di una macchina amministrativa vasta e complessa. Tuttavia, non si negava qualche divertimento: a ottobre Molière e la sua compagnia misero in scena nel suo palazzo “L’Etourdi” e “Le Precieuses ridicules”, con una ricompensa di mille scudi. La sua agonia cessò il 9 marzo 1661, dopo che ebbe preso l’olio santo e baciato il crocifisso. Nel suo elogio funebre il carmelitano Léon de Saint-Jean, un umanista assai vicino al cardinale, scrisse che “nel nostro eroe si vide un compendio di tutte le maraviglie mondane; e pure con le doti specialissime della natura, con la profondità del sapere, con profusi doni della fortuna, con tanti impieghi di guerra e di pace, con le maniere del governo politico, esercitato à prò d’un Regno sí grande, con la frequenza di gloriosissimi avvenimenti, con un capitale di ricchezze non inferiori a quelle di Lucullo e di Creso, con l’acquisto di una fama immortale, diffusa per l’Universo, […] giunge ancor esso miseramente alla tomba”.
Il 10 marzo 1661 Luigi XIV, che aveva pianto sul suo letto di morte, riunì il Consiglio dichiarando che non avrebbe più nominato un primo ministro, ma che avrebbe retto la Francia da solo.
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