La casa dei Maghi
La Casa dei Maghi è Porta Maggiore, “punto di convergenza del più importante gruppo di acquedotti della Roma imperiale” (l’acqua è elemento fondamentale, imprescindibile per ogni opera di trasmutazione) e “si nasconde al di sotto di sette metri dal livello dell’attuale via Prenestina”. Così è scritto nel sito della Soprintendenza speciale per il Colosseo, il Museo nazionale romano e l’Area archeologica di Roma guidata da Francesco Prosperetti.
La Casa dei Maghi, oggi nota come la Basilica sotterranea neopitagorica di Porta Maggiore, è stata riportata alla luce “casualmente” nel 1917, in seguito al cedimento del terreno lungo la linea ferroviaria Roma-Cassino, per l’esattezza il 23 aprile che nell’antico Kalendarium è dedicato ai Vinalia Priora, festa del vino nuovo (Calpar) che innesca l’estasi amorosa propiziata da Liber Pater (Bacco-Dioniso) e posta sotto la tutela misuratrice di Giove. Insomma un giorno fausto. Martedì scorso sono sceso nel santuario, ospite della direttrice Anna De Santis, archeologa, che però era impegnata altrove. Mi ha accolto Giovanna Bandini, storica dell’arte e responsabile dei lavori di restauro (completa la squadra l’architetto Maddalena Scoccianti). Prima d’iniziare la visita, ci siamo trovati d’accordo su un punto: la Basilica è viva, nel senso che è animata da una presenza sopravvissuta ai millenni e che ha anche la specialità di legare a sé chi vi lavora per un certo tempo. Qualcuno chiama questa presenza “l’animale”, ma in modo benevolo e mi fa subito pensare al “Fauno di marmo” dello scrittore statunitense Nathaniel Hawthorne (1860), ovvero al Giardino di Dioniso plutarcheo, lì dove il nume fragoroso (Bromio) assume la forma di giovane capro o di toro. Al mio fianco sono idealmente presenti anche Enea Lanari, fra i primi studiosi italiani della Basilica nel secolo scorso, pitagorico manifesto ma di rito essenico (cave superstitionem!), e Domizia Lanzetta, gentildonna e mitologa romana recentemente scomparsa, autrice di un volumetto che sarà la nostra guida occulta (“Roma orfica e dionisiaca nella Basilica ‘pitagorica’ di Porta Maggiore”, Simmetria edizioni, 2007) e nella quale trovo scritto: “Alcuni riferiscono che, appena ci si entra, si viene subito sopraffatti dalla sensazione che una divinità sia presente; una divinità dal doppio volto e dalla doppia natura, che sviluppi e risolva in se stessa ogni contraddizione possibile”. Basterebbe questo per comprendere il perché la Basilica fu voluta, creata, consacrata da un sodalizio di sapienti; e presto temuta, chiusa, depredata e distrutta (dicono dal potere imperiale: Nerone) in un arco temporale che i più datano alla metà del I secolo dell’èra volgare. E’ opinione comune che l’edificio fosse compreso nelle vaste proprietà della Gens Statilia, il cui esponente principale era allora Tito Statilio Tauro (nipote di un omonimo Tito Statilio Tauro già amico di Augusto), che ebbe fama di mago e per questo fu citato in giudizio dalla madre di Nerone, Agrippina. Tauro, nobiluomo, si suicidò nel 53 e.v. per aggirare il disonore di un processo. Lanari precisa che questo avvenne “in seguito a un atto del Senato Consulto, atto per il quale l’Alto Consesso domandava all’Imperatore l’esilio dall’Italia di tutti i matematici – vale a dire i Pitagorici, che in qualche centinaio di anni si erano moltiplicati a Roma” (“Insegnamenti Pitagorici per la Conoscenza della Causa Causarum”, Accademia di Filosofia italica “Pitagora”, 1954). E noi sappiamo per certo che la vicenda ha radici più lontane, perché già nell’ultima stagione della Repubblica il maggiore esponente pitagorico aveva restaurato il sodalizio schierandolo, in perfetta continuità con l’insegnamento aristocratico del Maestro, contro gli eccessi demotici dei populares di Giulio Cesare. Costui era Publio Nigidio Figulo, senatore d’origine etrusca (la Gens Nigidia di Perugia), ierofante e divinatore, amico intimo di Cicerone, morto in esilio per volere di Cesare dopo la vittoria sui pompeiani. In lui, il dittatore perpetuo paventava non un nemico politico ma un potente mago. Fu lui il capo indiscusso di coloro che avrebbero più tardi costruito questa “Casa della Sapienza” che, con tre navate e un’abside centrale per gli arcana arcanorum iniziatici, rappresenta curiosamente il modello architettonico degli edifici cristiani…
Costeggiato un tratto residuo del corridoio (dromos) angolare, si accede al vestibolo della Basilica al di sopra del quale è un lucernaio che riproduce esattamente il perimetro del tempio con la sua abside. Un senso di calor bianco all’altezza del plesso solare accompagna i visitatori non dormienti, “l’atmosfera del luogo è inequivocabilmente dionisiaca”, scrive Lanzetta, “nasce subito il sospetto di trovarsi in un luogo dedicato al culto delle Anime”. Il segnacolo bacchico è nei quattro medaglioni che decorano le pareti inquadrando altrettante menadi in groppa a una pantera. “La Basilica conserva il complesso più ricco di stucchi decorativi che il mondo romano ci abbia finoggi tramandato”, scrive Salvatore Aurigemma in una delle rare monografie sul nostro tempio (“La Basilica sotterranea neopitagorica di Porta Maggiore”, Istituto poligrafico dello Stato, 1961). La volta d’ingresso è presidiata dallo stucco di Medusa, la Gorgone che impietra gli indegni col suo sguardo diaccio, testimone della fredda qualità magica del luogo.
Entrati nella cella, la direttrice Bandini indica sul pavimento tre scassi quadrangolari lì dove erano altrettanti altari. Quello centrale aveva forse la superficie scolpita a forma di pelle caprina (sempre Dioniso…), una sua particolarità è stata scoperta da recenti studi di archeoastronomia in base ai quali su questa ara doveva riflettersi la luce proveniente dal lucernaio: “Supponendo che il piano dell’altare si trovasse a circa 90 cm dal livello del pavimento (altezza usuale degli altari romani) e che su di esso fosse posta una superficie riflettente, la luce è stata vista incidere sul piano dell’altare, proiettando, a causa della particolare forma della finestra, una figura circolare sul piano ipotizzato per l’ara, e poi riflettersi sulla volta della navata centrale illuminando con uno spot circolare lo stucco al centro di questa che rappresenta, secondo l’interpretazione corrente, il Ratto di Ganimede” (Aa. Vv., “Atti del XII Convegno della Società italiana di Archeoastronomia”, La Città del Sole, 2014).
Bisogna dunque immaginarsi un sodalizio misterico che utilizzava le raffigurazioni mitiche e simboliche degli stucchi come “supporti contemplativi” di una preparazione rituale? E’ la tesi di Nuccio D’Anna (“Publio Nigidio Figulo – Un pitagorico a Roma nel I secolo a.C.”, Archè, 2008). Grazie a Jérôme Carcopino, il primo studioso a leggere pitagoricamente l’architettura della Basilica – “La Basilique pythagoricienne de la Porte Majeure”, L’Artisan du livre, 1944 – sappiamo che nel tempio erano collocati 28 seggi, e 28 è appunto il numero perfetto dell’aritmosofia pitagorica, frutto dell’incontro tra il numero verginale (“non generante, indivisibile e ingenerato”; D’Anna) e la sacra tetrade (7X4). Ai ventotto Maghi della Basilica si apriva, sotto il baluginìo di candele in cera d’api, la visione panoramica del percorso iniziatico indicato dagli stucchi. Qui non è possibile passarli in rassegna se non rapsodicamente, cominciando dalla vista di Ekàte. Con la sua fiaccola scintillante, la triforme dèa viene incontro all’iniziando per rammentargli che il suo percorso dovrà culminare nella conoscenza dei tre mondi – catactonio, terrestre e uranico – e che nessun passaggio di stato sarà possibile senza avvalersi della funzione mediatrice di un essere femminile. E le figure feminee dominano, nella Basilica: hanno il volto di Arianna, sposa di Dioniso, Anima mundi troneggiante nella navata di destra mentre accoglie le anime nei Campi Elisi (Lanzetta), Elena che imbraccia il Palladio, ovvero la sapienza armata minervale, di fronte a un Ulisse nudo e non ancora iniziato (Lanari); e ancora Elena-Selene, dèa Luce lunare rapita dal pastore frigio Paride; Medea che incanta il gran serpe della Colchide che custodisce il Vello d’Oro, a beneficio di Giasone ovvero al cospetto di Frisso; Ifigenia sacrata agli inferi dall’indovino Calcante per propiziare la partenza degli Achei verso Troia (salvata da Diana, diventerà sua sacerdotessa in Tauride)… Insomma un gineceo di forze la cui manifestazione occulta è racchiusa nei mitemi di fabulae antichissime che non si leggono letteralmente (come fanno invece gli stolti, esemplificati dai Pigmei), vanno comprese con intelligenza cardiaca, mai svelate né usate come alimento della propria superbia. Pena il supplizio del sileno Marsia rappresentato all’inizio della navata di sinistra. Costui, raccattate le canne del doppio flauto gettate sdegnosamente da Minerva – erano capelli di Medusa, la dea virginale li aveva caricati di sapienza provando a suonarli; ma poi si era vista brutta, con le guance rigonfie per lo sforzo, e aveva deciso di disfarsene – divenne un così abile suonatore da sfidare, o folle, nientemeno che Apollo ovvero l’Armonia Universale. Lanari coglie il punto: “Marsia era uno che era stato da poco ammesso all’iniziazione e poteva solo comprendere che cosa siano e in cosa consistano veramente i Misteri, ma convinto di essere in possesso del Sapere, con una audacia spiegabile solo con la sua ignoranza, ha osato sfidare Apollo”. Marsia perse la contesa e il dio lo fece scuoiare: chi possiede la chiave dei Piccoli misteri eccelle, ma non può disputare con un nume se non ha già penetrato i Grandi misteri. Lanzetta coglie il lato bacchico del racconto: come Dioniso, Marsia “non muore veramente, il suo sangue effuso si trasforma in fiume, cioè in qualcosa che è metafora del divenire stesso”. Ma nella Basilica c’è anche Agave-baccante che spicca la testa a suo figlio Penteo, perché chi rifiuta il divenire dionisiaco con ottusa presunzione è destinato a perdersi.
La Basilica è luogo d’incontro tra essere e divenire, una sotterranea Delfi romana in cui Apollo e Dioniso convivono in fraterna sodalità. Come i Dioscuri, il mortale Castore e il non mortale Polluce, fratelli di Elena, rappresentati sugli stucchi nell’atto di rapire le luci-fere Leucippidi (bianche cavalle del cielo, figlie di Apollo). Dice Lanari: “Furono detti Dio-scuri da Div risplendere e da Skur tagliare. Perché essi tagliano il giorno allorché deve far posto alla notte e, in altro momento, la notte quando deve far posto al giorno”. I Dioscuri sono eroi argonautici, i Grandi Dei cabirici di Samotracia “che è sacrilegio nominare tranne che per coloro che sono addetti ai misteri” (Nigidio Figulo), i Penati dardanici di Roma: salvifici, innalzano gli iniziati oltre le acque del divenire; cavalieri astati, proteggono il suolo italico dalla barbarie. Non per caso, dunque, dal lucernaio della Basilica sono Castore e Polluce nella loro forma stellare a essere visibili al buio dagli iniziati pitagorici. E come loro soltanto altre due costellazioni: la Lyra apollinea e la Corona Boreale, frutto di un asterismo a forma di “Y”, il bivio tra “inferno terrestre” e “paradiso celeste” (Carcopino), “simbolo che traduceva nei termini della tipica esemplificazione pitagorica il famoso mito di Herakles fermo davanti al bivio dell’esistenza” (D’Anna). Ercole non può mancare perciò, nella Basilica: l’eroe civilizzatore vi riceve i pomi delle Esperidi, essendo iniziato ai Misteri Eleusini qui simboleggiati da un altro eroe civilizzatore: Trittolemo, figlio di Orfeo, cui Demetra trasmette i sacri riti solennizzati dalla spiga (pyròs) e cioè “del fuoco” (pyr) magmatico di Dioniso, nelle vesti del Cabiro tebano “nato dal fuoco” (Pyrigenetés) (Lanzetta).
[**Video_box_2**]Tempio oracolare – lo dimostra anche la presenza incombente del Radon, un gas vulcanico radioattivo arieggiante nelle latebre del santuario delfico e nell’antro pitico di Giove Fanciullo a Terracina – la Basilica culmina in un’abside consacrata dal sacrificio di un cane e di un porcellino, e occupata in origine da un seggio sul quale veniva inscenata la Thronesis dionisiaca, l’intronizzazione di Bacco fanciullo rinato su ordine di Giove per riscattare lo smembramento titanico di suo figlio, concepito con la Rossa Persefone, dea-Patria degli Italici. L’abside è sovrastata da uno stucco in cui una donna (l’Anima!) si getta da una rupe (Leucade?), spinta da Eros, guidata sull’altra sponda da Apollo Lungisaettante e attesa nelle acque da un nume che spiega un lungo manto a mo’ di vela: è il velo purpureo di Ino-Leucotea, l’Aurora, Mater Matuta della rinascita iniziatica in cui ciò che sta in alto (Apollo Peàn, fuoco celeste rappreso nel Sole) è come ciò che sta in basso (Dioniso Evio, fuoco liquido di sotterra) per compiere il prodigio della cosa unica (Orfeo-Fanes): a Roma, che “alla rovescia è Amor”, perché “Roma-Amor-Orma-Maro furono nomi iniziatici dell’Urbe che era il sacrario occulto dove si faceva il caldo e il freddo” (Giuliano Kremmerz).
Di questa grande opera ermetica, di là dai manufatti di pietra e stucco, resta un clima psichico, una presenza. Impossibile darle un nome, se avesse un volto sarebbe sfuggente, derisorio ed enigmatico. Un fauno, forse, che fa selezione all’ingresso, produce muffe di ogni genere – “ho pianto per lo scoramento, prima di debellarle”, ammette Giovanna Bandini – e custodisce un segreto senza tempo che conduce al ricordo di sé.
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