Fantasie sull'universo
Una tela altra 3 metri, per 200 di lunghezza: è questa la grande opera che l’artista svedese-americana Aleksandra Mir (nata a Lubin, in Polonia, nel 1967) sta realizzando con l’aiuto di 100 assistenti, che lavorano con lei quotidianamente – divisi in gruppi – nello studio di Hackney, quartiere di creativi a est della City di Londra. Una lunga narrazione composta da tante scene disegnate a pennarello nero, dal titolo che rimanda allo spazio cosmico, “Space Tapestry”. L’opera, difficilmente fruibile in un unico spazio espositivo, è progettata per essere esposta anche in luoghi diversi. Alcune delle parti che compongono questa tela maestosa, saranno in mostra quest’estate alla Maison des Arts Georges Pompidou di Cajarc, vicino ai Pirenei, e il prossimo anno nel Museum of the History of Science di Oxford e alla Tate Liverpool.
“Space Tapestry” è frutto di ricerche fatte discutendo con scienziati internazionali ed è direttamente ispirata all’arazzo medievale di Bayeux, lungo quasi 70 metri, che racconta la conquista normanna dell’Inghilterra nel 1066 e alcuni avvenimenti di quell’anno, come la rappresentazione del passaggio della cometa di Halley. Un’opera che ha mantenuto il suo fascino per oltre mille anni, riprodotta innumerevoli volte. Oggi, si chiede Aleksandra, “che tipo d’immagini possiamo produrre che potrebbero fornire una fonte equivalente per il futuro? Il mio lavoro finirà per intrecciare insieme tanti riferimenti, incluse le diverse manualità dei miei assistenti, e sarà un modo per guardare avanti, alla ricomparsa della cometa nel 2061”. Una banca dati formato immagine, con l’ambizione che possa durare nel tempo.
Aleksandra Mir parla della storia dell’arte come di “un distillato di pratiche tratte dalla cultura popolare” e afferma come la sua creatività attinga dall’osservazione delle abitudini dell’occidente, con l’obbiettivo di ribaltare i luoghi comuni. Questo risultato lo raggiunge utilizzando tutti i linguaggi dell’arte contemporanea, dalla scultura al video, con particolare rilievo al disegno, “la più antica e immediata espressione artistica, intesa come una forma di coordinamento tra l’occhio e la mente, la mano e lo strumento, uniti in un gesto che lascia l’impronta del suo farsi come il segno dello stile di un unico creatore. Negli ultimi dieci anni ho lavorato all’espansione di questo concetto invitando altre persone – professionisti, amici, studenti – a collaborare accanto a me. Il mio obbiettivo è spingere il disegno oltre i suoi limiti, trasformare un foglio di carta in una realtà più grande e indisciplinata. Qualcosa che sia, contemporaneamente: una scenografia, una coreografia e un atto d’improvvisazione performativa”.
Il tema dello spazio infinito, oggi più che mai attuale dopo la recente scoperta delle onde gravitazionali intuite da Einstein, è da oltre quindici anni ricorrente nella ricerca della Mir e stimolo per una riflessione critica sui grandi eventi storici. Infatti, il 28 agosto del 1999, intorno al 30° anniversario della prima passeggiata di Neil Armstrong sulla Luna, senza budget perché all’inizio della sua carriera, Aleksandra riesce a convincere alcuni operai su ruspe, impegnati in una vicina fabbrica, ad aiutarla nella trasformazione di una spiaggia sul Mare del Nord, in Olanda, in un paesaggio lunare con colline e crateri. Al tramonto, seguita da un gruppo di bagnanti e al ritmo di un bongo, sale sulla cima più alta tra le dune, per piantare una bandiera americana, e auto-proclamarsi “prima donna sulla luna”. Allertati precedentemente i media locali, la Mir ha documentato la sua messa in scena, ripresa da tre televisioni locali, e ha introdotto l’elemento femminile nella storia – all’epoca – “al maschile” dei viaggi nello spazio.
La spiaggia viene ripianata quella sera stessa, ma la performance rimane nella memoria mediatica, attraverso un video e numerose immagini. Esposto in diverse mostre internazionali, il filmato tratto da questa azione-finzione, “First Woman on the Moon” – è stato acquisito per le collezioni della Tate Modern di Londra e del Guggenheim Museum di New York, che hanno validato storicamente la performance della Mir.
Questa “ossessione” per lo spazio è l’essenza di numerose opere, sia della scultura monumentale “Gravity” (2006), in cui Aleksandra ha costruito un missile gigante (evidentemente non funzionante) alto 22 metri con detriti industriali, che della serie di collage “Il Sogno e la Promessa” realizzati a Palermo, dove ha vissuto per cinque anni, dal 2005 al 2010. Il “periodo italiano” della Mir è stato fecondo per la sua ricerca, quando ha realizzato diverse opere in cui riflessioni soggettive si traducono in un affresco del nostro paese, che diventa – nella trasfigurazione artistica – modello universale.
I collage con immagini delle esplorazioni del profondo spazio nascono dalla frequentazione del gallerista palermitano Francesco Pantaleone, e del negozio di arredi sacri che appartiene alla sua famiglia da generazioni. L’artista sovrappone raffigurazioni sacre a quelle di missili, satelliti, pianeti e viceversa. Santini e ricordi della prima comunione vengono abbinati a ritagli di riviste americane anni Settanta del settore spaziale. I volti divini, contornati da aureole, sostituiscono i caschi degli astronauti, il fumo dei razzi combacia con la trama delle nuvole celesti sulle quali viaggiano angeli.
Un’incontro/scontro iconografico che avviene quando Aleksandra arriva in Italia dagli Stati Uniti e riflette su aspetti della cultura popolare per creare cortocircuiti visivi che mettono in discussione le nostre convinzioni più profonde. “Ho pensato”, afferma, “che visto che santi e astronauti condividono lo stesso spazio, era importante farli conoscere!”. Una riflessione critica sulle sovrastrutture ideologiche.
E’ ovvio che le produzioni della Mir non si realizzano all’interno dei confini delle pratiche artistiche tradizionali. In realtà, lei ribalta la convinzione che la buona opera d’arte sia quella realizzata in uno spazio definito e consegnata alla tranquilla visione del pubblico. Forse però, più che per le sue grandi installazioni, come “Plane Landing” – un aeroplano gonfiabile di grandezza naturale che ha portato in giro per il mondo, dall’aeroporto di Zurigo alla Piramide del Louvre, fotografandolo in quello che lei chiama “un atto permanente di atterraggio” – sarà ricordata per il suo manuale su come non cucinare, pubblicato nel 2009 (e ristampato successivamente da Rizzoli), entrato nella collezione permanente del MoMA. Concepito dopo una cena fallimentare che aveva organizzato nel suo appartamento nel centro storico di Palermo, prende spunto da una sconfitta personale, per realizzare un progetto artistico di respiro globale: “The How Not to Cook Book – Lessons learned the hard way”, in cui Aleksandra coinvolge i suoi amici, in diversi paesi del mondo, nel coordinamento editoriale e nella raccolta di un migliaio di testimonianze e consigli su come assolutamente non cucinare.
Questa curiosità culinaria deriva dai suoi studi antropologici degli anni Novanta vissuti a New York: come cambia la nozione di “errore” in usi e culture differenti? Per gli italiani è importante il punto di cottura della pasta mentre gli americani hanno la mania del corretto uso del forno a microonde. Aleksandra scrive un anti-manuale per indagare i processi di apprendimento attraverso prove ed errori. Ironizzando sui fallimenti, il libro diventa un’originale e sovversiva opera d’arte, manifesto della contro-cucina.
Il volume replica il classico formato dei libri di ricette, corredato dai tipici segni grafici della Mir: disegni in bianco e nero realizzati con il pennarello indelebile, icona made in Usa dal 1963, lo “Sharpie”. I titoli dei capitoli e i testi risultano giocosamente rivoluzionari. Il libro inizia con un capitolo sulle “bruciature”, per passare poi alle “distrazioni”, alla “famiglia”, allo “scongelamento” e altri argomenti. Tra le tante voci, quella su gli “appuntamenti” è particolarmente divertente: “Quando cucini insieme al tuo fidanzato, non dimenticare di chiarire in anticipo chi di voi due è lo chef. Altrimenti si potrebbe finire per litigare e perdere l'appetito”.
E’ frutto di un progetto collaborativo anche la grande installazione “Triumph”, realizzata con oltre duemila e cinquecento coppe, raccolte attraverso un annuncio anonimo pubblicato sul Giornale di Sicilia: “AAA, cercasi vecchi trofei sportivi”. Ripulite e catalogate, queste coppe datate dal 1940 in poi rappresentano ogni genere di sport, e sono la struttura di una splendente installazione scultorea. Oggetti che celebrano vittorie personali diventano metafore di una nazione. Raccogliendo questi feticci, la Mir è entrata in contatto con le persone che hanno risposto all’annuncio, e che, forse, desideravano emanciparsi dal passato o liberarsi di un oggetto ingombrante che ormai catturava solo polvere.
Oltre a questo aspetto psicologico, la grande opera-archivio ha a che fare con la passione per lo sport, in Italia considerato “come una religione”. Originariamente commissionata ed esposta alla Schrin Kunsthalle di Francoforte nel 2009, “Triumph” ha avuto una consacrazione globale in occasione delle Olimpiadi di Londra nel 2012, all’interno della collettiva “Pursuit of Perfection: The Politics of Sport”. Un’opera nata in un ambito locale che acquista valore e significato quando esposta a un pubblico internazionale.
Lo stesso valore si può attribuire alla scultura realizzata con l’utilitaria Fiat, “La 600”, con cui Aleksandra ha percorso la Sicilia in lungo e in largo nel periodo in cui ha vissuto a Palermo. Un oggetto funzionale e d’affezione che, prima di essere esposto al Magazzino d’arte moderna di Roma, ha fatto un ultimo viaggio verso il garage di un meccanico capitolino che l’ha trasformato in opera d’arte, seguendo le istruzioni e il progetto della Mir. Tagliata e riassemblata in una sorta di 2/3 di 600, a tutti gli effetti integra, ma ridotta a una monoposto sia davanti che dietro. Un omaggio dichiarato alla famosa “Ds” del messicano Gabriel Orozco, un classico dell’arte degli anni Novanta. Il divario tra le due è evidente: mentre la Citroën è ricostruita perfettamente da designer esperti, la Fiat mostra orgogliosa le cicatrici della sua saldatura che le conferiscono “dignità”. “Un brutto anatroccolo”, afferma Aleksandra, “la cui forza risiede nell’aspirazione che esprime”. Come le coppe manifestano l’ambizione individuale – e tutte insieme, collettiva – così l’automobile riflette i desideri della società italiana degli anni Sessanta con i suoi miti piccolo borghesi di comfort e benessere. Un’opera che, quando la Mir la guidò illegalmente per il centro di Roma, scattandole fotografie davanti ai monumenti più importanti, riuscì a suscitare curiosità nei vigili urbani che la guardavano sorridendo, entrando in empatia con un oggetto evidentemente “fuori norma” ma legato alla memoria collettiva.
[**Video_box_2**]Ed è sempre una macchina – questa volta all’opposto della scala sociale rispetto all’utilitaria – una Rolls Royce Silver Shadow del 1977, a costituire il nucleo fondante del progetto “Sicilian Pavilion”: un padiglione nomade e indipendente su quattro ruote, nato “un po’ per gioco e un po’ per provocazione”, che si è autoproposto come partecipante non invitato alla Biennale di Venezia del 2007. A bordo della lussuosa autovettura troviamo un gruppo particolare: Aleksandra Mir, fulcro del progetto, che ha donato i suoi lavori alla collezionista Marion Franchetti che lo ha finanziato, il curatore Paolo Falcone in veste di chauffeur e due giovani artisti siciliani, Luca De Gennaro e Salvatore Prestifilippo. Partiti insieme dal porto di Palermo, imbarcati sul traghetto per Napoli, in tre giorni di viaggio percorrono 200 miglia marine e 800 chilometri e arrivano in tempo alla vernice della famosa kermesse lagunare per riaffermare la vitalità creativa del sud e scuotere l’apatia e l’indifferenza delle sue istituzioni. La poetica del progetto è dichiarata in un libro, prodotto dalla Fondazione Sambuca, che contiene tutte le immagini del viaggio: “Il Padiglione siciliano allo stesso tempo consegna nuovi ed energici talenti come una meditazione sia malinconica che fiduciosa sul futuro dell’isola. Il destino dei giovani artisti che arriveranno a Venezia è lasciato appositamente aperto: tutti i partecipanti sono lasciati alla loro arte di arrangiarsi: senza soldi per gli alberghi o inviti ufficiali. Devono inizialmente azzuffarsi e sgomitare”. Non a caso, durante il viaggio “on the road” la Mir legge a voce alta al giovane Luca De Gennaro tutto il romanzo “The Punk”, scritto da Gideon Sams nel 1977, lo stesso anno di fabbricazione della Rolls Royce che, in questo gioco delle parti, raffigura lo spirito decadente dell’aristocrazia siciliana. La partenza di Aleksandra Mir dall’isola è stata una perdita, anche se ha lasciato in eredità la buona pratica di destrutturazione di schemi ormai vecchi, utilizzando la leggerezza per inventare nuove forme, più libere, di pensiero.
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