La danse de la governance
Sostiene Bazoli: “Sono soddisfatto del primo anno di governance dualistica, permette di affidare la gestione a un organo snello come il consiglio di gestione, in grado di far fronte meglio di un tradizionale consiglio d’amministrazione a tutte le questioni, ma affiancato da un consiglio di sorveglianza più numeroso che può avvalersi di diverse personalità. I consiglieri sono molto impegnati e anche le funzioni del consiglio di sorveglianza possono essere assolte molto meglio adesso che con il sistema precedente”. E’ martedì 30 aprile 2008 e si tiene l’assemblea del nuovo gruppo nato dalla fusione tra la lombarda Intesa e il torinese Sanpaolo.
Sostiene Bazoli: “Il sistema duale è servito a difendere l’indipendenza. Finora è stato così e voglio credere che continui così”. E’ il 24 aprile (vigilia della Liberazione) del 2010. Il presidente del consiglio di sorveglianza della Banca Intesa parla all’assemblea della Ubi banca che ha adottato anch’essa il doppio consiglio. L’avvocato bresciano che gli amici chiamano Nani e tutti gli altri il Professore, ha un posto come consigliere di sorveglianza.
Sostiene Bazoli: “L’adozione del sistema monistico consentirà di migliorare ulteriormente una governance che era già efficiente ed era stata apprezzata, per arrivare ad affermarsi tra le migliori banche d’Europa anche in relazione a questo parametro”. Sì, è lo stesso professor avvocato Giovanni Bazoli che lo dice. E’ il 25 febbraio 2016 e la Intesa Sanpaolo abbandona il sistema duale.
Come mai questo cambio radicale? E’ vero, sono trascorsi otto anni, ma perché prima era così efficace il modello tedesco con tutta la sua architettura gotica dotata di guglie, pinnacoli e gargoyle, con le 29 poltrone assegnate usando il bilancino (19 per la sorveglianza, perché sorvegliare stanca, 10 per la gestione), mentre adesso si passa all’asciutto, pragmatico, sistema anglosassone, talvolta “selvaggio”, persino “brutale” come il capitalismo a stelle e strisce?
Ancor oggi Banca Intesa scrive così nel suo sito: “La scelta del modello dualistico determina una migliore demarcazione tra proprietà e gestione, e sembra quindi poter rispondere più efficacemente alle esigenze di maggior trasparenza e riduzione dei potenziali rischi di conflitto di interessi… consentendo di delineare al meglio ruoli e responsabilità, anche a garanzia di una sana e prudente gestione della banca”. Ma se aveva tanti vantaggi, perché cambiarlo? Lasciamo per il momento senza risposta anche questa domanda degna di Candide.
Tenace è stata la battaglia per difendere il doppio livello alla guida del gruppo Intesa Sanpaolo: da un lato il rapporto con gli azionisti, gestito dallo stesso Bazoli come presidente del consiglio di sorveglianza, dall’altro i conti, il day-by-day, la noiosa registrazione del dare e dell’avere in mano agli sventurati del consiglio di gestione. Anche se, e questa è l’anomalia, dal piano alto occhi acuti guidavano mani esperte sempre pronte, se necessario, a condizionare la gestione. Nel corso di tutti questi anni i manager sono cambiati, si sono avvicendati Corrado Passera, Enrico Tommaso Cucchiani, e adesso Carlo Messina. Il presidente del Cds è rimasto sempre Bazoli che ora, con il cambiamento adottato a partire dalla prossima assemblea del 27 aprile, assume la carica di presidente emerito. Non avrà nessun potere operativo, anche se potrà partecipare ai consigli nei quali si prendono le decisioni strategiche. Qualcosa del genere avvenne già con Enrico Cuccia che in molti e più volte tentarono di defenestrare da Via Filodrammatici senza riuscirci. Il vecchio banchiere sosteneva che avrebbe potuto occupare anche uno sgabuzzino nello scantinato di Mediobanca, tanto tutti si sarebbero sempre rivolti a lui. E certamente Bazoli dirà la sua su come gestire il 4 per cento del Corriere della Sera che la banca possiede, dopo l’uscita di John Elkann con il quale non si sono mai intesi.
Intesa non è la sola, naturalmente, ma era la roccaforte inespugnata di un modo di governare le banche contro il quale si era battuto per quasi vent’anni Mario Draghi. Come direttore generale del Tesoro aveva varato nel 1998 il testo unico della finanza ispirato alla governance anglosassone: a Wall Street, in particolare, le grandi corporation sono guidate da uno o più top manager e nei board compaiono semmai amministratori non esecutivi e indipendenti con un ruolo di bilanciamento e di controllo. Il mercato, poi, è sovrano, nelle assemblee, nei lanci delle offerte pubbliche di acquisto, nel decretare l’avvicendamento di un vertice se utili e valore del titolo crollano.
L’introduzione del sistema duale in Italia per certi aspetti è frutto del caso o meglio di una dimenticanza dei lobbisti italiani a Bruxelles. Quando venne varata la direttiva sulla “Società europea”, si fece riferimento solo alla governance monistica (quella anglosassone, con i controlli all’interno dell’organo di gestione) e dualistica (quella tedesca). Dal dettato normativo restò escluso il modello tradizionale con consiglio di amministrazione e collegio sindacale separati, previsto dal Codice civile italiano. A quel punto, per scongiurare il pericolo che società straniere si organizzassero secondo la nuova legge, il Parlamento introdusse le nuove norme con la riforma societaria del 2003/2004. Nessuno, naturalmente, obbligava le banche a scegliere l’una o l’altra organizzazione. Anzi. La revisione attuata nel 2002 dalla commissione Vietti aveva scelto di rendere assai meno tipizzato, e più libero, il diritto societario. Ma scesero in campo con tutta la loro dottrina i teorici dell’economia sociale di mercato dei quali uno dei più dotti e sottili è senz’altro il professor Bazoli. In realtà, apparve subito chiaro che era un metodo spartitorio più elegante del manuale Cencelli.
Nell’introdurre il duale fu deciso di consentire alcune varianti rispetto al modello originario. Sono stati esclusi i rappresentanti dei lavoratori, visto che non c’è in Italia la cogestione prevista dall’ordinamento tedesco; si è aperto il consiglio di gestione a persone che nella gestione non sono impegnate e si è assegnato al consiglio di sorveglianza un ruolo di super gestore che va oltre la sua funzione originaria. Si trattava di possibilità, non di obblighi, ma sono state afferrate al volo. Secondo la Banca d’Italia sono avvenute vere e proprie deviazioni che hanno spinto a emanare dal 2008 dure disposizioni sull’applicazione del duale.
Il sistema è stato utilizzato da quattro banche nella grande tornata di fusioni del 2007: Intesa Sanpaolo, Popolare Verona-Popolare Italiana, Ubi-Banca Lombarda e Mediobanca il cui riassetto era conseguenza della fusione Unicredit-Capitalia. Prima Draghi poi il suo successore Ignazio Visco hanno lamentato che il duale sia servito in realtà solo a moltiplicare le poltrone necessarie ad accontentare tutti i personaggi di vertice implicati nelle fusioni e non abbia perseguito l’obiettivo di separare le funzioni alla guida di imprese delicatissime come le banche. La Banca d’Italia sperava che il duale avrebbe accelerato un cambiamento epocale nella finanza italiana. Quando si è rivelato un modo per pietrificare lo status quo, ha reagito.
Le istruzioni di vigilanza emanate da Via Nazionale sono state particolarmente rigide: non tanto contro il modello in sé, quanto sull’applicazione e sul fatto che figure di grandi leader bancari come Cesare Geronzi, Giovanni Bazoli o Carlo Fratta Pasini, insediatisi ai vertici dei consigli di sorveglianza, non avessero rispettato i limiti di ruolo impliciti. Quasi tutte le banche avevano colto l’occasione per integrare al meglio azionariati e dirigenze in corso di integrazione, quindi “sdoppiando” vertici e poltrone. Nel caso della Popolare di Milano, oltre che in quello della Mediobanca (dove il sistema duale fu abolito poi sotto la presidenza Geronzi), è stato un modo per distanziare la gestione dall’influenza dell’azionariato. Nella Ubi Banca la questione è più complessa.
Gli azionisti del “patto” di consultazione nella banca bresciana al momento sono 173, rappresentati da 39 soggetti capogruppo; e valgono l’11,95 per cento del capitale. L’iniziativa, costituita ufficialmente mercoledì 17 febbraio a Brescia, ha l’obiettivo di “rafforzare nella nuova forma di società per azioni dell’istituto, la coesione e la collaborazione dei soci nell’ottica di sviluppo della banca, derivata dalla fusione di Banca lombarda e piemontese e Banche popolari unite nel rispetto dei principi, tradizionalmente perseguiti, e dei valori che caratterizzano la banca e il suo legame con i territori di storico insediamento”. Tra i principali aderenti troviamo la Fondazione Banca del Monte di Lombardia (che possiede il 13,37 per cento delle azioni sindacate), Upifra S.A. (8,35 per cento, gruppo Beretta), il Gruppo Fidanza con l’8 per cento, il gruppo Lucchini (5,42 per cento), la Scuola Editrice (4,7 per cento), la Cattolica Assicurazioni di Verona (4,5 per cento), il Gruppo Niboli (4,44 per cento), ma anche l’Isa di Trento, la Fondazione Banca di Trento e Bolzano, la Fondazione Tovini, la Serfis di Milano (Strazzera), la Compagnia Bresciana Investimenti (Spada), la Finanziaria di Valle Camonica, le famiglie Folonari, Bossoni-Ambrosione, Polotti, Bazoli, Rampinelli, Camadini, Brunori, Bellini, Lanzani, Minelli, Zaleski e alcuni istituti religiosi bresciani, anche legati alla Diocesi. Un elenco lungo, ma istruttivo. Come negare un diritto di rappresentanza, cioè una poltrona, ai rampolli di cotante famiglie industriali? Meno che mai alle fondazioni o alla curia. C’è tutta la Brescia industriale, finanziaria e cattolicissima, della quale il professor Bazoli, anche se ha dovuto lasciare il consiglio di sorveglianza nella Ubi, è ancora il pivot.
La banca bresciana è al centro della nuova girandola di fusioni, acquisizioni e salvataggi. E’ stata tirata in campo per il Monte dei Paschi di Siena, ma ha rifiutato, poi si è parlato di farne la punta di un triangolo che vede in una prima fase convolare a nozze la Popolare milanese e il veronese Banco Popolare (operazione difficile, tutt’altro che scontata, perché la Banca centrale europea vuole più capitale e maggiori garanzie su come recuperare i crediti deteriorati). L’idea sarebbe di creare una Superpopolare con sede a Verona e con un consiglio composto da 9 consiglieri veronesi, 7 milanesi e tre indipendenti (di cui 2 in quota ai sindacati di categoria Fabi e Uilca). Fratta Pasini resterebbe presidente. Controllata al 100 per cento della super-holding ci sarebbe la Bpm spa che a sua volta avrebbe un consiglio di amministrazione composto da 4 esponenti della Bpm e 3 del Banco. Nello schema della Ubi, invece, resterebbe il sistema duale. La transizione durerebbe circa un anno e mezzo e poi le due realtà verrebbero fuse.
Durissimo avversario del modello tedesco in salsa italiana è sempre stato Francesco Giavazzi: “La governance duale – ha scritto in uno sferzante articolo sul Corriere della Sera – è nata quando si sono aggregate imprese pubbliche: banche di proprietà delle fondazioni (soggetti cui è estranea la logica del profitto), aziende elettriche e del gas di proprietà di comuni e province. Quando gli azionisti non sono interessati al prezzo ma a potere e poltrone. Quando per ottenere il loro consenso non si tratta sul valore della società, ma sui posti da spartire. Si è detto che il sistema duale sarebbe stato un fatto transitorio, un prezzo in fondo modesto per consentire aggregazioni altrimenti impossibili. La verità è che quando si accetta che l’interesse delle aziende si pieghi alle richieste di singole persone, poi si paga il conto”.
Salvatore Bragantini, già commissario della Consob, sostiene che il sistema è stato applicato male in Italia, a differenza da quel che è accaduto in Germania e in Francia. “Il duale vero, quello originario, ha un pregio e un difetto, due facce della stessa medaglia – ha scritto su lavoce.info – Il pregio è quello di distinguere bene le responsabilità, il difetto è nell’appesantimento del processo decisionale che proprio tale distinzione comporta. Levate il pregio, e resta solo il difetto: è quel che è successo da noi, dove il modello originario non è mai stato applicato, ma è stato inquinato seguendo due strade opposte. A un estremo si è dato tutto il potere all’amministratore delegato; all’altro, per evitare di affidarsi a un nucleo forte di manager, il Cds vuole riservarsi un ruolo di super gestore”.
[**Video_box_2**]La politica, cacciata dalla porta, è rientrata dalla finestra. Non è più il governo a nominare i banchieri, come accadeva un tempo, tuttavia i partiti e i gruppi politici filtrano a livello locale attraverso le fondazioni, i cui organismi dirigenti fanno capo alle amministrazioni locali. Basta guardare al ruolo attivo che sta svolgendo il sindaco di Verona Flavio Tosi per far uscire dalla crisi la Banca Popolare colpita anche sul piano giudiziario.
Ora Bragantini suggerisce che il passaggio al monistico da parte della principale banca italiana “sia stato favorito dalla (comprensibile) tentazione dell’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo di divenirne leader incontrastato, sfruttando la preferenza dei grandi investitori esteri – cui fa ormai capo oltre il 60 per cento della banca – per un sistema loro ben noto e la diffidenza verso il duale, così come attuato”. Forse è questa la risposta alle domande da Candide che abbiamo lasciato in sospeso. Non bisogna essere tardo-marxisti per vedere che sono i rapporti di forza all’interno della proprietà a determinare in ultima istanza anche i modelli organizzativi. Dentro Intesa le fondazioni, signore e padrone per vent’anni, oggi sono in ritirata. Il duale, funzione del loro potere, va in soffitta. Vedremo chi comanderà domani. Alla presidenza dovrebbe andare Gian Maria Gros Pietro, espressione dell’azionista torinese, che finora ha presieduto il consiglio di gestione; una soluzione caldeggiata dal presidente emerito facendo ricorso a tutta la sua moral suasion. Intanto, Brescia cerca di resistere, benedetta dal professor Bazoli e unita attorno al fortino della Ubi; del resto, non è un caso che la città venga chiamata Leonessa d’Italia.
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