L'allenatore dell'Inter Roberto Mancini (foto LaPresse)

Psicopatologia di Roberto Mancini

Maurizio Crippa
Scarpe lucide, nervi tesi. L’arroganza dei timidi non va: come ha perso la testa l’Inter col suo allenatore. E’ cominciato tutto quella sera a Napoli, quando Sarri gli diede di frocio. E lui saltò su come una scheggia impazzita, lì sul campo.

Uomo che cammina sui pezzi di vetro, ha sempre danzato con eleganza, la sua eleganza, fin da quando saltava i difensori come birilli e metteva la palla sempre e solo dove decideva lui. Poi ha iniziato a muoversi elegante a bordo campo, la sciarpa, il cappotto perfetto, le scarpe lucide e il ciuffo un po’ più grigio domenica dopo domenica. Camminando sui pezzi di vetro, spigoloso, tagliente. Come certi ballerini predestinati, che se inciampano lo fanno da soli. E se si fanno male, possono farsi male soltanto da soli. La solitudine dei numeri 10, dei talenti speciali, delle psicologie fragili come pezzi di vetro che nascondono i loro segreti dentro ai riflessi. Ma sono trasparenti, al fondo. La psicopatologia di Roberto Mancini appassiona da alcune settimane la stampa sportiva, ma anche il pubblico generalista e distratto. E’ un bell’oggetto da chiacchiera. Non facile da decifrare, una tripla in schedina. E’ cominciato tutto quella sera a Napoli, quando quella psicologia basica da portuale prestato alla panchina di Maurizio Sarri gli diede di frocio, di finocchio. E lui saltò su come una scheggia impazzita, lì sul campo. E poi in televisione disse cose, parole taglienti e irrevocabili, come nessun allenatore italiano, nessuno in Italia, aveva detto mai. L’impressione fu forte, come un suo gol di tacco. E chi gli andò contro, e chi gli diede ragione. Soltanto i più accorti ebbero anche il sospetto che si fosse spezzato qualcosa, nella calma interiore-esteriore con cui si era ripresentato, di ritorno da Manchester.

 

Da lì è stato un susseguirsi di parole nervose e di battibecchi televisivi alquanto ineleganti, per un “manager” transitato dalla Premier League. Segnatamente quelli con Mikaela Calcagno di Mediaset Premium, sfanculata (a dovere, diciamolo pure) un paio di volte, ma soprattutto dopo il derby perso col Milan. Fatto che è costato al Mancio gli improperi dell’Unione stampa sportiva italiana, “un’esibizione di grande maleducazione e arroganza che non può certo essere giustificata dal risultato della partita”, assolutamente ingiustificata per “allenatori famosi e ben retribuiti come Mancini”. Roba che insomma l’Ussi, come ogni buon sindacato italico che si rispetti, è andata a chiedere un chiarificatore incontro con il presidente dell’Associazione italiana allenatori, Renzo Ulivieri.

 

Nel frattempo, la Beneamata armata dei Fratelli Bauscia, come la chiamava Gianni Brera, precipitava sul campo di male in peggio, collezionando prove opache e figure barbine. Il che, va detto, fa parte dell’eterna psicopatologia calcistica dell’Inter: non si cade (quasi) mai in piedi, dopo aver dato tutto sul campo di battaglia come degli ussari nel fango di Waterloo, no. All’Inter, squadra femmina e pazza (sempre Brera) ci si suicida sempre con uno strano, indecifrabile e altrove irripetibile mix di sufficienza, distrazione, arroganza, inadeguatezza pedatoria ben amalgamato da un allenatore ormai orbato del lume della ragione tattica (vedi esempi più sotto). Tutto questo, di solito, sconfina o trova alimento nella decisione (che davvero vorremmo credere inconscia, ma non si sa mai) dello spogliatoio di mandarlo a casa, più prima che poi, il Maledetto Allenatore di turno. Quest’anno, la strabiliante variante del consueto canovaccio nerazzurro è stata questa: che la voglia reciproca di mandarsi a quel paese, e di mandare tutto a carte quarantotto, è esplosa mentre la squadra era in testa al campionato, invidiata e inseguita dalle altre. Prima ha litigato con Stevan Jovetic, il gioiellino rilucente: criticato, emarginato, panchinato, ripescato, messo sul carrello dei partenti senza un preciso motivo, senza soluzione di continuità. Poi è toccato a Maurito Icardi (“questo lo segnavo anch’io a cinquant’anni”), tra panchine, rimproveri, elogi distribuiti senza convinzione. Può una squadra che era prima in classifica, proditoriamente o per merito, ma ordinata, quadrata, padrona di sé e del suo destino, farsi saltare i nervi? Quanto ci abbia messo di suo il Mancio, o quanto gli sia toccata, è ciò che soltanto un Sigmund Freud del pallone potrebbe stabilire.

 

Ma ogni manuale di psicopatologia nerazzurra che si rispetti non può trascurare questo cruciale capitolo: sbrocca prima lo spogliatoio o l’allenatore? Per limitarsi all’èra geologica recente, insomma all’epoca del dopo Triplete, orfana di José Mourinho, ecco alcuni brevi cenni sull’universo mentale dell’allenatore nerazzurro. Arrivò a un certo punto Gasperini (Gasp!), segaligno e naïf, ma onesto lavoratore e con una o due sue idee di gioco. Gli costruirono una squadra pensando a un altro allenatore. Chiedi due ali e ti comprano due polli, è un problema. Iniziò non malaccio, incominciarono a dirgli che doveva piantarla con la difesa a tre. Lui si intestardì a togliere Pazzini e mettere Alvarez, lasciava in panca Milito per mettere Zarate. Dopo qualche mese aveva rinunciato a fare la formazione. E fu la fatal Novara. Adesso, ogni volta che glielo chiedono, dell’Inter dice cose che nemmeno Pippo Civati direbbe di Matteo Renzi. Arrivò Claudio Ranieri, l’uomo più educato e posato che il mondo del calcio possa immaginare. Ma era pur sempre l’uomo per cui il Filosofo aveva coniato l’espressione “zeru tituli”. Grandioso Mou: “A quasi 60 anni ha vinto una Supercoppa, non ha mai vinto trofei importanti. Forse ha bisogno di cambiare la sua mentalità, ma forse è troppo vecchio per farlo”, lui che “dopo cinque anni di Inghilterra sa dire good morning”. Ma Ranieri, che adesso fa faville in Premier League, era un buon allenatore, sensato. Arrivò e disse: non sono uno Special One, sono l’Aggiustatore, risolvo problemi. Zeru Tituli lo soprannominò “il Karma del Testaccio”, per quel suo provincialismo blando e senza troppe ambizioni. Insomma non fece male, all’inizio. Ma passarono pochi mesi, e non sapeva più chi mettere in campo e dove, e di chi fidarsi negli spogliatoi. Per spirito di maglia e simpatia non racconteremo come si ridusse in meno di un anno la psiche del simpatico Strama, cui tutti abbiamo voluto un po’ di bene. Diremo solo del penultimo, Walter Mazzarri. Malinconico e “schiaccino”, come si dice dalle mie parti di quelli che a briscola chiamata stanno sempre inguattati, senza rischiare. Però un meccanico serio, provinciale, che senza strafare aveva iniziato a fare il suo. Finì che pronunciava frasi sconnesse, “abbiamo perso perché ha iniziato a piovere” e cose così. Più che cacciarlo, dovettero portarlo via. Ma questa è la psicopatologia dell’Inter, la squadra che ha i colori della notte, e gli incubi ricorrenti pure. E si pensava che fosse passata, quando arrivò l’Indonesiano e Morattone il lunatico, il simpatico, passò la mano. Ma non è stato così. Il dna perviene dalla maglia, non dal momentaneo proprietario.

 

Però quando si incontrano due psicologie così complesse e notturne, talentuose, come quella dell’Inter e quella del Mancio, qualcosa di drammatico deve per forza accadere. E’ come il fucile in scena, come diceva Cechov, prima o poi spara. Se c’è calma, è solo dentro l’occhio del ciclone. Prima o poi diluvia. La psicopatologia del Mancio può essere letta soltanto dentro questo quadro meteorologico instabile, questo barometro impazzito che si chiama Internazionale Football Club.

 

Poi però c’è l’uomo, e quel che è suo. Una delle caratteristiche salienti del profilo clinico di Roby Mancio è questo: la mossa fuori tempo, incontrollata, anticipatoria e rivelatrice. (Forse un retaggio dell’interiorizzazione psicomotoria del fuoriclasse del pallone? Anticipare, sorprendere, prendersi il rischio? E’ un’ipotesi da tenere in conto).

 

[**Video_box_2**]Sdraiarsi sul lettino. Ricordarsi di quando è stata la prima volta. “Nonostante abbia ancora quattro anni di contratto, credo che questi saranno gli ultimi due mesi e mezzo alla guida dell’Inter”. Era l’11 marzo 2008, dopo una meritata quanto insensata eliminazione europea al termine di un Inter-Liverpool. Me ne vado. Ma mancava ancora un pezzo di stagione. Due mesi dopo, F. C. Internazionale comunicò “al signor Roberto Mancini il suo esonero dall’incarico di allenatore responsabile della prima squadra, in particolare in ragione delle dichiarazioni rese dal tecnico all’esito dell’incontro Inter-Liverpool”. S’era pentito nel frattempo? Ci aveva ripensato? Non lo sapremo mai, le mosse anticipate spediscono tutto il resto nel terzo anello del futuro ipotetico. Con Sarri è stata un po’ la stessa cosa. La mattina dopo avrebbe usato parole diverse, anche se quel concetto molto british e politicamente corretto, lui che il calcio inglese l’ha interiorizzato come un secondo Super-Ego, e indossato come una seconda sciarpa, non lo rinnegherebbe mai. E dei giochi pettegoli che tutti hanno fatto e fanno da allora – richiedendogli il pedaggio di un coming out, sincero o insensato non importa, basta che la bestia mediatica sia sazia – nemmeno c’è da parlare.

 

Ma pure nella vita privata c’è un modo di anticipare i fatti che lascia trasparire un’urgenza, un furore nascosto. Qualche mese con un secco comunicato ufficiale della società, arricchito dall’excusatio non petita di un non meglio precisato “trauma famigliare” risalente al 2009, ha fatto sapere che si separava dalla moglie, dopo 25 anni di matrimonio. Costringendo la signora Federica, tramite avvocato, a un’irrituale quanto piccata precisazione: “Nel prendere atto della sua volontà di avviare le pratiche per la separazione, Federica Morelli non può che esprimere il proprio disagio per il mezzo mediatico prescelto, che rischia di attribuire dimensioni pubbliche a una vicenda che sarebbe bene affrontare in un ambito strettamente famigliare e personale”.
L’ultima che ha detto, giovedì in conferenza stampa, è che non gli spiacerebbe andare ad allenare la Nazionale. “E’ chiaro che è un grande onore, può capitare o non capitare. Ma mi piacerebbe allenarla”. Detto da uno che evidentemente non ne può più di dove sta, alla guida di una squadra che palesemente ce lo porterebbe in spalla, fino a Coverciano, basta di non vederlo più ad Appiano Gentile. Che lo prendano in parola, a questo punto diventa una variabile da tenere presente. Le mosse azzardate sono un lato oscuro del carattere di questo cinquantenne di successo e anche un po’ arrogante. Ma arrogante come sono i timidi, sempre con una venatura di insicurezza.

 

Eppure, il Mancio è sempre stato anche un predestinato. Fin dall’esordio, giovanissimo, col suo talento cristallino. E poi un predestinato della panchina. Un vincente con il suo stellone. Come quel 13 maggio 2012, all’Etihad di Manchester, il giorno che gli ha cambiato l’immagine, creato il mito di coach vincente. Ultima di Premier League, il City e lo United primi a 86 punti. Ma ai Citizens basta battere il Queens Park Rangers, non un’impresa, per portare a casa il titolo dopo quarantaquattro anni d’inferno. Una passeggiata, ma invece la partita si inchioda sull’1-1, che poi diventa 2-1 per il QPR. Cinque più recupero. Gli saranno sembrati cinquecento, mentre urlava da bordo campo con il cuore in gola. E Dzeko la mette di testa, e Aguero a un passo dalla morte fa il 3-2. Mr. Mancini, I presume. Le rimonte pazze sono la sua specialità fin da prima, all’Inter. Sono il crisma dei predestinati. Il predestinato che nel 2001 aveva appena smesso con il campo e fu chiamato da Cecchi Gori a prendersi la Fiorentina. E ancora non aveva il “patentino”, quella tessera annonaria che solo in Italia esiste e che decide chi è allenatore e chi no. Fu allora, subito, che divenne l’uomo più odiato dalla Assoallenatori e dal suo capo comunista Renzo Ulivieri, manco fosse un Uber della panchina sbucato ante litteram, un rottamatore della vecchia guardia.

 

Ma è anche un uomo duro, di quelli che conoscono il campo e lo spogliatoio e non si tirano indietro, non le mandano a dire. Si scontrò a brutto muso con Sir Alex Ferguson, in un derby passato agli annali, al City quasi fece a cazzotti sul prato di allenamento con Adebayor, accusato di simulare un infortunio per non giocare. I risultati dell'ecografia dimostrarono che l’infortunio muscolare era vero, ma ormai era fatta. A Balotelli ha sempre voluto bene, lo fece esordire lui, e scommise su di lui a Manchaster, ma in allenamento vennero quasi alle mani: “Se avesse giocato con me gli avrei dato un cazzotto al giorno”. C’è anche questa rabbia pronta a esplodere, nel profilo del grande allenatore sull’orlo di una crisi di nervi.

 

Che poi è anche un uomo riservato, che ha sempre concesso poco di sé allo showbiz. Che ha sempre difeso la privacy della sua famiglia, la figlia più piccola e gli altri due, ormai calciatori anche loro in attesa di collocazione. Religioso, infine. Era nella anglicana Inghilterra, quando Benedetto XVI se ne andò. Ma lui, in conferenza stampa, davanti ai cronisti stupiti, se ne volle ricordare: “Questa è stata l’ultima domenica  per il Papa e io voglio ringraziarlo per quello che ha fatto in questi otto anni”. In pellegrinaggio a Medjugorje, nel 2012, ci portò la moglie e la figlia. Quest’anno sfoggia una sciarpa con scritto sopra il Padre Nostro in dieci lingue, latino, arabo, ebraico, russo e aramaico inclusi. Gliel’ha regalata un’associazione religiosa: “Oggi con me ho una sciarpa speciale… per chi crede e per chi confida nella tolleranza e nell’amore per il prossimo”, ha scritto su Facebook. E sostiene l’orfanotrofio La Créche di Betlemme, che accoglie bambini da oltre cento anni. Ma che la religione sia un sintomo latente di una qualche psicopatologia, questo non lo crediamo, e al massimo lo lasceremo dire al Freud del pallone.

 

E adesso Massimo Moratti, che è rimasto il nume tutelare e l’archetipo psichico della squadra, anche se non è più sua, ha invitato per domenica, a San Siro, José Mourinho. Che verrà volentieri, ha fatto sapere, per festeggiare il quinto compleanno del Triplete. E chissà come si sentirà Mancini, in panchina, quando sentirà lo stadio osannare il nome di Mou. Ma è sempre stato così: all’Inter, squadra della notte, piace giocare con i fantasmi.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"