Vita di al Baghdadi da giovane
L’otto dicembre 2004 Abu Bakr al Baghdadi esce dai cancelli della prigione americana di Camp Bucca dopo dieci mesi di detenzione cautelativa. Un mese esatto prima di quella data era cominciato l’assalto alla città di Fallujah, una delle operazioni di guerra urbana più violente dai tempi del Vietnam in un paese che in teoria è in campagna elettorale per eleggere un governo amichevole. Il giorno prima del suo rilascio il numero di soldati americani uccisi in Iraq aveva raggiunto la cifra simbolica di mille. Ma a Bucca tutto questo è un frastuono remoto che arriva dalla tv, il campo è piazzato all’altro capo del paese, in posizione strategica nel sud, vicino al mare spento, alla città di Bassora e al confine con l’Iran, tanto vicino che gli iracheni del posto accettano i soldi iraniani come valuta corrente. E’ la zona a più alta densità di sciiti del paese, ed è stata scelta apposta per rendere difficili le operazioni dei guerriglieri sunniti come Baghdadi e i suoi compagni di prigione: se quelli all’esterno vogliono provare un assalto al muro di cinta con successiva evasione di massa, come hanno fatto e fanno ogni tanto più al nord, qui devono prima fare centinaia di chilometri di autostrada in una terra che gli è straniera, incrociando i convogli di tir dei rifornimenti americani che risalgono in direzione contraria dal Kuwait.
Nessuno fa caso al futuro Amir al Mu’minin, “il capo del credenti” e leader dello Stato islamico. La foto della scheda personale ce lo mostra a trentatré anni con gli occhiali spessi da miope e una barba corta, i carcerieri lo stimano per la sua capacità di mediare tra le fazioni all’interno del campo, chi lo conosce dice che quel periodo di prigionia è stato il tocco finale alla sua formazione, c’è già tutto un mondo di guerra e ferocia ideologica chiuso dentro di lui, ma fuori non si vede nulla; è soltanto uno tra migliaia di sunniti e sta per finire di nuovo a spasso nell’incertezza del dopo guerra. Questo tema dell’ascesa segreta nei ranghi del gruppo mette le vertigini: cosa stanno facendo i futuri comandanti dello Stato islamico? Stanno scontando una pena lieve in qualche carcere? Combattono a Raqqa oppure meditano su qualche lettura chiusi in un appartamento di una banlieue europea?
In Iraq nel dicembre 2004 non si capisce se la violenza sta emettendo gli ultimi singulti – che però suonano troppo vigorosi – oppure se è l’alba di una seconda guerra ancora tutta da combattere contro nemici nuovi, soltanto nel medesimo posto: Saddam Hussein e l’esercito iracheno hanno sgombrato il campo, ma nel caos ci sono opportunità per gli uomini del leader terrorista Abu Mussab al Zarqawi, che sognano la fondazione di uno Stato islamico.
Baghdadi rispunta quattro anni dopo il rilascio – quando la nascita dello Stato islamico è stata ormai annunciata (nell’ottobre 2006, a Ramadi) – in un video lungo quasi trenta minuti che è messo su internet il due aprile 2008. Zarqawi è già morto, il suo gruppo continua a combattere sotto un altro comandante (anche lui è un “al Baghdadi”, ma Abu Omar: gli americani credono che sia soltanto un attore pagato per recitare proclami, invece esiste sul serio, lo uccidono due anni dopo). Nel video Abu Bakr tiene un discorso d’incoraggiamento al suo gruppo d’assalto – piuttosto sparuto – prima di un’operazione, ha il volto coperto da un passamontagna. Sappiamo che è lui soltanto per la voce, ora che ha registrato tanti messaggi audio e pure una predica a volto scoperto. Il filmato è girato nell’area di Mosul, quindi al capo opposto rispetto a Bassora, in una regione in cui lo Stato islamico non ha mai smesso di essere forte in tutti questi anni. Impugna un kalashnikov e questa del 2008 è l’unica occasione in cui si vede il capo del gruppo più aggressivo del medio oriente con un’arma. Si firma Abu Bakr al Ansari, dove “al Ansari” in arabo sta per “il sostenitore locale”, da distinguersi dai muhajirin, gli stranieri che vengono a combattere dagli altri paesi arabi. In breve: Abu Bakr l’iracheno.
Questa scelta del nome è un trucco per ingannare gli americani, che forse nel 2005 – senza saperlo – lo hanno dichiarato morto sotto un raid aereo. Baghdadi ha una bambina di nome Dua (Dua è la preghiera personale nell’islam, per esempio: una dua perché tu guarisca presto), quindi ha titolo per farsi chiamare Abu Dua, padre di Dua. Se si va a spulciare le note quotidiane scritte dal Pentagono, si legge che nell’ottobre di quell’anno un bombardamento aereo uccide un giudice islamista del gruppo al Qaida in Iraq, Abu Dua, in un paese del deserto vicino al confine con la Siria. Questo giudice controllava il suo pezzo di territorio con mano feroce e la nota del Pentagono suona come un anticipo di quello che arriverà su scala nazionale: “Fonti di intelligence dicono che Abu Dua, che aiutava siriani e sauditi a entrare in Iraq per minacciare e uccidere cittadini iracheni, era in casa al momento del bombardamento. Dua era collegato all’intimidazione, tortura e uccisione di civili locali nell’area di al Qaim. Dua presiedeva corti islamiche per processare cittadini locali accusati di appoggiare il governo iracheno e le forze della Coalizione. Sequestrava individui o intere famiglie, li accusava, pronunciava la sentenza e poi li uccideva in pubblico. Le connessioni di Dua all’interno di al Qaida si estendevano alla Siria e all’Arabia Saudita, dove è reclutata la maggior parte dei foreign fighter. Aveva creato e diretto un sistema che trasferiva foreign fighter dalla Siria all’area di al Qaim. Questi combattenti erano quindi mandati alle cellule terroristiche locali, e attaccavano cittadini iracheni innocenti, le forze di sicurezza e le forze della Coalizione”. E’ il 2005, ma suona come il 2015. Passaggio importante: “Il corpo di Dua non è stato recuperato, ma il bombardamento ha distrutto l’edificio in cui si pensa lui fosse”.
Digressione: sembra che gli americani siano riusciti a individuare dove si trovasse Abu Dua perché avevano arrestato pochi mesi prima il suo diretto superiore, uno dei tanti comandanti che prendevano ordini da Zarqawi, di nome Ghassan Amin. Per catturarlo, le forze speciali della Delta Force americana erano entrate in un suo fondo agricolo, avevano preso i vestiti dei braccianti e lo avevano atteso, sapendo che sarebbe arrivato in visita da un momento all’altro. Scoperto l’inganno, il terrorista aveva commentato: “Americani, ovvio. Gli iracheni non farebbero tutta questa fatica” (l’episodio è raccontato nel libro di Sean Naylor “Relentless strike”, uscito nel 2015).
Ora, ci sono forti sospetti che questo Abu Dua sia Baghdadi, rilasciato da Camp Bucca e rientrato subito in servizio effettivo. Colpisce vederlo elencato tra i morti assieme ad altre decine di leader in uno schema di riepilogo fatto dall’esercito americano e poi pubblicato in una ricerca specializzata nel novembre 2005 (firmata da Anthony Cordesman). Abu Dua (Baghdadi) è lì, rappresentato con una sagomina nera, all’interno della catena di comando che allora portava al bersaglio numero uno: Abu Mussab al Zarqawi. Abu Dua sfugge dunque al bombardamento ma lascia che gli americani lo credano morto e ritorna in campo anni dopo, con un altro nome, come un personaggio di un romanzo d’appendice. Quando diventerà capo nel 2010, cambierà per la penultima volta nome e diventerà Abu Bakr al Baghdadi, il capo che viene “da Baghdad”, la capitale così ricca di echi storici per un gruppo che quasi venera la dinastia dei Califfi abbasidi. E l’ultimo cambio di nome, o meglio, il ritorno al nome vero, arriverà appunto dopo l’investitura a califfo: Ibrahim al Badri, ma ormai è troppo tardi. Persino i video dello Stato islamico ogni tanto scivolano e lo indicano ancora come “Abu Bakr al Baghdadi”, quindi con il vecchio nome da latitante e non con il nome da guida “di tutti i musulmani del mondo” – e le chance che i media lo indicheranno mai come “Califfo Ibrahim” sono esigue.
Che il prigioniero miope di Camp Bucca fosse poi davvero quel giudice efferato vicino al confine siriano oppure no, c’è in ogni caso un buco nel racconto della vita di Baghdadi e non si capisce dove trascorre tre – o forse quattro – anni e cosa fa.
Le biografie più complete e affidabili di Baghdadi sono due, una l’ha scritta l’esperto americano Will McCants – pubblicata per il sito della Brookings Institution – e l’altra l’ha scritta il giornalista iraniano Ali Ashem per il sito Al Monitor e concordano entrambe su un punto: in quell’intervallo di tempo Baghdadi si nasconde in Siria. McCants scrive che Baghdadi passa il tempo a finire di scrivere la sua dissertazione di laurea sulla pronuncia nella recitazione del Corano e anche a controllare i video dello Stato islamico prima della pubblicazione su internet, per dare un imprimatur dal punto di vista teologico e formale. Ashem scrive che Baghdadi continua a operare come membro dell’organizzazione. Entrambi, Ashem e McCants, sono d’accordo anche su un secondo punto: l’iracheno aiuta quel vasto network che dalla Siria incanala i volontari stranieri verso l’Iraq. A quel tempo i volontari dello Stato islamico in arrivo dai paesi arabi e anche dall’Europa atterravano all’aeroporto internazionale di Damasco con in tasca un biglietto di sola andata e poi, passando senza problemi tra le maglie di quattro servizi segreti, erano ricevuti, addestrati, finanziati, indottrinati e instradati verso la guerra in Iraq. II governo siriano giustificava il cinico laissez faire con questo ragionamento: ogni soldato morto in Iraq fa passare l’appetito del pubblico americano e dell’Amministrazione Bush per altri regime change in medio oriente – incluso il nostro. Peggio vanno le cose in Iraq, tanto meglio per noi.
C’è una biografia malevola scritta da un uomo dello Stato islamico in Iraq fuoriuscito dal gruppo che sostiene persino che Baghdadi si nasconde in quegli anni a sud di Damasco, nella zona del santuario di Sayyeda Zainab, il luogo più caro della Siria agli sciiti di tutto il mondo. Come a Camp Bucca, il futuro capo dello Stato islamico medita la sua teologia dello sterminio contro gli sciiti mentre gode di uno status di relativa sicurezza in mezzo ai nemici sciiti che – secondo il suo canone – sono peggio persino degli americani.
Ali Ashem è un giornalista con simpatie verso Hezbollah e il governo di Damasco, eppure si fa sfuggire un dettaglio sorprendente: Baghdadi in quegli anni è il vice di Abu Ghadiya, il re dei reclutatori dello Stato islamico in Siria. Abu Ghadiya è talmente bravo a svolgere il suo incarico che il generale David Petraeus vola a Damasco e avvisa di persona il governo siriano: sappiamo che dal vostro confine arrivano migliaia di volontari che poi combattono contro di noi in Iraq e s’arruolano con gli estremisti, ve ne occupate voi? Damasco in effetti ha una talpa nel network di Abu Ghadiya, come racconta Sean Naylor nel già citato “Relentless”, ma non passa informazioni agli americani.
Se si mettono assieme i pezzi in un combinato disposto di fonti e articoli, si ottiene un quadro interessante. Un giornalista iraniano scrive che Baghdadi in Siria è il vice di Abu Ghadiya. Uno scrittore americano specializzato in sicurezza nazionale e con contatti dentro le forze speciali e l’intelligence scrive che il governo del presidente siriano Bashar el Assad ha una talpa dentro la rete dello Stato islamico che tra il 2005 e il 2008 contrabbanda volontari stranieri dalla Siria all’Iraq. L’uomo che tiene i contatti con quella rete da parte del governo di Damasco è il generale Assef Shawkat, genero di Assad, morto in un’attentato nel centro della capitale siriana nel luglio 2012 (una strage su cui ancora oggi circola ogni sorta di sospetti).
Nell’autunno 2008 gli americani prendono l’iniziativa. Per mesi gli uomini di una unità speciale chiamata Task Force Orange, travestiti da turisti e uomini d’affari, hanno ricostruito come funziona la rete di reclutamento dello Stato islamico in Siria e in qualche caso sono riusciti a penetrare nelle case che usano. A ottobre l’Amministrazione autorizza un rarissimo raid oltreconfine, le forze speciali atterrano con gli elicotteri qualche chilometro dopo il posto di frontiera di al Qaim (dove quel giudice che oggi sospettiamo fosse Baghdadi imponeva il suo controllo alla popolazione nel 2005), uccide Abu Ghadiya e ne porta via il corpo. Il giorno dopo i giornali titolano che l’America ha decapitato la rete che portava i terroristi stranieri in Iraq.
[**Video_box_2**]Al Jazeera trasmette una serie di giornalismo investigativo in arabo che si chiama “La scatola nera” (nel senso di black box, quella sugli aerei). A novembre una puntata ha ripercorso la vita di un islamista siriano molto controverso, Abu al Qaqaa, un predicatore curdo di Aleppo che a partire dal 2003 cominciò ad aizzare gli ascoltatori perché impugnassero le armi e andassero a combattere in Iraq contro gli americani. La cosa che colpisce è che nella vita di al Qaqaa c’è un prima e un dopo: nel prima è un imam barbuto che incita miliziani in mimetica, nel dopo è un uomo elegante, con un orologio d’oro, la barba corta e curata, che viaggia in Mercedes. Alcuni tra i suoi seguaci lo accusano di essersi venduto ai servizi di sicurezza siriani, altri, tra chi gli rimane fedele, sono perplessi: “Se avessimo detto le stesse cose che dici tu oggi, incitando la gente al jihad, saremmo finiti in prigione. E a te non succede nulla”. Lo sfondo è sempre quello della guerra americana che infuria nel vicino Iraq. Al minuto ventotto, la trasmissione fa parlare una fonte che racconta: nel 2005 Abu al Qaqaa incontra Abu Bakr al Baghdadi, il futuro capo dello Stato islamico.
Si sa: al Jazeera è il canale satellitare del Qatar, che odia gli Assad, e quindi non esita se c’è da menare un colpo basso. Che il predicatore islamista considerato il pupazzo del governo siriano abbia incontrato Baghdadi durante il suo esilio siriano, capo che forse era scampato ai jet americani e dopo un periodo di prigionia a Camp Bucca, dev’essere suonato come un pezzo di notizia irresistibile da trasmettere. Abu al Qaqaa è stato ucciso nel 2007 mentre viaggiava in macchina vicino Aleppo, che allora era una zona pacifica (un assassinio su cui ancora oggi circola ogni sorta di sospetti).
Tra il rilascio da Camp Bucca e il ritorno alla guerra Baghdadi ha trovato rifugio in Siria, come migliaia di iracheni, e ha bazzicato i due islamisti più compromessi con i servizi di sicurezza di Damasco. Altro non è dato conoscere su questo buco nella sua biografia che lo ha restituito pronto per l’investitura a leader dello Stato islamico e a tutto il resto che si sa. Se ci sono elementi da aggiungere, arriveranno soltanto più avanti, quando la guerra siriana imboccherà la sua fase finale.
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