Con il mezzoreato la legge diventa improvvisamente diseguale per tutti, perché la sua applicazione dipende da come la interpreta ogni singolo magistrato, ogni singolo tribunale, ogni singola Corte d’a

Il reato fantasma

Giuseppe Sottile
Concorso esterno, traffico d’influenze, disastro ambientale. Tre esempi di scatole vuote che i magistrati riempiono poi a loro piacimento. L’apologo della mezzamafia.

Apologo. Molti anni dopo, il professore Aristide Perriera – che certamente aveva letto e riletto “Cent’anni di solitudine” – si sarebbe ricordato di quell’infame pomeriggio d’inverno in cui lui e i suoi alunni stavano per essere inghiottiti dal gelo. Erano accatastati in un’aula, stretta e lunga, di via Impallomeni, a due passi dal Papireto. Ed erano subissati da tali e tanti spifferi che il professore se ne stava immobile, incaramellato nel suo impermeabilino blu; mentre i ragazzi – che già smoccolavano, come le candele del Bambinello – non aspettavano altro che mollare la scuola e tornarsene a casa. Causa freddo, naturalmente. Ma a Palermo, si sa, non c’è danza senza contradanza.

 

E quando tutto sembrava pacifico, ecco la tragedia. “Professore”, gridò all’improvviso Totuccio Muscarà, dodici anni, sguisciando dal suo banco in fondo a destra. “Io a questo cornuto l’ammazzo”. E indicava, viperigno, Agatino Carabillò, due banchi più avanti. “Mi ha detto parole di mio padre e di mia madre, professore. Come faccio a non ammazzarlo? Come faccio…”, strillava, agitando la manuzza a pigna. Agatino Carabillò, che di suo era bravissimo nell’attaccare torilla con i compagni di scuola, gli aveva semplicemente detto “figlio di buttana”. Ma Totuccio Muscarà non voleva che quell’oltraggio, così rasposo e vetriolesco, sfiorasse l’immagine della mamma. E ci girò attorno, con uno svolazzo omertoso: “Mi ha detto parole di mio padre e di mia madre”. Sulla vendetta, no. Su quella era deciso, diretto e assatanato. “Lo debbo ammazzare, professore, parola d’onore che lo debbo ammazzare”. “Ma che sei pazzo? Intanto torna al tuo posto…”, urlò il professore, vestendosi d’imperio.

 

Aristide Perriera insegnava in quella scuola da diciannove anni e conosceva a memoria l’intero sillabario della violenza: dalla prima all’ultima parola, dal primo all’ultimo gesto. Ma un furore come quello che sgorgava, a fiotti, dagli occhi e dalla gola di Totuccio Muscarà non l’aveva mai visto. “Totuccio lo sai che le persone non si ammazzano mai. Mai. Mi sono spiegato?”, disse lucidando al meglio quella che era la sua passione vicaria: insegnare ai ragazzi oltre che l’italiano, anche un po’ di antimafia. Quel po’ che si poteva, naturalmente. “Non è vero che non si ammazza nessuno, professore: i mafiosi le ammazzano le persone… li ammazzano i cornuti… Agatino è un cornuto e io l’ammazzo”, replicò implacabile Totuccio. “E tu che sei mafioso?”, controreplicò, incipollato di rabbia, il professore. “Io no, però, mio padre… è della mafia”. “Che dici? Tuo padre è della mafia? Rispondimi: è della mafia, sì o no?”. Il professore Perriera ormai brandiva le domande con la foga di un esorcista alle prese con l’indemoniato. Totuccio si sentì perso. Aveva già salvato la madre, ora voleva salvare il padre. “E’ della mafia?”, chiese ultimativo il professore. “Forse mio padre non è proprio della mafia…”, rispose Totuccio, abbassando timidamente le ali e tenendosi comunque sulla sospensiva. Poi fissò negli occhi il suo sinedrio, sputò dal dente e specificò: “Ma di mezzamafia c’è sicuro”. E, affilettato come un figurino, tornò dritto al suo posto.

 

Tema. Se Totuccio Muscarà s’è inventato la mezzamafia, il Parlamento italiano – un colpo oggi, un colpo domani – s’è inventato il mezzoreato. Ha inserito cioè nel codice penale il principio del reato annunciato ma non definito. Una scatola vuota che il magistrato potrà riempire a suo piacimento: secondo l’idea che lui ha dei diritti suoi e degli altri, secondo i suoi convincimenti politici, secondo le sue convenienze personali o di cordata. I costituzionalisti definiscono queste scatole vuote “concetti giuridici indeterminati”. E per spiegare agli studenti di giurisprudenza la portata perversa di simili improvvisazioni portano ad esempio il concetto di “buonafede” richiamato con tanta facilità a proposito della legittima difesa. Il legislatore l’ha voluta tenere presente, giustamente. Ma a chi spetterà il compito di misurare la buonafede di un cittadino finito sotto inchiesta se non al magistrato? E chi potrà escludere l’ipotesi che due magistrati possano giudicare in maniera diversa, se non opposta, quella stessa buonafede con la quale i difensori cercheranno di attenuare gli effetti perversi di una difesa che forse, più che legittima, fu un pelino eccessiva?

 

Se al reato non corrisponde un crimine ben preciso, siamo tutti rovinati. Non solo per i guai che possono all’improvviso cadere sulla testa di ogni cittadino, ma perché viene sostanzialmente meno un principio sacrosanto: quello che la legge è uguale per tutti. Con il mezzoreato, invece, la legge diventa improvvisamente diseguale per tutti, perché la sua applicazione dipende da come la interpreta ogni singolo magistrato, ogni singolo tribunale, ogni singola corte d’appello. Certo, il busillis potrà sempre finire nelle mani fredde e navigate della Corte di cassazione, che potrà anche emettere una sentenza a Sezioni riunite, suo massimo organo collegiale. Ma intanto le procure e poi i gip e poi i giornali e poi i tribunali del riesame e poi tutta quella tiritera di giudici e giudicanti che ogni giorno ci chiedono conto e ragione dei nostri comportamenti, avranno abbondantemente maciullato le nostre vite, le nostre carriere, i nostri affetti, i nostri pudori, il nostro orgoglio, la nostra decenza, fino alla gogna. Con l’aggravante che potranno sempre giustificarsi dicendo: “Ma la norma era vaga e confusa, perché questi politici non sanno nemmeno scrivere un articolo di legge: che cosa possiamo farci noi poveri magistrati?”.

 


Corte di cassazione-inaugurazione anno giudiziario (foto LaPresse)


 

Intanto ci pascolano sopra. Non tutti i magistrati, va da sé: molti non hanno né il tempo né la voglia di inseguire leggi fatte con i piedi. Anzi. Hanno un tale rispetto del proprio lavoro che rifiutano persino l’ipotesi di misurarsi con i reati mal definiti. Li chiamano “reati fantasma”, nel senso che si appalesano ma non hanno sostanza; oppure “reati palindromi”, nel senso che si possono leggere, come certe curiose parole della lingua italiana, sia da sinistra verso destra che da destra verso sinistra; e danno sempre lo stesso suono. Sopra i reati fantasma ci sguazzano soprattutto i cosiddetti magistrati graticolari. Che non sono quelli particolarmente votati alla carriera politica o all’affermazione di un principio strettamente ideologico, come il benecomunismo. No. Sono soprattutto quei pubblici ministeri che – vuoi per capriccio, vuoi per necessità – finiscono per trasformare ogni loro inchiesta in una lunga, grossa e ossessiva graticola sulla quale rosolare per infiniti anni e a fuoco lento il disgraziato che, per sventura, sia capitato tra le loro mani.

 

Il “reato fantasma” per eccellenza è il concorso esterno in associazione mafiosa. Tiene banco ormai da quasi trent’anni ed è diventato il classico campo di battaglia tra garantisti e forcaioli, tra i sostenitori dello stato di diritto e i fautori della giustizia sostanziale, tra la cultura della prova e la cultura del sospetto, tra magistrati che vogliono giudicare solo in termini di fatto e di diritto e i cosiddetti “magistrati coraggiosi” che, in nome dell’antimafia, invocano sempre e comunque una legislazione d’emergenza con il preciso scopo, ovviamente, di assegnare alle procure poteri sempre più ampi e discrezionalità sempre più estese. Si pensi alle misure di prevenzione o al sequestro dei beni patrimoniali. Su questo fronte non serve più nemmeno la formulazione del reato. Se un ufficiale della Dia, Direzione investigativa antimafia, stende un verbale e mette per iscritto che attorno a te si avverte un odore di mafia, tu sarai crocifisso per il resto dei tuoi giorni: perché la sezione misure di prevenzione ti mette subito sotto sequestro i beni affidando contestualmente la gestione a una rapace confraternita di avvocati e avvocaticchi, commercialisti e cancellieri, prefetti e amici degli amici. Lo dimostrano le carte dello scandalo portato recentemente a galla da una inchiesta della procura di Caltanissetta che, senza volerlo, ha scoperchiato un giro di favori e connivenze costruito attorno a sé e alla propria cerchia familiare da Silvana Saguto, presidente della Sezione misure di prevenzione presso il tribunale di Palermo.

 


Conferenza stampa della Direzione investigativa antimafia di Palermo a seguito del sequestro di trust, beni immobili e mobili nei confronti dei fratelli Virga


 

Ma, nonostante le devianze e le storture, le misure di prevenzione non riescono ad appannare il primato del concorso esterno. Il quale, piaccia o no, resta il principe dei reati fantasma. E almeno per tre ragioni. Primo, perché nessun parlamento lo ha mai discusso e approvato; è stato introdotto da un’autonoma iniziativa di magistrati che, in maniera ardita e ancora ampiamente dibattuta, hanno creato un combinato disposto, cioè lo sposalizio di due articoli di legge: il favoreggiamento e l’associazione mafiosa. Secondo, perché il tribunale di Strasburgo, l’estate scorsa, e un giudice di Catania, poche settimane fa, hanno messo per iscritto senza riguardi e senza timidezze che non può esistere un reato senza che una legge ne definisca i contorni: nullum crimen, nulla poena sine praevia lege, dicevano i sapientissimi romani. Terzo, perché i processi avviati dalle procure sulla base di questo reato sono stati tutti infinitamente lunghi. Graticolari, per dirla senza peli sulla lingua.

 

Un motivo, dietro tante lungaggini, deve pur esserci. E basta un esame comparato di ciò che è successo in questi trent’anni tra il potere politico e il potere giudiziario per formulare qualche ipotesi. Intanto il reato fantasma è stato una manna dal cielo per quei magistrati che, avvalendosi della fumosità della norma, hanno avuto la possibilità di tenere impiccati alle proprie inchieste un buon numero di indagati, tutti di elevato spessore politico, tutti destinati a finire sulle prime pagine dei giornali e sotto le luci dei talk-show. Si pensi a Calogero Mannino, l’ex ministro democristiano, tenuto a bagnomaria per 22 anni e poi assolto. Si pensi a Renato Schifani, ex presidente del Senato, tenuto sui carboni ardenti per quindici anni e poi archiviato. O a Saverio Romano, ex ministro dell’Agricoltura, tenuto sulla graticola per otto anni. O a Mario Ciancio, editore de La Sicilia di Catania, tenuto sotto tiro per cinque anni e poi liberato di colpo da ogni incubo e da ogni persecuzione.

 


         

L'ex ministro dell'Agricoltura Saverio Romano e l'editore de La Sicilia di Catania Mario Ciancio


 

Certo, nessuno potrà mai affermare con certezza che Mannino, Schifani, Romano, Ciancio e tutti gli altri perseguitati dal concorso esterno siano stati indenni da colpe o da ombre. E’ altrettanto vero però che il reato fantasma li ha sputtanati e stritolati per anni e anni senza neppure lo straccio di una condanna: segno che le prove non c’erano prima e non si sono trovate dopo. Resta solo un dubbio, un terribile dubbio. Che i reati vaghi e vuoti, come il concorso esterno, alla resa dei conti non facciano altro che moltiplicare il potere dei magistrati. E’ come se il potere politico consegnasse nelle loro mani una delega in bianco: da usare quando ritengono più opportuno e da riempire con gli argomenti che ritengono più consoni alla loro visione dello stato, della politica, della legge, della famiglia, della vita.

 

L’esempio più lampante è quello che ci offre in questi giorni la cronaca e, in particolare, il braccio di ferro tra la procura di Potenza e il governo di Matteo Renzi. Tra tanto frastuono echeggia un reato di recente conio: il traffico di influenza, varato dal governo Monti per fronteggiare ancora una volta quella incessante e petulante emergenza che va sotto il nome di corruzione. Per illustrarlo servirebbero tomi e faldoni e brocardi. Sintetizzando – e, per giunta, grossolanamente – si può dire che prima era passibile di corruzione il privato che, per ottenere un favore, consegnava una mazzetta a un rappresentante della pubblica amministrazione. Oggi il magistrato non deve più dimostrare che c’è stato un passaggio di denaro, basta che il corrotto abbia ricavato dal suo gesto una qualche utilità. E non è più necessario nemmeno il pubblico ufficiale, basta che il soggetto in questione abbia peso e, di conseguenza, la capacità di influenzare positivamente il percorso di un provvedimento, di un appalto, di un articolo di legge, di un emendamento. Questa la scatola vuota consegnata dal Parlamento italiano al libero arbitrio delle procure. E i risultati, anche se a scoppio ritardato, cominciano a vedersi. I magistrati di Potenza, per inchiodare alle sue responsabilità il compagno della ministra Guidi, hanno dato una loro forma al concetto molto vago di utilità: Gianluca Gemelli avrebbe ottenuto un emendamento favorevole ai suoi interessi grazie all’influenza che lui era in grado di esercitare sulla propria fidanzata e quindi sull’intero governo. Roba da fasciarsi la testa, signori miei.

 


L'ex ministro Federica Guidi


 

Bene. Detto questo, immaginiamo ora di entrare in un liceo e di chiedere agli studenti quale significato può essere attribuito alla parola “traffico”, alla parola “influenze” e alla parola “utilità”. E poi proviamo a immaginare quali e quanti significati potrà assegnare ogni magistrato a questo nuovo reato.

 

Subito dopo tiriamo dal cilindro un terzo fantasma: il disastro ambientale, altra arma micidiale consegnata alla magistratura inquirente senza che nessuno abbia mai definito con precisione contorni e limiti di ogni possibile intervento. La cronaca ci dice che la procura di Potenza ha già sequestrato le cartelle cliniche di oltre duecento sventurati morti per un tumore. Lo scopo è quello di accertare se la causa dei decessi sta nell’inquinamento prodotto dalle trivellazioni di Tempa Rossa. Un obiettivo certamente meritorio. Ma se nessun medico, da Ippocrate a Umberto Veronesi, conosce ancora le ragioni scientifiche che stanno alla base di un tumore, come faranno i pm a stabilire che il cancro di quel bambino o di quella vecchietta è riconducibile alle scorie abbandonate senza scrupoli, sui paradisi terrestri della Basilicata, dagli orrendi petrolieri?

 

Maledetti fantasmi. Quanti miti, quante illusioni, quanti incanti, quanti inganni. Il Fantasma dell’Opera, per esempio, ti ammalia con il palcoscenico ma poi ti trascina per logge, botole e cunicoli; ti fa toccare il cielo e il sole ma poi ti abbaglia con le luci della ribalta; ti promette la realtà e ti soffoca con la finzione.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.