Il lamento dell'Europa
Cosa ha imparato da tutti quegli anni in prigione? “Che il male autentico è raro. Che la stragrande maggioranza dei prigionieri poteva distinguere il bene dal male e ha scelto di fare il male perché pensava ci fossero dei vantaggi. Che un numero considerevole di prigionieri preferiva la vita all’interno del carcere alla vita al di fuori. Che non sapevano cosa fare con la libertà. Che non tutte le persone vogliono essere libere, se non da responsabilità e conseguenze, la più grande di tutte le libertà”. Anthony Daniels, per trent’anni psichiatra nelle carceri inglesi, scherza dicendo di aver “trascorso più tempo io in carcere dei criminali”. Il suo ultimo libro si intitola, ironicamente, “Admirable Evasions”. Daniels si sente un esule in Francia, dove ormai trascorre gran parte del suo tempo. “La Gran Bretagna è oggi un paese dalla volgarità quasi militante, dalla volgarità come ideologia in sé”, racconta Daniels in un lungo colloquio con il Foglio. “La raffinatezza di qualsiasi tipo è disprezzata. Il comportamento pubblico, ad esempio l’ubriachezza su scala di massa, è molto peggiore in Gran Bretagna che in Francia. La Gran Bretagna è la pattumiera d’Europa: un gran numero di persone abbandona la propria prole ovunque. Gli inglesi mangiano più cibo spazzatura di qualunque altro paese in Europa. Sono i più pesantemente tatuati e si rendono deliberatamente più brutti di quanto già sono. Il loro nichilismo volgare è completo”.
Nato nel 1949, medico missionario in Africa, Daniels è uno dei più seguiti commentatori sociali del Regno Unito, con articoli per il Times, l’Observer, e saggi dal titolo “Fool or Physician: The Memoirs of a Sceptical Doctor”, “Our culture, what’s left of it”, “In Praise of Prejudice”, “The New Vichy Syndrome. Why European Intellectuals Surrender to Barbarism” e “The Pleasure of Thinking”. Celebre la sua rubrica sullo Spectator dal titolo “Se i sintomi persistono”. Interventi spesso firmati con lo pseudonimo che usava quando lavorava come medico penitenziario: Theodor Dalrymple. “Noi europei non ci riproduciamo. Troviamo i bambini un ostacolo per il modo in cui vogliamo vivere. I bambini sono costosi, riducono il nostro reddito disponibile; creano obblighi, riducono le nostre opzioni per il futuro. Inoltre, ci siamo concessi così tanti diritti e benefici sociali che non possiamo più permetterci di difenderli. Paesi come la Gran Bretagna e la Francia giocano a fare le grandi potenze, ma costantemente cercano di ridurre le loro spese militari. Sono leggeri come l’aria e hanno la determinazione dei topi. Da qui, gli islamisti concludono che i paesi europei sono come frutta marcia su un albero, basta una scrollata per farli cadere. I barbari erano solo il cinque per cento della popolazione dell’Impero romano, ma lo hanno rovesciato, almeno in occidente. Ma a mio avviso, l’islamismo non è così forte come si potrebbe supporre, anzi non è che un sintomo della vulnerabilità dell’islam nel suo complesso. L’islamismo è una difesa contro il crollo stesso dell’islam”.
Qualche settimana fa, a Parigi, una iniziativa dei cittadini ha creato il “muro dell’amore” in risposta alle stragi del 13 novembre. “L’Isis può essere sconfitto solo con la spietatezza, ma non possiamo più essere spietati, anche se abbiamo i mezzi per esserlo. Questo, naturalmente, ha vantaggi e svantaggi. Un ‘muro dell’amore’ è un residuo laico della fede cristiana. Siamo riluttanti a credere che chiunque può veramente e realmente odiarci perché siamo così bravi, razionali, liberi, gentili, generosi, ragionevoli, accoglienti, democratici. Inoltre, abbiamo la convinzione che siamo così fondamentalmente forti che nulla può rovesciarci. Grandiosità morale, codardia e cecità volontaria sono le nostre caratteristiche politiche principali. Siamo stati castigati dalle due grandi guerre (e giustamente): la guerra, dopo tutto, non è auspicabile e deve essere condotta solo per una buona ragione. Noi non crediamo più nell’interesse nazionale e quindi non possiamo fare la guerra nel suo nome. Siamo in grado di bombardare le persone presumibilmente per dare loro diritti umani, ma non perché sono i nostri nemici”.
Lei nei suoi libri ha parlato di un’ansia collettiva che oggi stringe l’occidente. “Credo che la nostra ansia derivi dalla nostra storia nel XX secolo, in tanti aspetti così catastrofica che ci tormenta ancora e fiacca la nostra fiducia. Ricordo di aver incontrato un tedesco, nato dopo la guerra, che gestiva una società forestale. Aveva appena avuto un incontro per decidere una dichiarazione di intenti o slogan aziendale. Qualcuno aveva suggerito ‘foreste con orgoglio’ ed era seguita una discussione sul fatto che l’‘orgoglio’ nel settore forestale è stato l’inizio del pendio scivoloso che ha portato ad Auschwitz. Ho il sospetto che tutti noi soffriamo in qualche misura dalla sindrome ‘foreste con orgoglio’”.
Da dove viene il nostro relativismo? “Nella sfera politica e sociologica proviene da un senso della nostra superiorità, una convinzione disonesta secondo cui noi siamo la maledizione sulla terra. Le cose cattive che fanno gli altri sono a causa nostra. Solo noi siamo gli unici agenti autentici del mondo, quindi siamo ancora responsabili di tutto. Questo almeno preserva la nostra importanza; ed è lusinghiero per la nostra autostima credere che noi stessi siamo responsabili”.
Una cultura del dubbio, lei ha scritto, ci pervade. Di che si tratta? “Il tipo di dubbio o scetticismo di cui parlo è la disonestà. Si tratta di uno scetticismo circa i motivi metafisici delle regole di comportamento, ma solo quando tali regole sono personalmente scomode. Non vi è alcuno scetticismo circa i propri diritti. Lasciatemi fare un piccolo esempio. In Inghilterra, i giovani in treno tendono a mettere i piedi sul sedile. Se si chiede loro di rimuovere i piedi, diventano immediatamente filosofi morali, insistendo che mettere i piedi su un sedile del treno non è sbagliato. Se, d’altra parte, gli chiedi ‘Perché allora non dovrei urinarti addosso?’ si indignano come ogni generale dell’esercito in pensione”. Che c’è di sbagliato nel multiculturalismo? “La maggior parte della gente pensa al multiculturalismo come a tanti ristoranti diversi. Il gusto britannico nel cibo è (grazie al cielo!) stato cambiato radicalmente dall’afflusso di molti popoli diversi. Ma mentre si può mangiare ungherese, indiano, vietnamita, spagnolo, ecc, non si può vivere da somalo, boliviano, albanese, coreano e malese. Il problema con il multiculturalismo ufficiale è che esso viene utilizzato come una opportunità burocratica. Balcanizza le persone in modo che fanno appello al governo per proteggere i loro diritti collettivi, e aumenta in tal modo il potere del governo. Si separano le persone, infiammano le loro gelosie, le si tiene in compartimenti etnici, impedendo l’integrazione spontanea. Melting pot in un fritto misto. Questo provoca una reazione illiberale”.
Cosa prova di fronte a un milione di migranti arrivati in Europa e al milione che arriverà quest’anno? “I migranti non sono solo migranti e la loro capacità di adattarsi alla nostra società dipende da loro almeno quanto dipende da noi. E’ un dovere degli immigrati adattarsi alla nostra società, non è un nostro dovere adattarci a loro. In Gran Bretagna, con un milione di migranti polacchi non ci sono stati problemi: infatti, sono generalmente lodati per il loro duro lavoro, sono efficienti, rispettosi della legge, desiderosi di imparare. Essi sono una risorsa. Pertanto la migrazione da alcuni luoghi crea maggiori difficoltà rispetto a quella proveniente da altri. La combinazione di migrazioni di massa e di sicurezza sociale automatica è pessima. Permette e incoraggia la creazione di ghetti, in particolare di quelle culture dei migranti molto diverse da quella della società di accoglienza. I rifugiati verso gli Stati Uniti fanno meglio di quelli in Europa perché ricevono meno assistenza pubblica, anche se possono ricevere assistenza da enti non ufficiali, che è discrezionale. Se vogliamo integrare un gran numero di migranti, dobbiamo ridurre la portata dello stato sociale. E va ricordato che la seconda generazione in queste circostanze si è rivelata più problematica rispetto alla prima. Mia suocera in Francia ha bisogno di tre persone per prendersi cura di lei a casa. Sono da Capo Verde, Mauritius e Haiti. Sono persone meravigliose che fanno più di quello per cui sono pagati”.
Il modello europeo di secolarismo aggressivo sembra non funzionare. “Non c’è niente di sbagliato nella laicità se è sensibilmente gestita e non troppo dogmatica. L’Inghilterra ha una religione di stato, ma è molto flessibile e tollerante, non minaccia nessuno. Quando i sikh sono arrivati la prima volta in massa in Inghilterra c’era un problema con i loro turbanti. Un compromesso è stato presto raggiunto: per esempio, nel carcere in cui lavoro, agenti sikh sono stati autorizzati a indossare un turbante blu scuro, compatibile sia con il sikhismo sia con la divisa. Questo compromesso è stato possibile perché il turbante non aveva connotazioni incompatibili con la piena adesione della nostra società. Con alcuni (non tutti) modi musulmani di vestirsi, non è così. Il significato di queste modalità è incompatibile con la nostra società. Il problema è questo: in una società libera, la gente dovrebbe essere libera di vestirsi come vuole, ma è impossibile sapere quale percentuale di donne che indossa i tipi più estremi di abiti musulmani lo faccia volontariamente o sotto costrizione. Ho conosciuto molti casi di entrambe le ipotesi. Ci sono chiaramente forme di islam che sono incompatibili con la laicità: nel migliore dei casi ci può essere solo una tregua temporanea con esse”.
Cos’è il “culto del sentimentalismo” di cui ha parlato? “La principale forma moderna di sentimentalismo è la santificazione della vittima. Il sentimentalismo è la conseguenza della perdita della comprensione religiosa secondo cui siamo tutti deboli, tutti i peccatori, in virtù della nostra natura decaduta; invece dobbiamo dividere le persone in carnefici e vittime. E poiché vogliamo essere riconosciuti come persone dalle ampie simpatie, trasformiamo sempre più persone in vittime in modo che possiamo esprimere la nostra solidarietà con e per loro. Così anche i tossicodipendenti diventano vittime. Ma per negare la loro responsabilità si deve considerarli come meno che umani: per questo sentimentalismo e brutalità sono spesso due facce della stessa medaglia”.
Il nostro mondo spesso trasforma l’autoironia in autodisprezzo. “Una genuina autoironia può essere una qualità attraente, ma c’è qualcosa di disonesto nel senso di colpa che noi pretendiamo di sentire sullo stato del mondo. Questo senso di colpa su vasta scala ci permette di comportarci male nel nostro piccolo ambito e di avere una buona coscienza, perché la nostra cattiva condotta è così banale in confronto con il terribile stato del mondo per cui ci si sente in colpa. Coloro che si sentono di pensare ‘correttamente’ sulle grandi questioni sono spesso quelli che si comportano peggio tutti i giorni”.
Dall’Italia alla Francia la questione dei diritti dei gay sembra la più urgente. Com’è possibile? “Il modo in cui l’idea del matrimonio omosessuale è diventata una ortodossia inattaccabile e persino una pietra di paragone per la decenza è, dal punto di vista storico-sociale, sorprendente. Venticinque anni fa era inaudito e probabilmente sarebbe stato considerato come assurdo. Lo slogan francese ‘Mariage pour tous’ è una bugia, naturalmente. In mancanza della religione, la riforma sociale diventa una fonte di significato trascendente e dovrà cercare nuovi campi da conquistare, nuovi tabù da superare. Per questo la carovana è già passata ai problemi del transessualismo. Non so che cosa arriverà dopo”. E in questo, secondo lei, una responsabilità ce l’hanno gli intellettuali? “Molta patologia sociale moderna ha le sue origini nelle idee astratte promosse da intellettuali che hanno avuto, almeno nei paesi anglosassoni, un effetto devastante sulle classi più povere. La distruzione del matrimonio come istituzione, per esempio, dopo decenni di propaganda intellettuale contro di esso, ha portato a tassi senza precedenti di illegittimità, in modo tale che in alcune aree essa è quasi il cento per cento. Alla fine dell’infanzia, un bambino britannico ha oggi una probabilità molto maggiore di avere una televisione nella sua camera da letto che un padre che vive a casa. La cultura della droga, così esaltata negli anni 60 dai figli viziati della prosperità, ha interessato i poveri, come i metodi sperimentali per insegnare ai bambini a leggere (o meglio, a non leggere). Molti intellettuali sono più interessati all’atteggiamento che hanno l’uno di fronte all’altro che alle conseguenze sui poveri di quello che sostengono”.
[**Video_box_2**]Dalla Germania all’Italia, la demografia è in caduta libera. Eppure, stiamo raffinando sempre di più le tecniche di manipolazione genetica. Non è contraddittorio? “Se si desidera di avere solo un figlio, si desidererà che sia perfetto, o almeno in conformità con i desideri, e il mondo è sempre più un supermercato esistenziale, e i bambini accessori di moda, come Gucci o Armani”. Uno scrittore inglese, Cyril Connolly, ha scritto che “i giardini dell’occidente” si stanno chiudendo. “Ogni sforzo intellettuale è andato a dissolvere dei confini, tra il civile e l’incivile, tra l’arte e la non-arte, tra il bene e il male, tra la cultura alta e quella bassa. Il Guardian, il quotidiano dell’intellighenzia liberale inglese, di recente ha dedicato 27 pagine distribuite su più giorni (ho rinunciato a contare da allora in poi) alla morte di David Bowie. Nel 1953, il Times ha dedicato una pagina alla morte di Stalin”.
Uno dei suoi saggi più fortunati riprende un verso di T. S. Eliot: “Non con uno schianto ma con un lamento…”. E’ quello il lamento dell’Europa? “Qualunque cosa Eliot volesse dire, quello che mi suggerisce è che il conflitto apocalittico non è necessariamente la distruzione di un’istituzione, ma che essa può cadere a pezzi dall’interno e con un sospiro. Il fallimento della volontà di resistere al decadimento, di opporsi alla rovina di mille piccoli cambiamenti, il tradimento dei chierici, porteranno sicuramente a un conflitto con nemici esterni. Istituzioni e civiltà collassano più spesso dall’interno che dall’esterno. Dobbiamo temere più noi stessi che i nostri nemici”.
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