Camicette nere
Da Claretta a Giorgia, con un pensiero a donna Rachele, passando per Luisa Ferida e incontrando le combattenti repubblichine Raffaella, Jole, e poi Wilma P. e Donna Assunta, Francesca M., Adriana, Daniela S., Flavia P., Isabella R., Alessandra M., Renata P., Barbara S… e tante altre che dimentico ma che Annalisa (Terranova) ha raccontato nel suo noto libro “Camicette nere” (Mursia, 2009), da cui attingo con parsimonia. Se esiste un cerchio delle donne nella destra, parlandone da viva, non è un cerchio magico e anzi rischia adesso di chiudersi come un cappio intorno al collo di una gravidanza elettorale che porta il volto di Giorgia Meloni e la maschera d’una miserabile, comune albagia intorno al voto di centrodestra per il Campidoglio. In questione, qui, c’è una maniera di stare al mondo tipicamente di destra – perciò generosa ma di una generosità immancabilmente fratricida – e c’è però un mondo che non comprende il gesto, l’ambizione, il tormento, il denudarsi in un tratto di nobiltà avviato al tramonto. Per come si sono messe le cose, dal punto di vista politico, tutto induce a credere che Giorgia vada incontro alla sconfitta, laddove, se avesse scelto meglio i tempi della sua sprezzatura, poteva vendemmiare a mani basse nella Capitale più ingovernabile e peggio governata dell’occidente. Chissenefrega, certo, dopotutto lo pensa lei per prima. Quanto poi alla baruffa mediatica sulla maternità di Giorgia, basterebbero le righe di Annalena Benini pubblicate mercoledì scorso dal Foglio: “E’ sciocco pensare (o fingere di pensare) che una madre non possa fare bene il sindaco, è altrettanto sciocco pensare che sia tutto uguale, che siamo esseri umani neutri in lotta per prenderci tutto quello che ci spetta, e anche per migliorare il mondo, la città, le buche, i lampioni. Le madri e i figli lo sanno: è diverso”. E’ diverso.
Nulla in Italia è più diverso della così detta “destra”, che intanto è maschio fin dapprincipio e, anche se di donne ne ha ingaggiate abbastanza e pure di valore, ha sempre ceduto all’idealizzazione della controparte femminile in una figura a metà tra la Valchiria crepuscolare e la materna Rachele Mussolini, l’Afrodite nera Claretta Petacci e la più anonima e pacificante ausiliaria. Una galleria di figure tragiche, in origine almeno, intervallata a volte da personalità d’eccezione, intellettuali e autonome come Wilma Perina, dirigente femminile missina negli anni Settanta ed evoliana dichiarata; o come il suo opposto archetipico Daniela Santanchè, la Pitonessa tutta affari e polvere di stelle che ha saputo usare la destra finiana come un’altalena dalla quale lanciarsi in avanti al momento giusto. Ma queste, con poche altre e al netto di qualunque giudizio politico, sono rare fioriture esotiche in una serra posseduta da maschi (uomini pochi, invero) e la cui legge interna non contempla né un vero patriarcato né un matriarcato che non sia fatale anzitutto alle matriarche.
E torno così a Giorgia Meloni che, come la neoleghista Barbara Saltamartini, conosco da quando erano piccole così e vagivano negli scantinati appena arieggiati del postfascismo. Luoghi, per intenderci, dove si tramandava con gusto cattivo l’aneddoto di quel camerata esule a Parigi (lo inseguivano per banda armata) che, al caffè con il compagno Oreste Scalzone di Potere operaio, interrogato da quello sul rapporto tra uomini e donne nel mondo dei fasci, rispose così: “Voi siete promiscui, noi gerarchici: la femmina se la scopa per primo il capo, poi quelli dell’ufficio politico e quindi via via scendendo fino all’ultimo militante”. Voleva essere più che altro un modo estremo per épater le communiste, ma rende comunque l’idea. Perché era sopra tutto un mondo soldatesco e affamato, quello, in cui la presenza femminile appariva a stento e scompariva presto, a meno che non sviluppasse qualità amazzoniche, militari, maschili insomma.
Giorgia Meloni quella caserma l’ha conosciuta di striscio, si è fatta crescere e modellare dal suo Pigmalione Fabio Rampelli, indiscusso stregone tolkieniano della storica sezione missina di Colle Oppio, che in lei ha visto subito una Nannarella in erba, forte e promettente, da trasformare in Evita Perón, una cui far cantare un giorno “Don’t cry for me Garbatella” (quartiere nativo di Giorgia). E’ andata un po’ diversamente. Di lei scrissi, ingeneroso, nel 2007 (“Il passo delle oche”, Einaudi): “Segretaria di Azione giovani dal 2004 e vicepresidentessa della Camera per decisione finiana dopo l’aprile del 2006. A uno sguardo sommario, Giorgia Meloni alla vicepresidenza della Camera appare come una bambina di cinque anni costretta a giocare con uno jo-jo di bronzo alto quanto lei. Come minimo c’è il rischio di farselo cadere addosso. Ma forse questo è un giudizio cattivo e prematuro. E influenzato dalla leggerezza vaporosa con la quale la ragazza, nel dicembre 2006, ha archiviato malamente una storia piantata alle sue spalle senza che lei se ne sia accorta del tutto: ‘Mussolini avrà fatto cose buone, ma il suo sistema autoritario lo condanna, così come per Castro’. Succede sempre così, quando il figlio o la figlia zelota di un padre liquidatore si sente tenuto a mostrare gratitudine. Succede che, non richiesto o non richiesta, tende a sovrastare il benefattore per asseverazione. Con effetti poco credibili. Se non fatui, sopra tutto se messi al confronto del silenzio operoso di altre donne ex missine che non hanno avuto bisogno di conversioni culturali per dimostrare il proprio valore. E’ il caso di Adriana Poli Bortone, segretaria nazionale femminile dell’Msi dal 1981 al 1994, ministro dell’Agricoltura nel primo governo Berlusconi, sindachessa di Lecce per due mandati consecutivi. Non meno brava del romano Walter Veltroni nell’amministrazione del potere, quanto fieramente contraria alle quote rosa. Ma con un’attenzione speciale nei confronti del sesso femminile, intorno al quale organizza annualmente un evento congressuale, librario e teatrale che ha la coloritura delle antiche feste celebrative pagane. Nel suo caso, la figura femminile esce dalla recriminazione malmostosa per essere reintegrata nella dimensione della naturalità originaria. Nulla a che vedere con la tardiva, riscoperta finiana della lotta di genere”. In quel momento il sovrano della destra di governo era Gianfranco Fini, nella sua penultima incarnazione non ancora pseudo futurista e antiberlusconiana, ma già devota al conformismo della lotta di genere: “… nella sua fredda furia creatrice e demolitoria, Fini si è dimostrato più equanime di quanto le sue veroniche ideologiche lascino immaginare. Azzerando il dipartimento della Santanchè (Pari opportunità), promuovendo nuove stelline e compilando graduatorie sempre suscettibili di venir stravolte da un suo malumore di occasione, il leader di An ha dimostrato di saper trattare le femmine come i maschietti: figurine sbiadite manovrabili in un grande gioco di società immaginifica, piegate al luogo comune femminista e giovanilista, ma pur sempre piantate nello spazio obbligato che si estende dalla sabbietta domestica di via della Scrofa alla chaise longue di un potere tutto costretto nel solito paio di mani”. Ingeneroso, dicevo, con Giorgia Meloni, perché la ragazza di lì a qualche anno avrebbe toccato altri traguardi, come il ministero della Gioventù (2008), salvo poi affrancarsi col botto dal patrigno Fini e dal vero padrone delle ferriere di centrodestra, Silvio Berlusconi. Senza contare che adesso il Pigmalione Rampelli, capogruppo di FdI alla Camera dei deputati, prende ordini da Galatea-Giorgia, matriarca fatta e finita, candidata non soltanto illogica al Campidoglio “in una città che ha come simbolo una lupa che allatta due gemelli”, e dunque “non sarà un problema una donna sindaco che allatta un bambino”. O non sarà e basta?
Il fatto è che Giorgia Meloni quell’album genealogico delle donne di destra lo compendia tutto dentro e fuor di sé. Ed è un femminino tutto speciale questo, obbediente all’archetipo ombroso del vero nume tutelare della destra-maschio che si crede patriarcale e comincia cantando “le donne non ci vogliono più bene / perché portiamo la camicia nera” ma poi finisce per pregare alla maniera raccontata da Annalisa Terranova: “Sarebbe bello amore, piantare tutto e scappare via / lasciare qui i problemi, la nostra lotta e i nostri affanni / scappare via lontano, non ha importanza dove / dimenticare tutto, ma scappar via da questa terra / e arrivare in un luogo baciato dal sole, bagnato dal mare, sfiorato dal vento / e lì costruire un nuovo domani, nessuna battaglia, nessun ideale / sarebbe bello amore amore, ma non posso / chiuder gli occhi e fuggire la realtà / No! non voglio rinunciare alla mia lotta / dentro il cuore sento un urlo / un qualcosa che mi sprona / sento un coro nella mente: Boia chi molla! Boia chi molla!”. Eccolo il pegno d’amore al femminino della bella morte, al sangue dei vinti e alla nobiltà della sconfitta. Una malattia metafisica chiamata dea Sconfitta, femmina atroce che vampirizza i suoi soldatini politici fino a renderli eunuchi e obbliga le sue soldatesse a rivestire di virili incantesimi fantasy una realtà altrimenti insostenibile.
Certo, nella biografia di Giorgia M. non c’è la gravitas salottiera di Donna Assunta, nata Stramandinoli Raffaella e rinata icona in quanto vedova Almirante, matriarca senza regno ma dotata di senno e bon mot. E aggiungo: Giorgia non ha neppure un grammo di parentela ideale con la più greve Renata Polverini o con Mussolini Alessandra nata Scicolone e realizzatasi come nipote del Duce. Ma nelle gesta della mater-candidata – che poi vuol dire madre dalla veste candida come la toga di chi in antico si metteva in gioco per una magistratura – sopravvivono alcune ombre. Macchie di sofferenza. In quelle sue frasi d’esordio – “è una extrema ratio… è una scelta d’amore… farò una campagna elettorale da mamma, senza strafare” – manca il sorriso trionfale della consapevolezza di poter farcela, la joie de vivre da irradiare per riaverne in energia e consenso; s’indovina piuttosto una stanchezza ingrata, la piega di una sofferenza contornata da sguardi fangosi di rivalsa e sospetto. E insomma la coazione a ripetere il caratteristico sacrificio umano che piace alla dea Sconfitta, in questo caso l’espiazione d’una femminilità rotonda gettata nell’arena circense, l’immolazione della camerata offerta al pubblico e fraintesa nel suo valore d’uso: figurina ammazza-Berlusconi (e non è vero, non nelle sue intenzioni almeno), regina di cuori espropriata di “quella mistica della femminilità che fino a ieri alimentava la retorica pseudo-femminista e giustificava le enormi tutele a favore delle lavoratrici” (Annalisa Chirico sul Giornale di martedì scorso).
In fondo a destra è sempre una questione di caratteri e destini ricevuti da una dimensione mai abbastanza remota, di atavismi e di orme incaccellabili o false tracce. Oltreché di sesso, che anche a destra viene ormai declinato come un pretesto per non ammettere la plateale sconfitta di un’eterosessualità minimamente condivisa, un cortocircuito per cui “si assiste a una sempre maggiore confusione dei sessi, non solo di compiti, di ruoli e di responsabilità, ma anche fisicamente: è la vittoria dei transessuali e omosessuali sugli eterosessuali e la scomparsa del concetto di normalità”, rimpiange dalle retrovie l’intellettuale Gianfranco de Turris (“Come sopravvivere alla modernità”, Idrovolante edizioni). Perché anche a destra il discorso “pansessualista” è sempre lì, scomodamente seduto al centro di una riflessione che non ha percorso molte miglia dai lontani anni Ottanta del secolo scorso. All’epoca Rauti Isabella coniugata Alemanno, moglie di Gianni e figlia di Pino, e malgrado questi handicap (politici) forse la più autentica femminista del giro postfascista, fondò il foglio femminile Eowyn, che manco a dirlo prese il nome da un’eroina del “Signore degli Anelli”, una principessa che per trovare gloria dovrà travestirsi da cavaliere e che, sì, ucciderà il Re Stregone svelandosi finalmente donna, come da antica profezia, ma alla fine rinuncerà per amore ai propri sogni regali. E’ l’immagine perfetta per la donna di destra che può affermarsi soltanto come amazzone, per poi svanire nell’amore e, sperabilmente, nella maternità. Si potrà uscirne?
Lo sciamano Don Juan, maestro di Castaneda, intimava alla allieve di non figliare, poiché la maternità è un vulnus pesante per le streghe-guerriere. Ma quelle erano, sono, teomachie interiori. La politica è ormai (im)pura estroflessione d’interessi e cinismo al cui servizio si piega la realtà. E Giorgia M. è ancora la valorosa strega-bambina in lotta contro Sauron. Còre de mamma e tanta fantasia.
Il Foglio sportivo - in corpore sano