La dolce stanchezza
Al mattino mi alzo presto, ma con grande fatica, e per prima cosa, ancora prima di preparare il caffè, controllo WhatsApp. Scorro la lista delle persone che conosco, con una curiosità che sfiora l’apprensione, controllo l’ora del loro ultimo accesso. Se l’ultimo accesso corrisponde alla sera prima, a mezzanotte o anche più tardi, mi tranquillizzo. Significa che la giornata nuova, per loro, non è ancora cominciata, significa che io sono in vantaggio, pur con questa immensa fatica che già sento addosso, gli occhi pesanti, i passi lenti. Va tutto bene. Invece, se vedo che qualcuno era attivo un’ora fa, magari alle sei e zerosette, sento subito, sulla faccia, una delusione, un afflosciamento, la condanna della mia pigrizia. La persona che alle sei e zerosettte ha controllato o scritto su WhatsApp, io immagino, sta vivendo e lavorando almeno da un’ora, perché non tutti allungano la mano sul comodino, come faccio io, e afferrano il telefono per controllare le vite degli altri. Anzi, è probabile che anche quelli che hanno controllato WhatsApp la sera prima non stiano affatto dormendo, o oziando davanti a un caffè, o fra le braccia di qualcuno: sono così impegnati, così febbrili e concentrati che non hanno tempo, né alcun interesse, di accendere il telefono. Hanno già prodotto molte cose, terminato lavori importanti, letto tutti i giornali e gli ultimi romanzi, avuto idee bellissime, organizzato le vacanze, portato i bambini alle vaccinazioni, preparato un sacchetto con le scarpe da portare dal calzolaio, telefonato ai parenti lontani, e adesso hanno un’intera luminosa giornata davanti, formicolante di novità e di pianificazioni, una vita intensa piena di soddisfazioni per atti compiuti e problemi risolti. Che cosa faranno di tutta questa libertà meritata? Prenderanno appunti, raccoglieranno le ricevute da portare al commercialista, faranno buone azioni, offriranno il proprio aiuto alle persone bisognose. Invece io ho già perso la mia battaglia, davanti alla macchinetta del caffè. E’ presto, ma non è abbastanza presto: avevo messo la sveglia all’alba, la sera prima, immaginando due ore di perfetto silenzio e operosità. Mi ero addormentata con quel pensiero rassicurante: domani è un giorno lunghissimo. La sveglia ha poi suonato, affidabile e gentile, suoneria ascendente, l’ho spenta subito e ho detto: un minuto. Un minuto di inerzia e di sogno, un minuto di fantasticherie sulle cose da fare, immaginandole già fatte, assaporando la felicità e lo stupore di sentirsi quasi in anticipo, già arrivati, immaginando la gioia dei bambini quando li andrò a prendere a scuola, oggi pomeriggio, perché ho già fatto tutto, e dirò: andiamo a fare una passeggiata, e loro mi abbracceranno forte.
Quel minuto di fantasticherie ha fatto sorgere il sole, intanto, e io allora mi alzo già con spavento, e un po’ di orrore di me stessa, sentendomi ancora la studentessa svogliata che metteva il codice civile sul comodino, la notte (sperando che per vicinanza avrei assorbito le leggi, imparato a memoria i commi, vinto il disinteresse e la confusione verso le distanze tra le case dei vicini e l’ordinaria e la straordinaria manutenzione). Da ragazzi però si poteva accettare la pigrizia, non era una cosa di cui vergognarsi così tanto, soprattutto laggiù in provincia, anzi ci si vantava di notti folli e mattine svogliate, e quelli che non erano affatto pigri nascondevano la propria determinazione dietro un’aria annoiata e stanca, ma dentro di loro possedevano la certezza profonda delle cose già fatte, delle fatiche compiute, e quella forza lampeggiava negli occhi e li sbugiardava: hai studiato tutta la notte, lo vedo, ti scintillano gli occhiali, hai già fatto tutto il programma del semestre, e hai letto anche Heinrich Böll, e oggi pomeriggio andrai a giocare a tennis con la tranquillità che hanno addosso le persone incrollabili e ben definite, le persone-fringuello. Sentivo già allora un enorme complesso di inferiorità, lo sentivo anche per le compagne di classe che avevano già tradotto le versioni per la settimana successiva, desideravo intimamente essere come loro, una non pigra, una non procrastrinatrice, una persona che respira, perché non ha dentro l’ansia della corsa contro il tempo e le scadenze. Almeno fossi stata ribelle, o una viaggiatrice che conosceva tutte le lingue, aveva idee pazze, guidava rivolte universitarie, ospitava dissidenti polacchi, vinceva gare di sci (quando andavo a sciare, speravo tantissimo in una bufera, o almeno nella nebbia fitta, perché con la nebbia sulle piste non si scia, si resta nelle baite a leggere e a mangiare). Sentivo questa inettitudine e volevo scrollarmela di dosso, ma succedeva come nei sogni, quando si cerca di urlare e dalla bocca non esce nemmeno un suono, e si cerca di scappare e i piedi restano incollati al pavimento. Ogni volta una scusa, una distrazione, una telefonata, un romanzo, un film da vedere assolutamente, qualcosa che mi trascina via con sé, e in un angolo della mente conto il tempo che mi resta prima della fine del mondo. L’esame di procedura civile è fra sessanta ore, se non faccio la doccia, non mi vesto, mi nutro solo di cose liquide attraverso un imbuto, dormo solo seduta alla scrivania e al massimo tre ore in due giorni, allora ce la faccio. La prossima volta, però, sarà tutto diverso, mai più acqua alla gola, mai più. Da allora lotto per sconfiggere questa pigrizia, per batterla con la furia e la disciplina, per tenere insieme le giornate privandole di spazi vuoti in cui fantasticare e precipitare nell’inerzia: ma questa specie di stanchezza, questa distrazione sognante, è un sentimento fortissimo, determinato, per niente pigro, e quando si sedimenta, nei decenni, quando sussurra all’orecchio che in fondo è quasi bello vivere così, sentirsi sempre, a un certo punto, inseguiti dai lupi e correre velocissimi, allora questa pigrizia diventa impossibile da battere. Ma si può sotterrarla. Scavare una buca molto profonda e buttare tutta la pigrizia laggiù in fondo, poi ricoprire la buca di compiti, urgenze, scadenze, cose fatte, figli, agende piene, scuse pronte, tonsilliti, invasioni di cavallette, insonnie angosciose che permettano di mandare email di lavoro alle quattro del mattino, come se fosse un’abitudine, una serena normalità, dimostrando così al mondo il contrario della pigrizia. Se la pigrizia non viene scoperta, allora non esiste. Se ci muoviamo senza mai mostrarci afflosciati, storditi, significa che la pigrizia è ancora sepolta là sotto, dove nessuno la vede, e allora nessuno potrà usare contro di noi il peggiore degli insulti, la più tremenda delle verità: pigro.
Per difendersi dalla pigrizia, Natalia Ginzburg si era fatta fare una chiave dell’ufficio, alla casa editrice, e ci si chiudeva dentro a lavorare anche la domenica. Si alzava prima dell’alba, per contrastare il terrore di perdere tempo oziando e fantasticando. Per difendersi dalla pigrizia Giorgio Bassani cercava di seguire il consiglio di Mario Soldati: ti ricordi la raccomandazione del vecchio Flaubert al giovane Maupassant: Meno puttane e meno canottaggio?, ebbene a te basterà meno bicicletta e più tavolino. E così Bassani sedeva al tavolino, cancellava, riscriveva, incespicava, ricominciava, si lamentava: “Che fatica, comunque, che fatica e che pena!”.
Per difendersi dalla pigrizia, le persone corrono veloci, o si aggirano per casa e negli uffici gridando che sono occupatissime e che non possono rispondere al telefono, sto lavorando cazzo, nessuno capisce niente, nessuno lavora tranne me, non ho tempo di vederti, sono in riunione, non parlarmi, non guardarmi, non chiedermi di andare a prendere la bambina a danza, si è slogata una caviglia ma io non posso muovermi da qui, scrivimi una mail, ti rispondo fra due giorni quando esco da questo tunnel di consegne, un caffè no, sei pazza, non ho il tempo nemmeno di respirare, scusa se lascio scattare la segreteria ma sto lavorando, scusate se non vengo alla riunione dei genitori ma farò tardi in ufficio, sto correndo in un posto, sto risolvendo un grosso problema, sto consegnando un lavoro importante. Ma stavi dormendo, ti ho svegliato, hai una voce strana. Dormendo io, ma che dici, non dormo da quindici anni, stavo preparando una conferenza, traducendo un saggio molto difficile, interrogando mio figlio che ha la verifica di storia, stavo cercando un’idea per una cosa che devo scrivere, stavo discutendo con il mio capo di una questione fondamentale, e che fatica, comunque, che fatica e che pena. Sentiamoci più avanti, appena ho un minuto libero ti chiamo. A furia di sotterrare la pigrizia, a furia di spingerla giù in fondo e di guardare con apprensione le vacanze (per paura che basterà un’ora per precipitare nell’ozio smodato, senza riuscire mai più a risollevarsi), ci convinciamo di essere quasi salvi. Ci convinciamo di non essere pigri, di non esserlo mai stati, anzi condanniamo quelli che ci sembrano scansafatiche, ridiamo di loro. Dimentichiamo i minuti passati a osservare l’acqua che scorre, davanti allo specchio del bagno, prima di lavarci i denti. Ci dimentichiamo di quando la casa è vuota, e non ci sono testimoni a guardare mentre ascoltiamo, senza muoverci, il rumore della macchinetta del caffè, e aspettiamo ancora un po’, prima di spegnere il fuoco, perché quel rumore ci culla e noi ci sentiamo al sicuro dentro un nulla gorgogliante, e anche al sicuro su Facebook a guardare vite di persone che non incontreremo mai e che mangiano spaghetti e sembrano felici in quelle foto, saranno felici davvero, saranno pigri, avranno una vita ordinata e scattante? Ma in quel momento arriva una mail, con un numero imprecisato di punti interrogativi: è qualcuno che sta chiedendo che fine ha fatto quella cosa importante che avevamo promesso, il tempo stringe, l’acqua alla gola, le chiusure, è successo qualcosa, tutto bene? In quel momento, tutta l’impalcatura, tutta la fatica che abbiamo speso, negli anni, a sotterrare la pigrizia, il tentativo ostinato di imbrogliare anche noi stessi viene svelato: ci troviamo, soli e nudi, davanti a questa inettitudine stanca. Avevamo tutto il tempo, e lo abbiamo perduto, lo abbiamo sciupato. Avevamo tutto il tempo e abbiamo chiuso il cervello, abbiamo guardato l’acqua che scorre dal rubinetto, abbiamo spiato sconosciuti, fantasticato sulle loro vite, abbiamo controllato gli accessi WhatsApp dei non pigri, e non abbiamo pagato la multa per divieto di sosta perché convinti di non avere tempo, di non poter far crollare, con un solo gesto nuovo, la faticosa impalcatura delle giornate. Allora, sentendoci scoperti, diventiamo come pazzi, accusiamo tutti tranne noi stessi, ma intanto cerchiamo una via d’uscita, creiamo stratagemmi, diventiamo bugiardi e iperattivi, pieni di fantasia e capacità d’improvvisazione. Sto mandando tutto, anzi te l’ho mandato ieri sera, non lo hai ricevuto? Strano, dev’esserci un problema con il wi-fi, facciamo così: dammi un’ora, arrivo davanti al computer e rimando, mia figlia ha quaranta di febbre, le convulsioni, delira ma solo un po’, la porto dal dottore e mando, il tempo di parcheggiare. Provando molta vergogna, come Jean-Luis Trintigant ne “La terrazza”, quando cammina carponi, dietro una pianta, per non incontrare il produttore del film che non ha ancora scritto, sentendo di avere buttato la vita ai cani, ma con la sbagliata convinzione di avercela quasi fatta. Con una segreta, ingenua speranza: nessuno scoprirà mai, o almeno non adesso, la nostra sconfinata, vertiginosa, spavalda pigrizia.
Il Foglio sportivo - in corpore sano