Un'auto chiamata desiderio
Qual è il futuro dell’auto? Riusciremo a salvarci dalle buche romane? I tassisti capitolini scompariranno come in California o si adatteranno alla rivoluzione tecnologica come il cinema che passa dal muto al sonoro? A questi e altri fondamentali interrogativi risponde Carlo Tursi, trentacinque anni, capo di Uber Italia, successore della povera Benedetta Arese Lucini già bullizzata dai tassinari, e ora felice presso una sua nuova startup di prestiti online.
Tursi, pugliese, ingegnere, già responsabile della sede di Roma, assomiglia un po’ a Enrico Letta, è un nerd appassionato di macchine, adesso gestisce lui i problemi coi tassisti che però non gli scriveranno “zoccola” sotto casa, perché su un uomo non fa molto effetto. “Alla tecnologia ti puoi opporre o puoi decidere di sposarla”, dice mentre mangiamo in un ristorante nel centro di Roma: è appena arrivato con una Enjoy, l’auto rossa del car sharing Eni, e uno zainetto in spalla.
“Quello che molti non capiscono è che noi non rubiamo clienti ma ne portiamo di nuovi, è gente che normalmente userebbe la propria auto, e invece impara a usare noi, poi esce magari con Enjoy e Car2Go, e poi prende il taxi per tornare, supera insomma la resistenza del possesso e non ha più paura di rimanere a piedi”.
In realtà le polemiche tassinare sono un po’ marginali come marginale è il mercato italiano: “Uber investirà un miliardo di dollari nei prossimi mesi in Cina”, dice Tursi, e quello è il mercato principale. “Nonostante il rallentamento dell’economia, lì il ride sharing ha prospettive eccezionali, ci sono ancora meno di 200 auto per ogni mille abitanti, contro le 7-800 dell’occidente. Non hanno l’auto ma non hanno neanche la patente, in compenso hanno tutti lo smartphone e le città continuano a crescere e la gente ha bisogno di muoversi, probabilmente salteranno pure il passaggio della macchina come status symbol”. Dal risciò a Uber senza passare per la macchina a rate, sarebbe un bel vantaggio. Con prospettive di crescita comunque bestiali, come dimostra il maxi accordo firmato recentemente per fare concorrenza proprio a Uber: “Si sono messi insieme Didi Kuaidi, 1,43 miliardi di trasporti l’anno, maggior operatore cinese, con Lyft, principale concorrente di Uber, in cui General Motors ha appena investito 500 milioni di dollari, e poi ancora la Singapore Grab”, a formare una specie di Spectre del ride-sharing, che punta tutto sul mercato asiatico (anche il mitologico investitore di Wall Street Carl Icahn ha messo 150 milioni di dollari di suo nell’operazione).
Intanto a Roma, e in Italia, l’unica Uber legale è ancora quella primordiale, la berlina con autista. “E’ il servizio Uber Black, quello con cui siamo partiti; il nostro modello di business era di prendere il 25 per cento dalla corsa. Poi ci siamo inventati Uber X, cioè mettendo alla guida non solo autisti professionisti. E lì ci siamo cannibalizzati da soli, perché ci prendiamo il 25 per cento di una corsa che vale non più venti euro, ma dieci. Nel frattempo ha funzionato, perché un sacco di gente che prima non avrebbe mai preso un taxi adesso prende Uber. Infine Pool, che è Uber X condiviso, cioè in tanti, con nuova erosione dei profitti, perché sono due persone che avrebbero pagato 10 euro a testa per due macchine, ora prendono la stessa e pagano la metà”. Di nuovo noi abbiamo tagliato in due il fatturato. Uber X però è la vera rivoluzione, sta togliendo auto dalle strade, tecnologicamente è complicato “il car pooling non l’abbiamo inventato noi, nasce con l’autostop per arrivare a BlaBlaCar, la difficoltà è sulle brevi distanze, in pochi secondi devi trovare qualcuno che va nella tua stessa direzione”. I risultati sono più guadagni per gli autisti: “normalmente infatti la vita di un autista Uber si compone di tre fasi: una di attesa, una in cui ti dirigi verso il cliente e infine un’ultima in cui porti il cliente (e qui finalmente guadagni). Con Pool potenzialmente la giornata si trasforma in una corsa infinita, prendi un cliente e intanto ne vai a prendere un altro e così via, massimizzando i guadagni”.
Poi ci sono i servizi più futuribili e un po’ paraculi: a Roma nei mesi scorsi si sono inventati una linea U, chiedendo agli utenti di Facebook di disegnare una metropolitana ideale, sul cui tragitto si trovavano poi auto da condividere, e in una città isolata tra quartieri bombardati la cosa è piaciuta molto. “Noi siamo agnostici sul mezzo di trasporto, ci interessa spostare la gente nel modo più efficiente. A Istanbul lo facciamo con le barche”, altrove con l’elicottero, “dall’aeroporto di Nizza a Cannes per il Festival c’è UberChopper, l’elicottero condiviso”. L’elicottero non sarebbe male per spostarsi dall’Esquilino a Prati, per esempio. Un settore invece più serio è quello del trasporto merci. “Si chiama Uber Rush, un servizio di trasporto per oggetti, attivo per ora a New York Chicago e San Francisco”, ed è un po’ la risposta ad Amazon Prime Now: “Tu utente vai sul sito di abbigliamento online, ti compri un paio di scarpe, quando paghi vedi le varie opzioni di consegna, scegli la più veloce che è Rush, e in mezz’ora l’autista Uber va al negozio e te lo porta a casa”.
Tornando a Roma, con le buche assassine e le voragini, “è chiaro che quello dei trasporti è un problema che il settore pubblico non riuscirà mai a risolvere da solo”, dice Tursi, “Roma ha la caratteristica di essere una città grande e vuota, a bassa densità, dunque con le periferie lontane e scollegate, e i mezzi pubblici non garantiscono gli spostamenti. Detto questo non c’è una soluzione magica, non basta la metro e non bastano le ciclabili, bisogna utilizzare tutte le soluzioni, insieme, però è chiaro che il car pooling è un’opportunità, ormai Uber Pool a San Francisco rappresenta più della metà delle corse, dunque si dimezza il traffico, pensa a quante auto puoi togliere dalla circolazione”.
“Poi c’è naturalmente da incrementare le auto elettriche”, altro pallino di Tursi, che dopo la laurea in Ingegneria del veicolo a Bari e un master al Mit di Boston è partito per Tel Aviv andando a lavorare in una startup che voleva migliorare il mondo a partire dalle batterie. “Si chiamava Better Place, esperienza fantastica”, anche se poi è fallita, che però è un passaggio fondamentale nella liturgia della startup. “Il problema dell’auto elettrica sono le batterie, fai pochi chilometri, costano carissime. L’idea era allora di separare il possesso dell’auto dalla batteria. La batteria era come se fosse gestita da un gestore tipo Tim o Vodafone, tu compravi l’auto, che era una Renault, e sottoscrivevi un contratto con Better Place in cui sceglievi un pacchetto di chilometri annui, e noi ti installavamo uno o due punti di ricarica, a casa o in ufficio, più una rete di punti di ricambio della batteria in cui ti toglievamo quella scarica e ti mettevamo quella carica. Ci avevano investito tutti, General Electric, le grandi banche, ma era troppo in anticipo sui tempi”.
Però il tema vero, Tursi, è: perché le auto elettriche sono così brutte? Cosa c’è dietro? Lo fanno apposta? “Effettivamente sono brutte. Quando ero a Tel Aviv guidavo una Renault che si chiamava Fluence, una specie di Laguna lunga lunga… C’è poi un altro problema, che le macchine giapponesi hanno un concetto di design un po’ diverso da quello delle macchine occidentali. Poi per consumare il meno possibile devi migliorare l’aerodinamica al massimo e quindi normalmente viene fuori un ferro da stiro”, dice il manager. Poi “l’auto elettrica fino a qualche anno fa nasceva nei dipartimenti di quelli che studiano le concept car, erano esperimenti che poi senza troppi aggiustamenti finivano sul mercato; solo molto di recente c’è gente vera che studia auto vere che possono piacere al pubblico”.
Con l’auto elettrica Tursi ammette di aver superato un tabù, quello del cambio automatico, “quando ero ragazzo le riviste dicevano che l’auto automatica non era virile, anch’io ci credevo, poi mi sono ricreduto”. Ha un passato da maschio alfa automobilistico, “ho sempre avuto il mito della Ferrari, al liceo avevo messo su un sito Internet dedicato alla Formula Uno che a un certo punto è diventato uno dei più visitati, anche perché ce n’erano, tipo, tre, parliamo del 1997, aveva un nome imbarazzante, si chiamava ‘Portal-F1’, ci perdevo un sacco di tempo, poi l’ho passato a dei ragazzi di Napoli, e mi sono messo a studiare”.
“Ma la mia passione oggi è l’auto che si guida da sola”, dice ancora il manager. “Una cosa di cui si parla da dieci anni ma adesso non è più Supercar, l’auto del telefilm anni Ottanta; sta arrivando, magari un pezzo alla volta ma sta arrivando. Tecnologicamente ci siamo già, siamo pronti; c’è piuttosto un tema delle infrastrutture, delle strade; le nostre strade sono state concepite per auto guidate da un conducente, se tu oggi disegnassi da zero un sistema per auto senza conducente sarebbe completamente diverso, i parcheggi, le rotatorie, i segnali, le strisce. Allora, il ‘quando’ sarà determinato dal quando le regole lo permetteranno; io credo che sarà un processo graduale, magari si comincerà in autostrada; poi sarà consentito per veicoli pubblici come quelli che fanno la pulizia delle strade, dunque settori di nicchia; magari arriveranno prima i camion delle auto. Poi cambierà completamente il nostro stile di vita; la nostra patente non avrà alcun senso, non dovremo più fare la scuola guida”. E’ una fase pionieristica, par di capire, da corsa all’oro. “Non c’è una cosa più disruptive per noi. Dobbiamo scegliere se essere cannibalizzati o avere un ruolo in questa rivoluzione. Abbiamo un accordo con Google, che è nostro azionista, anche se loro hanno il loro centro di ricerca e noi il nostro, separato, a Pittsburgh. Ma nessuno sa niente di cosa fa l’altro, siamo in una fase delicatissima in cui tutti stanno investendo miliardi e c’è una competizione altissima”. Una specie di guerra fredda a quattro ruote, “un mercato che si ruba talenti a vicenda e che sta costruendo alleanze segrete senza raccontarle in giro in un settore che è ancora misterioso, noi non abbiamo la più pallida idea di quello che sarà il business model del settore, nessuno ne sa niente, ognuno fa una scommessa, ci investe miliardi, e nel dubbio che sia quella giusta non la racconta a nessuno”.
In questo mondo da 007 del cambio automatico però in macchina ci si confronta con problemi più basici, signora mia. Tipo: perché i navigatori non funzionano? “Ah, sì, con la signorina che con accento tedesco ti dice guida in direzione sud-est”, dice Tursi. Esatto. Oppure “non si capisce come nel 2016 non ci sia una macchina che abbia un posto comodo dove appoggiare il telefono senza che tu debba comprare un portacellulare. Questa cosa non la capirò mai”. Normalmente infatti il cellulare cade e ti si infila tra il sedile e il tappetino, e in attesa della self driving car noi passiamo il tempo a ravanare con la mano destra sotto il sedile del passeggero. “Ma per esempio quando prendi la Enjoy, tu dove lo metti il telefono?”, mi chiede Tursi. “Io nel portabottiglie, vicino al cambio, è il posto più comodo”.
Ogni tanto da San Francisco arriva a Roma anche il fondatore e proprietario di Uber, Trevis Kalanick, e il boss di questa azienda che vale ormai 68 miliardi di dollari, tipo tre Fca, per intendersi, viene portato a mangiare una matriciana in qualche ristorante del centro, rigorosamente in incognito, e magari prende pure qualche taxi, all’insaputa dei tassinari che non sanno di scorrazzare il loro public enemy numero uno. “In infradito e shorts, sembra un turista, non è ancora quarantenne, è molto taciturno, rapido di pensiero, come tutti questi startupper seriali”, dice Tursi. “Quando arriva a Roma manda una mail, ‘I’m in your town’, sono in città, e tutta la squadra va nel panico”.
Già ma chi la usa questa Uber a Roma? “Molti genitori per mandare a prendere i figli, più che a Milano”. Poi? “Diplomatici, stranieri, soprattutto il Vaticano, è molto usata dal Vaticano”, e qui qualcuno mormora di un cardinale importantissimo che qualche settimana fa ha aperto incautamente lo sportello della sua Uber Black ed è stato preso in pieno da uno scooter, che si è portato via lo sportello medesimo, ma qui Tursi non conferma e non smentisce. La disruption californiana a Roma: come si fa a iscriversi a Uber, se sei un autista? “Online puoi caricare i documenti, il libretto della macchina, assicurazione, patente, poi vengono da noi in ufficio perché li vogliamo conoscere, poi simuliamo una corsa, e poi ne facciamo una vera, normalmente portano me all’aeroporto o a Termini”. Scontro di civiltà tra Ncc romani e modernità startuppara; “gli facciamo un corso di gruppo su come usare la app, e dicono tutti sì, abbiamo capito, perché si vergognano coi loro colleghi a dire che non la sanno usare, del resto è comprensibile, arrivano da un altro mondo, un mondo in cui qualcuno gli telefona e gli dice: ‘C’è il tale cliente da andare a prendere nel tal posto…’. Ma poi c’è sempre qualcuno, soprattutto tra quelli ultracinquantenni, che dopo tre giorni arriva e ci dice ‘dottò, ma nun me funziona, ’sta app’”. Altre alfabetizzazioni digitali per driver capitolini: “Noi gli chiediamo se preferiscono usare il loro di smartphone o se glielo diamo noi, e in tanti dicono ‘ahò, uso il mio, va benissimo’ ma hanno dei Nokia degli anni Novanta, è incredibile la quantità di Nokia che gira tra gli autisti, non ne ho mai visti così tanti. Allora gli diamo noi lo smartphone e loro allora scoprono un mondo, le app, whatsapp”. Sognando la California, nel Grande raccordo anulare.
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