Iris Apfel, nata bruttina a Queens da oriundi ebrei russi. Interior designer, ha arredato la Casa Bianca sotto nove presidenti diversi

il ritratto

Addio Iris Apfel: 102 anni di stile senza regole, oltre le tendenze

Fabiana Giacomotti

Arredatrice, modella, designer, con un debole per le luci di Hannukah, è mancata una delle grandi interpreti della vita vissuta ai vertici dell'ottimismo. Viveva fra l'Europa e gli Usa. Ci mancherà

 

Iris Apfel, modella, designer ed icona di stile extraordinaire, ha governato la propria vita come desiderava fino all’ultimo e oltre: la notizia della sua morte a centodue anni, avvenuta ieri, è stata data sul suo account Instagram ufficiale, con una foto che la ritrae con un maestoso abito decorato d'oro. Solo tre giorni fa aveva condiviso il suo ultimo post, per celebrare i suoi 102 anni e mezzo, tutte le maison ancora se la contendevano, senza considerare i department stores che le dedicavano collezioni perché la moda, a dispetto di quello che si crede e di altri settori, per esempio il cinema, premia la personalità, lo stile e il gusto a prescindere dall’età. “Nella mia vita”, diceva, “mi sono innamorata di ogni sorta di colore e forma, mi sono divertita a inventare o a mescolare le cose. Sono stata la prima donna a indossare un paio di jeans e tutti dicono che io sia un’icona della moda. Ma che importa. Io guardo il mondo come se lo scoprissi per la prima volta”. Otto anni fa, a novantaquattro anni, fu testimonial di uno spot favoloso per Citroen. Con la sua voce roca, guidava esclamando “no rs, no trend”. Senza regole, oltre le tendenze. Lo riproponiamo.


 

La nuova testimonial della gamma Ds3 è l’interior designer americana Iris Apfel, ha 94 anni (lo scrivo per esteso, novantaquattro), dice che “le regole sono una perdita di tempo”, quindi non se ne rispetta mezza, e di non seguire le tendenze per lo stesso motivo: “No rules, no trends”. Vivesse in Italia si vedrebbe rifiutare il rinnovo della patente come l’astrofisica Margherita Hack quando ingaggiò una battaglia, fu l’ultima della sua vita, contro il medico che si ostinava a non riceverla ritenendo che la perdita di tempo fosse visitarla. Il mondo della televisione e della pubblicità vive però di regole sue proprie perfino in Italia, la famiglia del Mulino Bianco è lì a dimostrarlo da quarant’anni a questa parte, per cui anche su Rai e Mediaset, dopo qualche tentennamento e una risposta telefonica spero volutamente evasiva, genere “Iris chi”, la filiale di Psa, il gruppo Peugeot Citroën, ha deciso di pianificare a partire da aprile la campagna di cui tutti parlano negli Stati Uniti e in Francia.

Nella capitale francese, Iris Apfel ha dominato la settimana delle sfilate appena conclusa affacciandosi da tutti i cartelloni del centro con i suoi occhiali tondi, “signature” o “iconici” come si dice in gergo, dalle copertine dei principali rotocalchi e naturalmente di persona, affrontando con baldanza e il consueto ruscellare di gioielli semi-preziosi il tappeto rosso steso per lei dai grandi magazzini Le Bon Marché, propaggine commerciale del colosso del lusso Lvmh dalla storia pluricentenaria e gloriosa, che fino a fine aprile ospita la mostra “Iris in Paris” e un simpatico pop up store collegato. Lei, la “rara avis della moda” come la definisce l’uomo più snob del sistema, Harold Koda, direttore del Fashion Institute del Metropolitan Museum che ha inaugurato questa lunga serie di omaggi espositivi, cinematografici e televisivi (Sky Arte sta programmando per esempio in questi giorni un raffinatissimo documentario diretto da Albert Maysles), vi ha fatto allestire dieci eccentriche interpretazioni della vita parigina direttamente tratte dal suo guardaroba. Pellicce di mongolia, abiti da sera, pantaloni aderenti, tuniche di seta, tutti piuttosto irresistibili anche per via dei commenti che li accompagnano (“questo vestito, più voluminoso sulla parte alta, è perfetto per sgusciare tra i tavoli affollati e andare in pista a ballare”) e che agli occhi degli esperti sono suonati come una versione contemporanea della stralunata rubrica che Diana Vreeland teneva per Harper’s Bazaar negli anni Trenta, in cui consigliava di schiarire i capelli dei bambini lavandoli con lo champagne avanzato. I giovanissimi, non necessariamente avvezzi alla rilettura critica degli scritti della moda anteguerra, hanno trovato i look di Iris Apfel fantastici, inarrivabili, wonderful, amazing e insomma degni di tutte quelle poche e riconoscibilissime espressioni che ne accompagnano i post quotidiani.

 

Alla serata di inaugurazione della mostra al Bon Marché Rive Gauche e molto caviar, oltre agli stilisti che di solito non si fanno vedere quasi neanche alle proprie sfilate, come Dries van Noten o Azzedine Alaia, c’era infatti una calca infinita di ragazzine, attricette, blogger e fashion victim con gli occhi luminosi, in fila trepidante e rispettosa per un selfie con la star, e non crediate che volessero avvicinarla solo perché questa è la donna che ha arredato la Casa Bianca sotto nove presidenti diversi, ha scritto da par suo per la bibbia dell’informazione modaiola, Wwd, e ha rilanciato l’uso del tessile e della tappezzeria di ispirazione classica che adesso ritroviamo in tutte le sfilate, tutto questo conservando un matrimonio felicissimo per oltre sessant’anni.

 

Sono informazioni che la maggior parte di loro ignora. Iris Apfel, e tante altre signore decisamente ultraottantenni come Carmen Dell’Orefice, modella tuttora richiestissima come Jacquie Murdock, testimonial per Lanvin, l’artista nipponica Yayoi Kusama, la stylist Linda Rodin,  l’attrice Elaine Stritch oppure e ancora la giapponese Emiko, novantatré anni, nonna dell’artista del tessile Chinami Mori che l’ha voluta come interprete delle sue creazioni e che adesso, a fronte di un travolgente successo su instagram, viene abitualmente taggata come fonte di ispirazione da tutti i grandi marchi della moda, sono ricercate per la loro personalità, per il loro stile e per il loro inarrestabile successo.

 

Si tratta di un cambio di passo epocale rispetto ai tempi, recentissimi, in cui l’unico modello di riferimento spendibile della terza età apparteneva al sesso maschile e rispondeva al nome di Sean Connery, dunque a canoni estetici classici e a un immaginario molto sessuale legato alla figura dell’agente 007. Adesso, sulle copertine finiscono ex bellissimi politicamente impegnati come Robert Redford, che ad agosto compirà ottant’anni, ma anche caratteristi di prestanza discutibile, per non dire di nessuna prestanza, come John Hurt, che due settimane fa è apparso sulla prima pagina di “How to spendi it”, supplemento di lifestyle del Financial Times, in un completo tre pezzi Gucci fiorato e nella gloria divertita dei suoi settantasei anni (in caso aveste un attimo di tempo a disposizione, vi consiglierei di scaricare il filmato di backstage sul sito di FT e di godervi quella sua dizione magistrale mentre si domanda perché diavolo gli stylist abbiano voluto proprio lui con le sue spalle strette).

 

In questo consenso planetario per la terza età come modello di stile e di gusto non c’è alcun compiacimento, nessun’ombra di derisione, zero morbosità: Iris Apfel piace come piacciono Rihanna o Taylor Swift, John Hurt come Justin Bieber. Che li separino tre generazioni è un dettaglio del tutto ininfluente, ed è per questo che la nuova operina di Gustavo Zagrebelsky, “Senza adulti”, saggio sul “tempo presente che ha rivoluzionato i rapporti fra le età della vita” e sulla giovinezza che avrebbe estromesso definitivamente il passato come categoria storica, sociale e anagrafica,  appena uscito nelle librerie sembra già fuori tempo massimo. Di certo, è smentito dai fatti. Nessuna di queste signore o delle molte epigoni di minore fama ma uguale allegria che trovate sul web e su YouTube (spesso intervistate dalla Bbc perché l’Inghilterra continua a essere la patria dell’eccentricità oggi com’era all’epoca di Mary Quant, dei Beatles e di lord Brummel)  ha tentato infatti di “prolungare la giovinezza con ogni mezzo”, come denuncia il pamphlet; al contrario, sfoggia l’età raggiunta come volano per godersela più di prima, immune alle critiche e alle costrizioni. “Mi guardano? E chissenefrega”, dice una di loro che vive a Brighton e, non avendo creato un impero come Iris Apfel, non combina i look che le piacciono nei negozi vintage di Los Angeles dove si riforniscono le stylist delle attrici, ma nei negozi dell’Esercito della Salvezza. Tutte si sono tenute le loro rughe fino all’ultima; come Anna Magnani che ci litigava con i truccatori, hanno impiegato una vita per farsele, ed è per questo che vincono: per il menefreghismo assoluto, per questa immagine speculare e rassicurante all’insicurezza giovanile. Sotto certi aspetti, sono la risposta più contemporanea e realistica al bullismo, la dimostrazione che esiste la strada per essere se stessi alle proprie condizioni e senza scendere a compromessi, “no rules no trends” appunto: pochissime di queste nuove icone, infatti, sono nate belle. “Una volta, qualcuno mi ha detto che non ero carina e che non lo sarei mai stata. Però avevo stile, che è molto meglio”, dice Iris Apfel in quello che, non a caso e con molto acume da parte di un settore che, come quello automobilistico, per decenni ha piazzato donne nude sul cofano e mammine decerebrate al volante, è diventato il pay off dello spot e in buona sostanza l’asse semantico e simbolico dell’intera campagna pubblicitaria. Belle, anzi di più e meglio, irresistibili, tutte queste donne sono infatti diventate usando il cervello. Per questo piacciono e per questo tutti le vogliono, sebbene, prima di avventurarsi in televisione che è una decisione definitiva e senza appello, da una settimana in Italia Psa stia tastando il gradimento allo spot di Iris Apfel sui social network, che è la scelta più praticata quando si vuole ottenere il sostegno del pubblico più evoluto e nel contempo scaricare l’aggressività di quello più brutale, e ha fatto bene.

 

Ammettiamolo: non dev’essere stata una decisione facile, per una merceologia che si rivolge necessariamente al grande pubblico, avventurarsi su un terreno che la stessa moda di alta gamma ha deciso di battere da pochissimo tempo contravvenendo peraltro a quello che è il sottinteso alla sua stessa natura, cioè la perpetuazione della giovinezza che fino a oggi nessuno aveva osato mettere in discussione, figuriamoci un fine giurista come Zagrebelsky. A dispetto di quanto scriviamo e dei post su Instagram e degli snapchat adoranti, i grandi marchi del lusso hanno appena scoperto la bellezza dell’età matura vincente. Andate a sfogliare le riviste di moda degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta: troverete degli ultraquarantenni solo nei servizi sulla cultura underground, o nei cosiddetti ambienti artistici. Fino al nuovo millennio, forse solo Benetton aveva osato rompere gli schemi che legavano la moda alla giovinezza e dunque, in traslato, il suo acquisto all’equivalente di un feticcio e di uno scacciaguai. Le personalità dello stile, i grandi vecchi come testimonial, sono arrivati successivamente, molto alla spicciolata, e grazie all’iniziativa di fotografi come Juergen Teller o di stiliste come Vivienne Westwood, la prima fra gli stilisti (Giorgio Armani fino a oggi rientrava nella stessa logica di Sean Connery) a dire basta a una tintura arancio carota molto punk ma che non le avrebbe comunque permesso di riottenere la propria fisionomia degli anni di Kings Road e a presentarsi in passerella con una zazzeretta bianca e un abito di paillettes blu. Fino a oggi, la vecchiaia non ha mai aiutato a vendere abiti da sera, ma non crediate che la scelta di naturalezza sempre più diffusa fra gli stilisti, nell’arte e persino nel mass market sia dettata dall’attuale, maggiore disponibilità economica degli ultrasessantenni rispetto ai trentenni. Tutti sappiamo che la generazione andata sposa durante la Seconda guerra mondiale, che è il caso di Iris, o negli anni immediatamente successivi, gode di un comfort che la rende una preda appetibilissima per ogni bene di consumo, dai viaggi alle case. Meno di un mese fa, per esempio, il Financial Times ha dedicato l’apertura della sezione “House and home” agli ultra sessantacinquenni che, solo in Inghilterra, possiedono un patrimonio in case di proprietà, cioè libere da quella particolare forma dell’ipoteca che è il mortgage, superiore a 1,2 miliardi di sterline, viaggiano di continuo e si godono la vita e il welfare domandandosi se e quanto questa pacchia continuerà, cioè fino a quando lo stato potrà continuare a garantire il servizio sanitario e le agevolazioni per trasporti, cultura e divertimento. Perfino in Italia, a dispetto dell’eterno dibattito sulle pensioni e dei computi un po’ umilianti della gestione Boeri, è noto che quasi dieci milioni di anziani vivano in case di proprietà, magari privi dei mezzi per ristrutturarle, e che il rapporto fra gli ultrasessantenni già pensionati e i trentenni non di rado sprovvisti di lavoro sia ampiamente sperequato a favore dei primi. Ma l’agio vero o presunto degli anziani non è mai stato un argomento di vendita o, per meglio dire, non la leva di comunicazione più efficace per ottenerla anche e soprattutto presso gli stessi anziani. Nessuno ha mai ripreso una settantenne, figuriamoci una novantenne, per vendere le crociere di cui invece proprio loro, con il loro tempo a disposizione e la voglia di divertirsi intatta, sono gli obiettivi, e fino a poco tempo fa, fra i grandissimi nomi della moda, forse solo Jean Paul Gaultier, Prada con la sfilata uomo del 2012, interpretata da nove attori fra cui spiccava il neosessantenne Willem Dafoe o appunto Vivienne Westwood, ma in prima persona, avevano portato in passerella donne di età superiore ai vent’anni o le avevano fotografate per le loro campagne pubblicitarie. Nessuno, fino a oggi, aveva usato l’immagine un anziano nemmeno nella comunicazione di prodotti specificamente destinati a loro: nelle pubblicità, perfino l’incontinenza urinaria sembra un problema per trentenni, che se la fanno sotto dal ridere.

 

Come il Calendario Pirelli 2016 firmato da Annie Leiboviz, Iris Apfel è destinata a segnare uno spartiacque in questa nostra società occidentale cattolica che ama i vecchi molto per parole e moltissimo in omissione, ma non solo perché viene inquadrata seduta al volante e non in carrozzella. Non raccontiamoci storie: il modello Ds3, è evidente in ogni segno, è destinato a un pubblico giovane, in prevalenza femminile, colto e raffinato. Quello che, presumibilmente, soffre del terrore di invecchiare, teme di non essere adeguato a un ambiente altamente competitivo e frustrante come quello che attende le donne che lavorano. Iris Apfel, nata bruttina a Queens da oriundi ebrei russi, diventata icona di stile mondiale, ricca e celebrata, è per tutte, giovanissime e meno giovani, la promessa che un futuro esiste a prescindere, e che può essere coloratissimo. A Parigi, l’ha detto anche lei: “Divertisi è la miglior vendetta”.

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