Il Lodo Weidmann
Roma. Appena compiuti 45 anni, Mario Draghi poté sperimentare in prima persona cosa volesse dire, per una Banca centrale qualsiasi, trovarsi a remare in direzione opposta alla Bundesbank. E poté realizzare quali effetti distruttivi ciò potesse avere per il processo di integrazione europea. Correva l’anno 1992. Alle undici di sera del 10 settembre, un giovedì, il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi – mentre era in riunione con il presidente del Consiglio Giuliano Amato e il ministro del Tesoro Piero Barucci – ricevette una telefonata da Francoforte. Si appartò un momento, giusto il tempo per il collega della Banca centrale tedesca, Helmut Schlesinger, di informarlo sugli esiti dei colloqui con il cancelliere Helmut Kohl e con il ministro delle Finanze Theo Waigel: la Bundesbank avrebbe smesso di finanziare gli interventi a sostegno della lira e del suo tasso di cambio. Subito dopo la telefonata, Ciampi “tornò nella stanza che era pallido, anzi quasi bianco in volto”, avrebbe ricordato Amato. Alla cornetta, il banchiere centrale tedesco aveva stabilito un temibile precedente: non soltanto aveva sospeso il suo sostegno a un altro paese fondatore, ma lo aveva fatto cestinando un’intesa comune in nome di una clausola eccezionale fino a quel momento tenuta segreta a tutti i partner europei. Si riferiva alla cosiddetta “lettera Emminger”, messa nero su bianco nel lontano 1978 dall’allora governatore Otmar Emminger e vidimata dal cancelliere Helmut Schmidt – sempre al riparo da occhi indiscreti – come conditio sine qua non per dare vita al Sistema monetario europeo (Sme) con l’avallo dei custodi della stabilità monetaria insediati a Francoforte. Arrivò dunque una doppia iniezione di sfiducia da parte della Bundesbank, con effetti negativi portentosi per la costruzione comunitaria. La tempesta finanziaria di quelle settimane, nata anche in ragione delle incertezze circa l’esito del referendum francese sull’approvazione del Trattato di Maastricht (già bocciato dalla Danimarca), non fece infatti che aggravarsi: dopo poche ore il nostro paese dovette abbandonare lo Sme, seguito poi dal Regno Unito. “In appena sei mesi, la lira italiana si svalutò (ovvero, il suo tasso di cambio si deprezzò) di oltre il 20 per cento – ricorda Emanuele Felice in “Ascesa e declino” (Mulino) – Tutt’altro che infondato era il timore che alla crisi valutaria ne seguisse una finanziaria: dato che il valore della lira era crollato, si era ugualmente ridotto il valore reale dei titoli del debito italiano, e ciò aveva portato a un rapidissimo innalzamento dei tassi d’interesse. In quei mesi a cavallo fra 1992 e 1993 si materializzò il rischio di una fuga dai titoli del debito pubblico italiano. E con esso, quello della bancarotta finanziaria del paese”. Ventiquattr’ore dopo la fatidica telefonata di Schlesinger, l’allora quarantacinquenne Draghi – nominato da un anno direttore generale al Tesoro – partecipò a una riunione concitata in Via XX Settembre con il ministro Barucci, il governatore Ciampi, il direttore generale di Palazzo Koch Dini, Francesco Alfonso (Banca d’Italia, che funse anche da interprete), insieme con due ospiti arrivati apposta dalla Germania: il segretario di Stato alle Finanze, Horst Köhler (poi dal 2004 al 2010 presidente della Repubblica federale tedesca), e Hans Tietmeyer, vicepresidente della Bundesbank (e poi dal 1993 al 1999 presidente della stessa).
Nell’autunno 1992, Draghi entrò dunque nella task force ristretta che dovette tamponare choc valutario, choc finanziario e rischio crac per il nostro paese: un impegno che prese varie forme nei mesi e anni successivi, dal programma monstre di privatizzazioni alla riforma delle regole bancarie, solo per citare due capisaldi. “Quell’esperienza vissuta nel 1992 ha probabilmente influenzato il suo comportamento in ogni situazione di stallo che si è verificata successivamente con la Bundesbank”, sostiene David Marsh, capo dell’Omfif (Official Monetary and Financial Institutions Forum) e autore negli anni 90 di un libro fondamentale sulla Banca centrale tedesca, intitolato “The Bundesbank: the bank that rules Europe”.
Oggi il fantasma di Schlesinger è tornato ad aggirarsi per l’Europa e alberga ancora nella Bundesbank, guidata questa volta da Jens Weidmann. Economista, Weidmann è nato nel 1968 nella città di Solingen, nella regione del Nord Reno-Vestfalia, ribattezzata “Klingenstadt”, o città delle lame, per la sua lunga tradizione nel forgiare e affilare spade e coltelli. Indipendenza e autonomia del banchiere centrale sono nel Dna della Bundesbank che – così vuole la vulgata storica – è stato trasferito pari pari nella Banca centrale europea, istituzione europea non a caso rimasta a Francoforte, a poca distanza dall’originale. Tuttavia ritratti fugaci di Weidmann compaiono finora soltanto nelle biografie di un personaggio tutto politico come la cancelliera tedesca Angela Merkel. Prima del 2006 era transitato al Fondo monetario internazionale e per due anni (dal 2004) al centro studi della Bundesbank. Nel 2006, però, diventa un personaggio pubblico, seppure non smanioso di visibilità: viene chiamato alla cancelleria da Merkel per affiancare Steffen Seibert, il portavoce del capo di governo, Eva Christiansen, consigliera e amica di Angela, e Nikolaus Meyer-Landrut, potente capo di gabinetto per gli Affari europei, cioè il ristretto gruppo di coloro con cui la donna più potente d’Europa si dava del “tu” e si scambiava sms di continuo. Dopo questa full immersion politica, nel 2011 torna alla Bundesbank senza passare per il via, direttamente al posto di governatore. Attribuirgli tutte le manchevolezze dell’attuale Eurozona sarebbe errato, ridicolo. Eppure c’è un “Lodo Weidmann” che da settimane sta complicando maledettamente le cose, anche per Draghi. Vediamo perché.
L’Eurozona attraversa una fase di impasse per varie ragioni, interne ed esterne ai suoi confini. Il rallentamento della crescita mondiale ha colpito anche i paesi emergenti, figurarsi il nostro continente che già prima faticava a far cicatrizzare le ferite della recessione. Detto ciò, non è un caso che le turbolenze finanziarie colpiscano soprattutto il comparto bancario. E’ lì – oltre che sulla gestione dell’immigrazione – che si manifesta di nuovo e in misura macroscopica la carenza di fiducia reciproca tra stati membri. Un problema esistenziale per la moneta unica, come noto ormai da quell’autunno 2009 in cui il premier greco Papandreou svelò che i conti pubblici di Atene erano meno sostenibili di quanto appariva sulla carta. Nell’anno di grazia 2016, ci risiamo. Perché le banche? Perché è lì che secondo Draghi – nel frattempo divenuto nel 2011 presidente della Banca centrale europea – si sta realizzando la riforma della governance del continente più importante da quando fu introdotto l’euro: l’Unione bancaria. Tuttavia è proprio sul dossier Unione bancaria che Weidmann si è attestato impugnando un seguito ideale della “lettera Emminger”.
Draghi, nel suo discorso di lunedì prossimo al Parlamento europeo, ribadirà che l’Unione bancaria è già costruita per circa i quattro quinti del progetto originario: il supervisore unico (Ssm) degli istituti di credito maggiori è in funzione, così come da un mese e mezzo sono in vigore le regole del bail-in per salvare le banche in difficoltà senza attingere alle tasche dei contribuenti e a Bruxelles si è insediato inoltre il Comitato direttivo del Sistema unico di risoluzione (Srm). Si sta costituendo, seppure troppo lentamente, il Fondo unico di risoluzione (Srf): 55 miliardi di euro, dal 2024, versati da tutte le banche dell’euro, per rendere tangibile e credibile la capacità di intervento dell’Srm. Nessuna traccia, invece, del terzo pilastro dell’Unione bancaria, vale a dire un’assicurazione sui depositi a livello europeo. Per Draghi è fondamentale che si faccia: non soltanto per ridurre le distorsioni competitive tra gli attuali sistemi nazionali di tutela dei correntisti, ma soprattutto per “ragioni psicologiche”. La mancanza di una rete di sicurezza comune e nuova di zecca intimorisce i cittadini, e allo stesso tempo costituisce un vulnus per tutta l’Unione bancaria che rischia di diventare agli occhi dei mercati l’ennesimo strumento realizzato solo a metà e dunque difficile da usare in maniera efficace. Ai piani alti dell’Eurotower si diffida di una replica di quanto avvenuto con lo European stability mechanism, o Esm, il Fondo salva stati così difficile da attivare – Berlino ha insistito per avere anche un potere di veto – da essere diventato respingente per i governi potenzialmente interessati. Cosa risponde Weidmann? Che la garanzia comune sui depositi, il terzo e ultimo pilastro dell’Unione bancaria, equivale a una condivisione indebita di rischi bancari che mette a repentaglio i contribuenti tedeschi. Quindi, nein. A meno che – aggiunge il governatore tedesco – non sia rispettata una nuova condizione, finora mai legata al completamento dell’Unione bancaria: quest’ultima non vedrà la luce fino a quando tutti gli stati dell’Eurozona non avranno totalmente spezzato il nesso tra rischio sovrano e rischio bancario. In concreto, lo scorso autunno Weidmann ha convinto il ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble, che di garanzia comune sui depositi si può parlare solo a patto che si metta in agenda un cambiamento delle regole sulla valutazione del rischio dei titoli del debito sovrano in pancia alle banche. Risultato: al Consiglio europeo dello scorso ottobre, di fronte al veto della cancelliera Merkel – sostenuta in quell’occasione da Mark Rutte (premier olandese), Donald Tusk (presidente del Consiglio Ue) e a sorpresa da Mariano Rajoy (ex premier spagnolo) –, il pimpante Jean-Claude Juncker dovette far scomparire il riferimento esplicito a un rapido completamento dell’Unione bancaria e in particolare alla garanzia comune sui depositi che invece era presente nelle bozze.
Il “Lodo Weidmann”, esattamente come la “lettera Emminger”, è temibile per le sue conseguenze economiche e politiche. A proposito delle prime, oggi il rischio legato ai titoli di stato europei è considerato pari a zero ai fini delle valutazioni dei bilanci; da domani, invece, se passasse il Lodo, dovrà essere diversificato in base allo stato di salute dei diversi paesi. Una controproposta irricevibile per Roma (“l’Italia è fortemente contraria”, ha detto ieri il ministro Padoan), visto che la Banca d’Italia ha sempre sostenuto che i titoli sovrani – quale che sia il rating dei paesi emettitori – devono continuare a essere considerati “risk free” nella valutazione dei bilanci, pena la messa in ginocchio di banche e assicurazioni del nostro paese che detengono quasi 400 miliardi di euro di titoli di stato nazionali. Agli occhi di Draghi si pongono due ulteriori questioni. Quella puramente finanziaria, vale a dire i contraccolpi psicologici per correntisti e investitori che, in maniera diversa, reagiscono di fronte all’ennesima arma anti-crisi un po’ spuntata. E poi quella propriamente politica, quasi esistenziale per l’euro: se si ammette, nero su bianco, che secondo le autorità europee un titolo di stato italiano a bilancio impone alle banche maggiori accantonamenti di capitale di un titolo tedesco, insomma se per legge occorrerà cautelarsi perché alcuni paesi rischiano più di altri di andare in default, c’è da giurare che in molti nel mondo si soffermeranno solo sull’ultima parola: default. E’ ammissibile per quel Draghi che ha risollevato l’euro promettendo di fare “whatever it takes”, tutto il necessario, per salvarlo?
Certo non è la prima volta che Weidmann e Draghi si trovano su fronti opposti della barricata. Sgomberiamo il campo da qualche cliché: Weidmann è persona affabile, la sua ortodossia monetaria non si specchia in modi di fare spigolosi come molti europei sarebbero forse portati a pensare a forza di titoli terrorizzanti sulle sue dichiarazioni; come la maggior parte degli economisti tedeschi (e a differenza di Draghi che conseguì il dottorato al Mit di Boston) non ha una formazione accademica anglosassone ma puramente franco-tedesca (e da qui anche il suo francese fluente). Eppure l’abito fa il banchiere centrale, fin dall’inizio della crisi dell’euro. Si pensi a quanto accaduto nel 2010, nel primo anno di emergenza conclamata dell’euro. A maggio il presidente francese Nicolas Sarkozy disse pubblicamente che, per fermare il contagio che s’irradiava dalla Grecia, la Bce avrebbe dovuto acquistare titoli di stato dei paesi periferici. La Bundesbank rumoreggiò eccome: per il governatore Axel Weber, l’Europa stava per violare il divieto di bail-out aiutando la Grecia e adesso anche il divieto di finanziamento monetario dei deficit pubblici. Troppo per una sola primavera. Jean-Claude Trichet, il predecessore francese di Draghi alla guida della Bce, fece trapelare in tandem con Merkel il fastidio per l’ingerenza dei governi nelle scelte di politica monetaria. Dopodiché però la cancelliera, alla fine di una riunione dei leader europei, si avvicinò a Trichet sussurrandogli: “Siamo pienamente fiduciosi del fatto che farai tutto ciò che avrai bisogno di fare”. Fu quello il momento in cui Berlino diede il via libera al programma Smp, annunciato dalla Bce il 14 maggio 2010, e che consisteva in acquisti (morigerati e temporanei) di titoli di stato per i paesi in estrema difficoltà. Weber capì che Merkel, per la sopravvivenza dell’euro, aveva deciso di aggirare la sua opposizione argomentata in punto di diritto, e poco dopo si dimise clamorosamente dalla Bce.
Weidmann, subentrando a Weber, smise subito i panni più politici indossati con nonchalance negli anni di lavoro alla cancelleria. Ciò divenne chiaro nel 2012, al momento di opporsi al “whatever it takes” di Draghi, lo slogan che anticipò l’Omt (Outright Monetary Transactions) o “scudo anti spread”. Il banchiere centrale tedesco non lesinò critiche al presidente italiano. Prima fece trapelare che l’annuncio di Draghi a Londra, nel luglio 2012, non era stato concordato con i colleghi della Bce. Poi arrivò a paragonare Draghi nientemeno che al diavolo. Più precisamente, e più teutonicamente, disse che l’Omt ricordava le scelte di politica monetaria consigliate da Mefistofele all’imperatore del Sacro Romano Impero nell’opera di Goethe: “Nel Faust lo stato riesce a liberarsi dei debiti stampando denaro, mentre la domanda dei consumatori aumenta creando una forte ripresa – disse a settembre – Questo in futuro genera un’inflazione che distrugge il sistema monetario e porta a un rapido deprezzamento della valuta”. Merkel, che fino a quel momento non si era certo sbracciata per una maggiore espansione monetaria, al momento opportuno replicò il movimento del 2010: lasciò quindi le citazioni faustiane al suo Jens, triangolò con Draghi tramite Jörg Asmussen (già ministro socialdemocratico e allora membro del comitato esecutivo della Bce molto affiatato con Draghi), e in definitiva assicurò alla Banca centrale la copertura politica della prima economia del continente.
[**Video_box_2**]Weidmann non demorde. Nell’estate 2013, quando l’Omt arriva a essere giudicato dalla Corte costituzionale di Karlsruhe su iniziativa di alcuni cittadini tedeschi, il presidente della Bundesbank si presenta davanti ai giudici per svolgere la sua arringa. Da primo azionista singolo della Bce, si schiera contro la Bce, spiegando che il confine tra la politica monetaria e quella fiscale viene reso “più confuso” dal programma Omt. E aggiunge che gli acquisti di bond potrebbero compromettere “il ruolo disciplinatorio” dei mercati finanziari, che tendenzialmente premiano i comportamenti corretti e puniscono quelli errati.
L’inizio del 2015 è stato il momento del secondo stentoreo nein di Weidmann, in occasione del lancio del Quantitative easing (o allentamento monetario) in versione europea. Questa volta il banchiere centrale tedesco precisò di non avversare in linea di principio il Qe, ma di essere convinto che era troppo presto per lanciarlo. Secondo il Centro studi della Bundesbank, il livello dei prezzi e la quantità di credito bancario erogato stavano moderatamente tornando a salire già alla fine del 2014. Obiezioni per ora non raccolte; anzi, vista la congiuntura, quasi tutti gli analisti scommettono sull’irrobustimento degli acquisti di 60 miliardi mensili di titoli e asset lanciati la scorsa primavera e destinati a durare almeno fino al marzo 2017.
Adesso però è il terzo nein di Weidmann a preoccupare, quello pronunciato contro il completamento dell’Unione bancaria. L’insistenza sul voler ponderare il rischio dei titoli sovrani dei diversi paesi è la dimostrazione definitiva che il banchiere centrale tedesco, oltre a tutelare a suo modo l’indipendenza della Bundesbank e a perseguire una politica monetaria improntata ai princìpi del cosiddetto ordoliberalismo (e che l’Economist ha definito più sprezzantemente “eccessivo legalismo”), ha una precisa visione a tutto tondo del processo d’integrazione europea. Una visione confliggente, almeno in parte, con quella di Draghi, ma sempre più in voga nell’establishment tedesco. Martin Sandbu, inviato del Financial Times, nel suo libro “Europe’s orphan” appena pubblicato per Princeton University press, la sintetizza così: “Weidmann ha formulato la distinzione tra un’unione fiscale piena e un ‘ritorno a Maastricht’ in cui invece non esistono trasferimenti fiscali da uno stato all’altro e in cui gli stati riacquistano la libertà di indebitarsi a piacimento ma allo stesso tempo incorrono nella possibilità di andare in bancarotta se esagerano. La scelta, per Weidmann, è profondamente politica. Ma la sua strada preferita è quella che sembra portare indietro, dritti verso Maastricht”. E’ come se ai vertici della Bundesbank, non avendo digerito il fatto di essere costretti spesso in minoranza (dai tempi di Weber), prevalesse ora l’idea che un coordinamento a trazione tedesca e imposto dall’alto è auspicabile ma difficile da far rispettare sempre e comunque. Meglio dunque rinazionalizzare alcuni rischi, a partire da quelli sovrani e bancari. E’ la “lettera Emminger”, di nuovo. Come uscirne? Di fronte alle nuove condizioni sull’Unione bancaria poste da Weidmann, al momento sostenute da Berlino e da pochi giorni anche dalla Banca centrale francese, Draghi finora ha detto che riduzione del rischio e condivisione dello stesso devono “procedere in parallelo”. Ha ragionato su ipotesi di compromesso, che non valgano quindi per il pregresso come invece vorrebbe Weidmann. Per esempio: fissare per le banche un limite ai soli acquisti futuri di titoli statali del paese di residenza; oppure far pagare un premio aggiuntivo sugli acquisti di titoli di stato a quelle banche considerate più a rischio. Personalmente, però, si chiede se valga la pena avviare proprio ora un dibattito dagli esiti incerti in materia di banche. Dopodiché, il presidente della Bce non finge di ignorare l’esistenza di un vincolo politico. Merkel nel 2010 e nel 2012 fece una scelta di campo, a costo di deludere Weber e Weidmann. Oggi può replicare quello schema? Da una parte c’è chi sostiene che anche lei, di fronte al progressivo svuotamento del Fiscal compact, abbia perso fiducia nella forza ortopedica di Berlino rispetto al “legno storto” dei paesi spendaccioni e indisciplinati; dunque chacun pour soi, sui rischi bancari e magari sulla gestione dell’immigrazione. Ma c’è anche chi immagina la cancelliera in una spregiudicata alleanza politica con il baluardo europeista dei Verdi tedeschi, per emanciparsi un’altra volta dai montanti umori euroscettici nel suo paese. E per aggirare il Lodo Weidmann al quale Draghi non intende impiccarsi.
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