L'affaire Casaleggio
Via Gerolamo Morone è quella strada linda ed elegante del quadrilatero della moda milanese che porta a Casa Manzoni, un po’ Brera e un po’ via Montenapoleone, in tre minuti si arriva a piedi in Via filodrammatici, quindi alla Scala, poi un altro passo ed ecco la Madonnina. E’ una Milano che abita, nascosta, in palazzi antichi con atrio spazioso e bel cortile insospettabile. L’affitto medio di un ufficio di rappresentanza, o di un appartamento, tra la boutique di antichità e il grande negozio del design di lusso, è di circa 30 euro al metro quadro. Ed è qui al numero 6 la Casaleggio Associati, disposta in un luminoso appartamento di circa duecento metri quadrati, cinque stanze di cui una molto grande, la sala riunioni, uno spazio cucina, e il piccolo ufficio di Gianroberto Casaleggio: parquet chiaro, muri di un bianco stinto, quasi nulla appeso alle pareti. Stanze, pavimento, sedie, computer e i quindici tra soci e collaboratori di età compresa tra i trenta e i quarant’anni, si confondono in piena e silenziosa armonia come pezzi di una composizione di elementi tutti uguali, fatti della stessa materia.
Malgrado siano quasi tutti giovani, e anche molto giovani, si scherza pochissimo. E chini sulle scrivanie, s’avverte soprattutto un battere di tastiere, uno scrollare di mouse, talvolta un sospiro. E’ un luogo razionale, con una sua rituale eleganza, scandita dal contrappunto di varie piante, verdi e a tronco, alte e basse, semi rampicanti, e dalla serie delle bellissime e costose lampade da tavolo, le Artemide Tolomeo.
Casaleggio è per i suoi collaboratori, e persino per gli ex collaboratori che di lui parlano quasi tutti benissimo, l’oggetto meccanico, e allo stesso tempo umano, della proprietà assoluta, totalitaria e demiurgica. La Casaleggio Associati. Diecimila euro di capitale originariamente versato e diviso tra Casaleggio e suo figlio Davide (2950 euro ciascuno), Mario Bucchich e Luca Eleuteri (con 1900 euro di quote), e, prima che lasciasse in fortissima polemica (“Grillo è un megafono che ripropone delle elaborazioni che non necessariamente gli appartengono”) Enrico Sassoon. Più di recente si sono aggiunti due ex dipendenti, Maurizio Benzi e Marco Maiocchi. E tanto Casaleggio appare ieratico, quanto il suo braccio destro Eleuteri – lavora a Milano, ma vive a Genova “per via dello smog” – è invece estroverso, spiritoso, per quanto sia pure lui intimamente persuaso, come del resto anche tutti gli altri, delle stranezze apocalittiche del suo mentore (tipo: la profezia della terza guerra mondiale che scoppierà nel 2020). Anche Davide Casaleggio, il numero due dell’azienda, non sembra figlio di suo padre, nessuno sguardo remoto da bonzo tibetano e niente capelloni. Ma alto e slanciato, con un bel sorriso sui denti bianchissimi, Davide ha piuttosto l’aria del bravo ragazzo uscito da una università americana, malgrado sia proprio lui l’addetto alla procedura delle “disattivazioni” sul blog: il meccanismo con il quale – raccontano i militanti – viene soppresso il dissenso nel corso delle frequenti votazioni web alle quali sono chiamati gli attivisti dell’M5s. E questa pratica della disattivazione merita una parentesi.
“Guardi, io sono stato ‘cancellato’, da un giorno all’altro, ‘disattivato’ dal blog, silenziato da qualcuno che a Milano ha premuto un pulsante”, dice Alessandro Cuppone, un fondatore del Movimento a Bologna, più di dieci anni di attivismo. Non l’unico sbianchettato, per la verità una cosa simile è successa a Bologna anche a Lorenzo Andraghetti, altro militante storico. Cuppone lo racconta, ancora, dopo tre anni, con un misto di stupore, divertimento e amarezza: “Ero candidato alle parlamentarie, per le elezioni del 2013. Avevo completato tutta la procedura, ma quando stavo per caricare il video di presentazione, come tutti gli altri, ho improvvisamente notato che era sparita la mia candidatura”. E non una candidatura qualsiasi. Cuppone era uno dei più conosciuti, attivi e apprezzati militanti di Bologna. “Sparita. Non ero più candidabile. Non esistevo. Allora chiamai Marco Piazza e Massimo Bugani, attivisti come me a Bologna, e cercai a telefono anche Filippo Pittarello, uno dei collaboratori di Casaleggio, l’unico con il quale era possibile avere un rapporto diretto. Ma niente. Poi mi chiamò Beppe”. Beppe Grillo? “Sì. Mi disse che ad aprile, molti mesi prima, avevo scritto ‘una cosa su Facebook’…. Io non mi ricordavo niente. Allora gli chiedo: ‘Scusa Beppe, ma cosa ho scritto di male?’. E lui, allusivo: ‘Vai a vedere e poi mi richiami’”. Trattato come un bambino monello. “Insomma cercavo di capire cosa li avesse urtati. Mi sembrava assurdo. Poi a un certo punto ho scoperto: avevo condiviso su Facebook la foto della lettera con la quale Valentino Tavolazzi, uno dei primi epurati dal Movimento, era stato espulso. Io quella foto l’avevo condivisa per solidarietà umana, perché conoscevo Tavolazzi, sapevo che era uno per bene. Ma quel post non era di aprile, come diceva Beppe. Secondo me Grillo nemmeno sapeva le ragioni per le quali io ero stato disattivato dal blog. La verità è che ero stato disattivato perché, lì a Milano, mi consideravano inaffidabile. Era bastato pubblicare quella foto per farli spaventare. E io guardi che stavo nel Movimento dal 2005. Ci credevo, e ancora ci credo. A Bologna il movimento era una meraviglia. Avevamo davvero realizzato la democrazia diretta, assembleare, con una capacità notevole anche di selezionare persone in gamba. Ora la spinta è più alla fedeltà. Alla fine, nel 2013, dal portale di Grillo, per quanto ne so io, furono cancellati almeno trenta militanti. E consideri che io non sono mai stato espulso formalmente”. Anzi. Cuppone è il compagno storico della senatrice Michela Montevecchi, tutt’ora nel gruppo parlamentare grillino. Ma quando raccontava in giro questa storia della disattivazione, i suoi amici nel Movimento, a Bologna, che le dicevano? “Erano increduli. Ma dopo un po’ mi chiedevano: ma cos’è che hai combinato? E insomma, in buona fede o in mala fede, tutti pensavano che avessi qualcosa da nascondere. Che me l’ero meritato, per qualche oscuro motivo. Pazzesco”.
Pazzesco, ma neanche troppo. La Casaleggio Associati sembra coltivare l’idea di un antropico livellamento del gruppo parlamentare a Cinque stelle, non di diversità. La diversità, anche solo sospettata, è un pericolo. “Appena entrati in Parlamento ci ordinarono di consegnare user e password delle nostre poste elettroniche”, raccontano Walter Rizzetto e Sebastiano Barbanti, due degli oltre cinquanta parlamentari espulsi o fuggiti dal M5s.
Dice Serenella Fucksia, senatrice di fresca espulsione (è stata cacciata il 28 dicembre 2015): “A me il primo dubbio è venuto quando arrivammo a Roma. Quando mi accorsi che c’erano questi viaggi della speranza verso Milano. C’erano gruppi consolidati, che avevano rapporti diretti con questi misteriosi signori della Casaleggio. I milanesi, Bruno Martòn, Manlio Di Stefano, Vito Crimi. E poi i napoletani Ruocco, Sibilia, Fico, Di Maio. E i romani come Lombardi, Taverna e Di Battista. Andavano a Milano a fare strani corsi di comunicazione e chissà che altro”. Poi la signora Fucksia abbassa il tono della voce, e descrive una specie di clima psicotico: “Verso il 10 giugno mi hanno rubato il cellulare in Aula. Sul banco. Sono praticamente sicura che me lo hanno preso per controllare gli sms. All’inizio pensavo che mi avessero fatto uno scherzo”. Dice allora Tommaso Currò, che il gruppo della Camera lo ha lasciato 16 dicembre 2014: “L’ordine implicito è sempre stato di non fare politica, di non fare accordi, di non parlare con nessuno, di obbedire allo staff. Chi sorrideva di sufficienza, prima o poi finiva male”.
E insomma in Parlamento gli impedivano di muoversi, di mescolarsi, di fare qualsiasi cosa. Chiusi in un acquario portatile, i parlamentari si sarebbero dovuti muovere come branchi di pesci in Transatlantico: una parete di vetro li avrebbe dovuti dividere dal mondo esterno, che loro vedevano transitare deformato e fioco davanti ai loro occhi. Se pure lo vedevano. “Mi ricordo che quando discutemmo le espulsioni dei primi quattro senatori, in assemblea, lo streaming era parecchio strano. Ogni volta che parlava qualcuno in difesa di quei poveracci, succedeva una cosa incredibile: o andava via l’immagine o s’interrompeva il suono. Guardi, può darsi che fosse un caso, ma era davvero così”, ricorda il senatore Maurizio Romani, oggi iscritto al gruppo misto. E aggiunge: “E le telecamere c’erano sempre. In tutte le assemblee. Anche senza streaming. Molti di noi erano intimiditi, c’era questa idea qui: ma non è che mi buttano fuori, e poi mi espongono alla gogna su Facebook se Casaleggio s’incazza per quello che dico? Io me ne fregavo. Non mi autocensuravo solo perché c’erano delle telecamere. Molti altri no. Per un periodo ci hanno fatto firmare una liberatoria, dicevano che si trattava di girare un documentario sui Cinque stelle. Ma poi le telecamere sono rimaste sempre. C’era Nick il Nero che registrava tutto, e Claudio Messora alla regia”.
[**Video_box_2**]Messora è stato uno degli uomini della comunicazione del gruppo parlamentare (scelto a Milano dalla Casaleggio): cercato per questo articolo non ha mai risposto agli sms, alle mail, né ovviamente al telefono. Nick il nero, così chiamato perché veste sempre di nero e ha la pelle olivastra, è invece un ex camionista emiliano, anche lui addetto stampa del gruppo parlamentare M5s, molto noto in passato per alcuni video virali rilanciati dal blog di Grillo, e poi considerato fedelissimo dalle parti della Casaleggio Associati per aver contribuito alla cacciata di Giovanni Favia, di cui era amico. “Tutto il gruppo della comunicazione è stato selezionato fuori dal Parlamento e imposto al gruppo parlamentare”, racconta Mara Mucci, giovane deputata, ovviamente fuoriuscita anche lei, e poi fatta oggetto di uno spaventoso linciaggio sui social media. “Com’è arrivato Rocco Casalino, capo della comunicazione al Senato? Mi ricordo una sera in pizzeria, c’erano i milanesi, che hanno maggiore familiarità con la Casaleggio, e certamente Manlio Di Stefano. E loro dicevano: ‘Adesso vi portiamo Casalino’”. Ricorda Serenella Fucksia: “Ci hanno sempre dato ordini. Verbalmente, la mattina via mail…”. Insomma se c’era tra i parlamentari, come statisticamente ci deve pur essere, qualche tipetto cui gli dèi avevano concesso curiosità e voglia di fare, questo modo di “prendere contatto” con il Parlamento non poteva mancare di levargli dalla testa, sul nascere, ogni scintilla politica. Trascinato davanti ai corsi di “programmazione neuro linguistica”, una specie di delirio new age basato sull’idea che certe parole e movimenti possono “condizionare” le emozioni di chi ascolta e guarda, circondato dalle assemblee con telecamere a circuito chiuso, spiato dagli addetti stampa e persino dai colleghi, l’infelice parlamentare a cinque stelle non doveva sentire altro che l’obbligo di seguire il suo branco di pesci nell’aquario chiassoso.
E s’avverte nell’aria l’ambiguo e pervasivo sapore della nomenklatura, una strana e invisibile nomenklatura che a quanto pare l’Italia è riuscita a mettere insieme (miracolo nazionale dopo la caduta del Muro) senza nemmeno passare dalla rivoluzione sovietica. Racconta, per esempio, Massimo Artini, eletto deputato del Movimento cinque stelle nel 2013 ed espulso a seguito di consultazione online il 27 novembre 2014, uno dei pochi parlamentari che ha un po’ frequentato la Casaleggio a Milano: “Su tutto il territorio nazionale, in ogni regione, ci sono tre o quatto attivisti ‘sentinelle’. Forse erano ‘sentinelle’, anche Lombardi, Crimi, Fico… Le sentinelle ascoltano, controllano, leggono le chat degli attivisti, e riferiscono i loro sospetti sui militanti che secondo loro ‘deviano’”. Quando a febbraio del 2014 venne ordinata l’espulsione dei primi quattro senatori (Lorenzo Battista, Luis Orellana, Francesco Campanella e Fabrizio Bocchino), Grillo spiegò che l’idea di buttarli fuori derivava da “svariate segnalazioni dal territorio di ragazzi, di attivisti, che ci dicevano che i 4 senatori Battista, Bocchino, Campanella e Orellana si vedevano poco e male”.
Dunque prima arrivano le segnalazioni, poi a quanto pare alla Casaleggio decidono disattivazioni, cancellazioni e procedimenti di espulsione, “che chissà come mai vengono sempre accettate dal voto online”, dice Artini. E come mai vengono sempre accettate? “E chi controlla che il voto online sia regolare? Quis cutodiet custodes, chi sorveglia i sorveglianti della Casaleggio?”. Nessuno.
Ai tempi delle quirinarie, pare che Gianroberto Casaleggio si fosse rivolto a una azienda di certificazioni. Loro fecero un controllo e dissero che non potevano certificare nulla perché il sistema di voto elettronico era pieno di bug, di difetti di programmazione. E’ tuttavia improbabile che Casaleggio alteri i risultati delle consultazioni aggiungendo o sottraendo voti. Non è necessario. E’ più verosimile quello che racconta un suo ex dipendente, e cioè che negli uffici di via Gerolamo Morone 6 tutti i militanti iscritti al Movimento sarebbero schedati. Esisterebbe infatti un sistema, di banale realizzazione informatica, che registra e ricorda esattamente come ognuno degli iscritti si è espresso in ciascuna delle votazioni. E insomma Casaleggio sa più o meno come la pensa ciascuno dei militanti: chi è più di destra o più di sinistra, chi ha sempre votato contro le espulsioni, chi è a favore o contrario al reddito di cittadinanza, e così via. Ogni voto rimane registrato. Di conseguenza lui può all’incirca prevedere i risultati di qualsiasi futura consultazione. Sa, per esempio, cosa sarebbe successo se il Movimento avesse messo in votazione (cosa che non ha fatto, pour cause) il tema delle unioni civili. Dunque, se Casaleggio volesse orientare un voto, l’operazione sarebbe persino banale, come dimostra il racconto di Alessandro Cuppone sulle parlamentarie del 2013: ti disattiva. Ti fa scomparire. E nello statuto del M5s c’è scritto che può farlo. Articolo 5: “La partecipazione al Movimento è individuale e personale e dura fino alla cancellazione dell’utente che potrà intervenire per volontà dello stesso o per mancanza o perdita dei requisiti di ammissione”. L’uso di questa schedatura trasforma l’abitante della Casaleggio Associati in un’entità onnipotente nel marasma indistinto del Movimento.
Solido, vanitoso, assertivo, un po’ permaloso, gentile eppure incapace di vera empatia, Casaleggio “parla poco, non ti guarda mai negli occhi e poi, improvvisamente, interrompe il discorso, ti volta le spalle e se ne va”, ricorda Mauro Cioni, ex project manager alla Webegg, azienda di cui Casaleggio fu amministratore delegato fino al 2003. Non esce quasi mai dalla sua stanzetta di via Gerolamo Morone. E mentre gli altri, soci e dipendenti della sua azienda, vanno al bar dietro l’angolo o mordono un panino in ufficio, lui misura con lo sguardo una delle mele che tiene raccolte in un cestino, la afferra e la mangia in silenzio. Da solo. Continua a leggere
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