Ho viaggiato felice sulla strada del nostro scontento
Salerno-Reggio Calabria, un ritorno. Una bella avventura. Le code e i lavori infiniti hanno fatto della A3 un simbolo dell’incuria e dei mali italiani, ma oggi la si scopre diversa. E non è solo nostalgia di vacanze negli anni 70, quando anche il mezzogiorno sembrava rialzarsi – di Antonio Pascale
Ho detto solo: la Salerno-Reggio Calabria, la famosa A3 e in tanti mi hanno risposto (secco): auguri. Sì, la Salerno-Reggio Calabria. Mi sono detto, la percorro il Venerdì santo, giorno da bollino nero e faccio un bel reportage (il Foglio è povero ma dovrebbero rimborsarmi la benzina), così per capire come si viaggia oggi sull’autostrada simbolo dell’incuria e dei mali italiani. E appunto, in tanti mi hanno detto solo e seccamente: auguri! Oppure: ti trattieni a lungo? Bene, cominciamo. Abito a Roma dal 1989, anche se in tanti pensano che vivo a Napoli e devo spiegare ogni volta: no! A Napoli ci sono nato, ho abitato a Caserta e poi a Roma. Insomma scusate la precisazione polemica (ma è un tormento), questo solo per dire che sono partito da Caserta e ho dormito a casa dei miei, in quello che una volta è stato il mio letto, la mia stanza. Sapete com’è, no? L’effetto madeleine, dico. Mentre cercavo la posizione giusta nel mio letto di un tempo, mi sono rivisto ragazzino, a luglio, in procinto di partire con amici di famiglia per la Calabria, Acquappesa, località marina, vicino Cetraro. Erano gli anni 70. Ora, i ricordi – poi soprattutto quelli elaborati sui letti d’infanzia – possono essere fallaci, tuttavia se ci ripenso sento crescere in me una sensazione di spensieratezza. D’accordo sì, la crisi petrolifera, la prima domenica di austerity – 2 dicembre 1973 – e tuttavia se mi volto indietro vedo i miei genitori e gli amici dei miei. Sembrano felici. Per lo meno i loro gesti quotidiani mi rassicurano. Abbiamo una casa di 120 mq con giardino condominiale e un mutuo, una Opel Ascona A 1.6, 146 km di velocità massima, presa a rate e con la quale partiremo per la Calabria per le vacanze: sì, ripeto, sono del sud, sono di Caserta, e nonostante l’austerità io e la mia famiglia e gli amici dei miei ci sentiamo felici. Del resto, vengo da lontano: ho antenati contadini, da generazioni e generazioni hanno visto solo montagne, vallate e vacche, mio padre e mia madre sono i primi ad aver studiato, i miei parenti sono emigrati tra l’America e l’Inghilterra. Ma ora (negli anni 70) ci sentiamo membri di un nuovo club: quello del sud e siamo orgogliosi, difatti, nonostante la crisi petrolifera e l’austerity, il nord e Milano non ci sembrano poi così lontani: possiamo raggiungerli. Sono gli indicatori economici a dirlo: stiamo guadagnando, abbiamo sì il mutuo e le rate ma anche le berline, le cucine nuove, i bagni piastrellati, i frigoriferi. Alcuni indici, poi – scolarità, aspettativa di vita, aumento dell’altezza – segnalano che quel distacco tra il nord e il sud massimo nel 1951 ora (più precisamente nel 1971) è ridotto al minimo.
Eppure appunto venivamo da lontano. Emanuele Felice, per sottolineare le diverse condizioni di partenza tra nord e sud, ha esaminato quattro indicatori: a) disponibilità di strade e ferrovie; b) presenza di banche, dunque di un sistema creditizio; c) istruzione; d) reddito. Sono le condizioni (assieme alla qualità delle istituzioni, ma questa può derivare dagli indicatori sopracitati) necessarie allo sviluppo. Ferrovie? Ebbene, i Borboni avevano costruito la prima linea, Napoli-Portici (1839) e lunga sette chilometri, poi prolungata, negli anni seguenti, fino a Castellammare e poi a Pompei. Perché fu costruita? Perché nel 1738 Carlo III di Borbone – il più illuminato, stando a Benedetto Croce – aveva deciso di edificare la sua residenza estiva a Portici (ora sede di Agraria).
Il viadotto Italia, oggi in via di ristrutturazione, forse l’opera più innovativa dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. In calcestruzzo e acciaio, è il secondo viadotto più alto in Europa
Dunque appena un secolo dopo si diede il via alla linea ferroviaria, così la famiglia reale si poteva spostare verso il mare. Insomma, la ferrovia serviva ai ricchi. Negli anni la situazione non sarebbe cambiata. Nel 1859 la rete ferroviaria del Regno delle due Sicilie era di 99 chilometri (850 km Piemonte e Liguria; 522 km Lombardia e Veneto, 257 km Toscana, pure il papato superava i Borboni, 101 km). La ferrovia era in quegli anni il motore del progresso e stava rivoluzionando il commercio, i prezzi su rotaia erano più competitivi di quelli via mare. Strutture creditizie? Lì, la disparità era forte. All’Unità, nel Regno delle due Sicilie esistevano due banche pubbliche, il Banco di Napoli (con una sola filiale, quella di Bari) e il Banco di Sicilia (due sedi, a Palermo e a Messina) – c’erano poi 1200 monti frumentari ma esercitavano credito in natura, prestavano sementi per la raccolta. Nel centro-nord invece la situazione creditizia era ampiamente diversificata e in piena evoluzione (c’erano molti istituti genovesi, torinesi e lombardi), insomma moneta (metallica e cartacea) che poteva essere investita. I dati sull’istruzione, quelli invece, erano ancora più impressionanti. I Borboni lasciarono in eredità l’86 per cento di analfabeti (dato 1861 che si avvicina a quello della Russia zarista). Nessuna donna sapeva leggere e scrivere. Fra gli uomini solo preti aristocratici e qualche borghese era alfabetizzato (nella Spagna la quota di analfabeti era del 75 per cento, mentre il Piemonte e la Lombardia stavano sul 50 per cento e la Liguria al 35, dunque si poteva intravedere sul nascere il triangolo industriale). Sul reddito c’è invece una questione aperta, alcune stime (Daniele e Malanima) riportano una sostanziale equità, altre, come quelle di Vecchi e Felice (che incorporano il lavoro di Ciccarelli e Fenoaltea e altri e usano la procedura Geary e Stark, adottata in ambito europeo), forniscono risultati diversi. Fatto 100 l’Italia, il meridione presentava un pil per abitante di 90, mentre il centro-nord di 106, la differenza tra meridionali e gli altri italiani era del 16 per cento. Può sembrare poco, ma considerando che il reddito annuo era già molto basso, quella che sembra una modesta percentuale invece incide significativamente. Comunque, Emanuele Felice, per farla breve, sulla questione reddito fornisce anche altre semplici indicazioni, a mo’ di euristiche. Prima di tutto le chiare e pesanti conseguenze della presenza del latifondo: nel mezzogiorno di fine Settecento, le famiglie possidenti ammontavano a circa 600, cui si aggiungevano una cinquantina di baroni ecclesiastici, poche migliaia di teste, cioè l’1 per cento della popolazione, per questo Pasquale Villani scriveva che “una novantina di baroni esercitavano la loro giurisdizione su due milioni di vassalli” – e comunque è strano, o forse no, anzi è una chiave di lettura, pensare che l’intervento modernizzatore più dirompente di tutta la storia del Regno di Napoli e di tutta la storia pre e post unitaria, sia stato quello compiuto il 2 agosto del 1806 da Giuseppe Bonaparte (istallato a Napoli a seguito dell’esercito napoleonico), che abolì con una sola legge e un solo colpo l’intera giurisdizione che per secoli aveva dato ai baroni potere assoluto su uomini, terre castelli fiumi e strade ecc.: insomma l’abolizione della feudalità – comunque, dopo i moti del 1820-’21, nei decenni che seguirono, il potere dei baroni rimase sostanzialmente immutato.
Ma negli anni 70 le cose erano cambiate, mia madre insegnava e leggeva i libri, il divario si era ristretto, i baroni certo quelli li incontravamo ancora, ma ora noi avevamo una casa di proprietà e buone utilitarie e ferie pagate, un mese in Calabria, appunto. E anche una strada (quasi) nuova, l’A3. Mio padre e gli altri amici erano uomini pratici – venivano da lontano – noi ragazzi li guardavamo mentre caricavano le macchina – spesso all’inverosimile – con pochi gesti. Due nodi e le corde erano tese, le merci, l’occorrente per un mese, stipate sul portabagagli sul tettuccio. Macchine come camion, revisionate, lavate e preparate già dalla mattina. Gli adulti le sistemavano in garage, con le chiavi inserite nel cruscotto, noi ragazzi eravamo emozionati per la partenza, e tesi anche. Gli adulti erano chiari su quest’aspetto. Si parte alle tre di notte, perché l’A3 è l’unica strada che abbiamo, unisce Campania, Basilicata, Calabria, 443 km. “Dopo ventuno secoli la via che Roma aprì a unire le genti del Mezzogiorno si riapre oggi sulle antiche orme da Salerno a Reggio Calabria per continuare e completare fra il settentrione e il meridione d’Italia la grande via del traffico e del lavoro”. Ecco sì, questa era la frase celebrativa (un po’ ridondante) per la posa della prima pietra, e comunque, retorica a parte, strada significa anche speranza, uniamo nord e sud, così sarà più facile andare al mare in Calabria e più facile investire, sennò come ci arrivi sulla Sila? Tuttavia dopo 21 secoli la nuova strada si presentava aspra. E sì, pericolosa su molti tratti, curve assurde, gallerie non illuminate, ogni tanto un incidente, che vuoi farci? Doveva passare per la costa e invece taglia all’interno, e chissà perché, chissà quale politico avevano accontentato, del resto al sud c’erano baroni e tanti ignoranti. Ma noi negli anni 70 eravamo spensierati, furbi e (forse) felici, e quindi prendevamo tutto come un’avventura. Allora sì alle tre di notte, tre ore e mezzo e si era ad Acquappesa, cinque ore circa, se invece ci spingevamo fino a Tropea.
C’ho ripensato nel letto mentre cercavo la posizione, a quelle partenze. Mio padre che non dormiva (per la tensione, diceva) e mi svegliava alle due e trenta. L’appuntamento al casello di Caserta sud. La partenza, i mozziconi delle sigarette buttati dal finestrino, la striscia di brace sull’asfalto e poco più in alto la striscia dell’alba (si cominciava a intravedere prima di Lagonegro) noi tutti che procedevamo in carovana, i monti del Pollino, poi uscivamo a Cosenza, imboccavamo una statale piena di curve, qualcuno di noi vomitava (anche se non aveva fatto colazione) e finalmente la costa: quel mare, quella luce. Lasciata l’aspra autostrada ci si ritrovava e felicemente tra la natura selvaggia. Macchia mediterranea (o meglio quello che restava delle secolari deforestazioni) e case senza intonaco, i ferri della speranza bene in vista, servizi igienici non a norma e calli sotto i piedi, niente sabbia e tante pietre, cazzute anch’esse, ovviamente spiagge libere, niente lidi, e comunque le onde, quelle, in alcune giornate di vento erano enormi, piene di spuma, si abbattevano sulla battigia, e s’allargavano sulla spiaggia: come un’ameba raggiungevano gli ombrelloni trascinando via tutto. Le grida di meraviglia e di eccitazione di noi ragazzi, gli adulti che interrompevano un cruciverba di Bartezzaghi sulla Settimana enigmistica per prendere la roba trascinata dall’acqua: e ridevamo tutti. Sì, eravamo felici. Le ragazze e gli scogli, il porto, il pesce fresco, le partite a carte e vabbè, ricordando tutto questo, afflitto dalle rimembranze mi sono addormentato e invece di svegliarmi alle due e trenta per partire, come ai bei tempi, alle tre, ho fatto tardi. Alle otto stavo ancora a casa, alle nove mio padre m’ha detto: e mo’ trovi un traffico! Alle undici mi sono avviato rassegnato (chi me l’ha fatto fare? questi assurdi viaggi nella nostalgia).
Dunque. Un giovanissimo ingegnere, Giuseppe Scaramuzzi (capo della Salerno-Reggio dal 1964 al 1969) in un’intervista del tempo sosteneva che a strada libera da Salerno a Reggio ci sarebbero volute non più di quattro ore. E invece in questi anni è successo di tutto – alla mia famiglia no, ci siamo sempre avviati alle tre di notte. I racconti erano sempre sullo stesso tono: un incubo. Anche un cardinale (Martino) era rimasto bloccato in una coda lunghissima (si era a luglio 2007) e stremato aveva paragonato l’A3 a una Via Crucis. Più avanzavano le promesse politiche più l’incubo aumentava. Ricordo che un tratto dell’A3 era stato sequestrato da un magistrato per infiltrazioni mafiose e poi il tratto non era nemmeno a norma, ma siccome non si poteva bloccare del tutto l’autostrada, allora si era imposto un limite di velocità assurdo, tipo 40 all’ora. E cose simili. Insomma è un incubo, dicevano tutti, un delirio, finché nel 2000 la Comunità europea ha imposto un piano. A che punto siamo? Che mi aspetta lungo il percorso?
Certo che è strano, pensavo, Salerno l’avevo superata e camminavo (immerso nella luce) su un tratto autostradale di tre corsie, e soprattutto: non c’era nessuno. Poco traffico. Chissà più avanti. E più avanti verso Sala Consilina doveva esserci – se non ricordavo male – una strettoia, quella del Serino, sì km 131, una strettoia lunga quarant’anni. Mi ricordo che già negli anni 70 si camminava su corsia unica e c’era una lunga curva a gomito, vedo come se fosse ora mio padre che spegneva la sigaretta e abbassava il volume della radio, per concentrarsi, e tutti gli adulti in fila, in carovana, facevano lo stesso gesto: perché qui c’è morta tanta di quelle gente, così dicevano gli adulti. E invece mi sono ritrovato da solo a scivolare lungo il tratto Buonabitacolo Padula-Lauria, senza intoppi, anzi ho attraversato una galleria niente male, lunga, affusolata, avveniristica, con dei led di colore blu/violacei a indicare le uscite di sicurezza, così belli che mi sono venute mente le luminarie accese per la festa. Che tra l’altro quella del monte Sirino è classificata Zps: zona a protezione speciale. Non deve essere stato facile lavorare qui. Voglio dire costruire un’autostrada che attraversa ’sta parte di Appennino. Come si dice in gergo la zps si articola tra i 918 e i 2.005 metri di quota, c’è una morena glaciale e un laghetto, pure questo di origine glaciale. Gli ornitologi ci vanno a nozze, c’è il picchio nero. Pure i botanici non scherzano, a parte la faggeta, c’è un fiore molto raro, la vicia serinica, un’esclusiva del Massiccio del Sirino-Papa, un fiore tipico lucano, insomma, azzurro-violetto, e guarda, mi sono detto una volta uscito dalla galleria, vuoi vedere che il colore di quei led è ispirato alla vicia? Ma no, queste sono immagini poetiche prodotte dalla mente in stato flow. Però che vuoi fare? A differenza di mio padre quarant’anni fa, stavo attraversando placidamente questo tratto, e la mente vagava. Poi ho rallentato. Sì, c’era un tratto a corsia unica, del vecchio genere, insomma, tra Laino Borgo e Normanno. C’era un camion davanti a me. E dietro di me? Nessuno. Che cosa strana, ho fatto anche le foto: non scende nessuno in Calabria? Noi invece ci stavamo un mese. Affittavamo delle case in riva al mare. Credo fossero abusive. Costavano poco. Anno dopo anno le abbiamo viste cambiare. Si sono alzate di un piano, poi l’intonaco, poi le antenne per prendere Capodistria. Certo la struttura era elementare, camere e cucina, l’arredo spartano (non mancavano gli scarafaggi) tuttavia in quel gruppo di case abusive eravamo in tanti, non solo meridionali, c’erano anche i nordici e tanti tedeschi. I più avventurieri. Oltre alle donne con le tette al vento, gli uomini camminavano scalzi, sempre. E bevevano, si divertivano, esploravano, nuotavano e solo a notte fonda tornavano nei loro appartamenti.
Ah, certo, a metà stagione ci lamentavamo tutti. Il mare si sporcava. C’era questa striscia gialla nauseabonda che insozzava l’acqua cristallina. Allora, sì, afflitti dalla striscia gialla cambiavamo umore, e ci lamentavano, di tutto. Della Calabria e dei calabresi. Dell’A3 soprattutto, costruita male, un popolo di corrotti e concussori. Politici che segnavano il tracciato dell’autostrada solo per i propri interessi, baroni che facevano il loro porco comodo, una massa di ignoranti al loro servizio. E guardando le auto di quelli del nord, più fini delle nostre, e i Mercedes dei tedeschi, pensavamo: non ce la faremo mai. Urlavamo: non ce la faremo mai a ridurre questo divario! Con questa autostrada, con questa bellezza tradita, il mare azzurro a inizio stagione, giallo a metà luglio, le faggete, i picchi neri, la vicia, le morene glaciali e i monti della Sila, aspri e bellissimi e più avanti c’era Reggio Calabria, e il tratto dove i due mari si uniscono – vi assicuro, dicevamo – è meraviglioso, ci sono delle coltivazioni di bergamotto… guardate, un incanto, le attraversate e vi trovate sulla spiaggia, tra scirocco e libeccio, un incanto – sottolineavamo – potevamo fare questo e quest’altro ancora, se e solo se non fossimo così, se l’autostrada non fosse così assurda e i baroni e la corruzione e intanto ci sfogavamo e bevevamo (assieme ai tedeschi) birre a raffica e poi, afflitti, intimiditi dalla marea gialla, andavamo nei bagni delle nostre case abusive e buttavamo tutto fuori. E mai, mai che ci sia venuto in mente che il problema eravamo noi. Noi inquinavamo il mare, noi del sud e del nord e pure i tedeschi con le tette al vento, noi che prendevamo le case abusive, con servizi igienici non a norma, noi che affollavamo speranzosi e felici (e tanto furbi) le spiagge calabresi senza depuratori (avrebbero alzato il prezzo delle nostre vacanze), noi corrotti e concussi, così furbi da credere che il male fosse fuori da noi, magari assumeva a volte le sembianze di un’autostrada piena di curve, insensata, che tuttavia alla fine, noi, e solo noi, avevamo costruito.
Ho pensato tutto questo, in maniera molto disordinata, poi a Castrovillari ho acceso la radio, stavo andando, senza intoppi verso Cosenza e fra poco, dopo la Sila, avrei visto il mare. Ascoltare una bella canzone e guardare il mare è una di quelle esperienze estetiche alle quali non si deve rinunciare. Ora, una delle caratteristiche della A3 è che dopo un certo punto non si sente più Radio Maria (e per me va bene) e incredibile si sente (e bene anche) Radio Tre. C’era “Fahrenheit” e si parlava dei mondi di Miyazaki. Questo contrasto tra natura e tecnica, conflittuale in Miyazaki (giusto così) e ho ascoltato, avvolto nella luce, con la Sila alla mia sinistra. Ho ascoltato, pensando, a proposito di tecnica, a quanto deve essere stato difficile costruire l’A3, con questo profilo altimetrico da superare. Duecento km in mezzo agli Appennini Lucani e Calabresi, 190 gallerie (125 km), 480 tra viadotti e ponti, tra cui forse l’opera più innovativa, il viadotto Italia, quello in via di ristrutturazione, in calcestruzzo e acciaio, il secondo viadotto più alto in Europa e mi sono chiesto (sempre pensando al rapporto tra la natura e la tecnica in Miyazaki) se gli ingegneri e gli operai non fossero la parte migliore di questo paese, gli unici che hanno davvero gettato dei ponti (e ci sono morti) per farci superare le asperità della natura e della cultura e ci hanno portato fin qui, a noi, dico, a noi che venivamo da lontano. Certo che ne sapeva il giovane ingegnere Giuseppe Scaramuzzi che poi avremmo affittato case abusive senza depuratori e insozzato il mare. Loro si sono impegnati, tra l’altro con una dose di creatività che a noi scrittori manca. Anche perché nostalgici come siamo ci preoccupiamo di questo rapporto tra natura e tecnica, ci preoccupiamo di diventare come Dio e creare cose che non esistono e far danni. Che arroganti che siamo. Siamo arroganti quando usiamo una frase come questa: gli scienziati (o gli ingegneri) che giocano a fare Dio. Ma dai. Siamo ancora creazionisti? Crediamo che ci sia una natura incontaminata che noi arrogantemente distruggiamo? Anche i castori giocano a fare Dio quando costruiscono dighe, formano nicchie ecologiche che prima non c’erano. E quell’aspro sulfureo odore di cavolo? Chi l’ha creato? Dio? Ma neanche per idea. Dai, sono stati dei lepidotteri, cinque milioni di anni fa. Mangiavano le foglie del cavolo e la pianta ha reagito producendo sostanze a base di zolfo, tossiche per gli insetti. I quali a poi volta hanno reagito generando meccanismi di resistenza. E la pianta a sua volta ha prodotto altre tossine a base di zolfo. Coevoluzione pianta/animale. La natura non esiste, esiste il mutamento della natura a forza di interazioni tra gli attori in gioco. La tecnica si evolve e la natura cambia, è stato sempre così e così sarà per sempre, noi dobbiamo più prosaicamente preoccuparci dei depuratori (delle gallerie e dei ponti), invece che di essere o non essere Dio.
Poi l’ho visto, finalmente. Il mare. Dopo una galleria. Da ora in poi si scende di quota, si va verso San Giovanni e Lamezia e la costa è così bella che mi è venuto voglia di telefonare a tutti i calabresi che conoscevo e parlare di ’nduja e delle cipolle di Tropea. Tanto avevo tempo, e incredibile, non c’era una coda, una curva malfatta, questa Salerno-Reggio funziona, scivoli tra luce e il mare e la mente va in stato flow e tuttavia mi è venuto un dubbio: la superficie agricola si è ridotta, i boschi sono aumentati (da 4 milioni di ettari negli anni 30 agli 11 milioni attuali), alcune tecniche agronomiche (che integrano varie discipline: gestione del suolo, controllo delle infestati e dei parassiti) stanno portando verso l’alto la produzione, quindi potrebbe accadere che con poca terra produciamo tanto e quindi si libererà ancora suolo agricolo. Ecco allora, in questa eventualità, visto che nel mondo un milione di persone a settimana si trasferisce in città (ci sono più opportunità), visto che su questa autostrada non c’è nessuno e ho il vuoto, la luce e il mare davanti a me (e tra l’altro vago con la mente che è una bellezza), ecco, visto e considerato tutto questo, fra qualche decennio, che ce ne facciamo della Calabria? Della Basilicata, dell’A3? No, l’ho detta male, dai. Cioè, potremmo pensare per tempo a come utilizzare questa bellezza e renderla produttiva? Perché costerà portare energia e depuratori a 300 persone su un paesino calabrese o lucano. Se si formeranno nicchie ecologiche, queste andranno manutenute. Curate. Dovranno essere vive, frequentate. Magari ci sarà spazio per agricolture diverse, che ne so, biodinamici che grazie all’agricoltura industriale (che garantisce cibo buono e pulito alla massa) spunteranno prezzi altissimi per i loro prodotti (per i benestanti). La domanda è: se questo accadrà, come faremo allora a non ripetere gli errori del passato? Le case abusive e il mare inquinato dal nostro desiderio di vacanze a poco prezzo? La risposta non la so, però qualcuno, nel mondo, ha cominciato a ipotizzare degli scenari, e forse dovremmo anche noi: essere lungimiranti è un po’ giocare a fare Dio, ed è cosa buona è giusta, lo fanno i castori, i lepidotteri e dobbiamo farlo anche noi. Solo la tecnica salverà la natura e la cultura.
Io tuttavia non c’ho pensato più di tanto, mi sono reso conto che stavo già a Reggio Calabria. Ero arrivato. Da Salerno 4 ore e 35. Quanto aveva previsto Giuseppe Scaramuzzi. E’ passato tempo, ma forse ci siamo. Certo il divario tra nord e sud è di nuovo aumentato, noi in Calabria in vacanza non andiamo più (mio figlio invece sì), ci sono un sacco di problemi nuovi e porca miseria, mi sono fermato nell’ultimo autogrill perché non trovavo il tagliando. Cioè, io sono preciso, non perdo mai niente, dove mai l’avrò messo? Vuoi vedere che a forza di vagare con la mente mi sono distratto e l’ho buttato? E se è così, quanto devo pagare? Devo pagare da Milano? Come funziona. Ah, che cretino, non si paga. Sulla Salerno-Reggio non si paga, ha pagato lo stato, cioè noi. E sono rimasto a guardare la punta della Sicilia, mi è anche passato un pensiero scemo per la testa: se ci fosse un ponte? Da qui, sarebbe un attimo e sarei in Sicilia, la tecnica ce l’abbiamo, gettiamo un ponte? Vabbè, francamente, non lo so. Ma in conclusione se volete fare un viaggio rilassante (senza partire alle tre di notte), se desiderate vagare con la mente pensando a tutto o a niente, se volete vedere e analizzare gli ultimi ritrovati in fatto di ponti, gallerie, viadotti, se non ce la fate proprio e dovete vedere la vicia, le morene glaciali e i monti della Sila, aspri e bellissimi, Reggio Calabria e il tratto dove i due mari si uniscono con quelle coltivazioni di bergamotto… spazzati da scirocco e libeccio, un incanto, o se al contrario desiderate concentrarvi e pensare al mondo, a Dio e alla tecnica, agli scenari futuri, ai problemi che abbiamo e agli strumenti per che potremmo utilizzare per trovare un rimedio, se infine volete prendervi il gusto di contraddire quello che due anni fa è rimasto in coda, bene allora la Salerno-Reggio Calabria è quello che fa per voi. Si viaggia bene, almeno per ora.
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